Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 18-03-2011) 18-07-2011, n. 28211 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Bergamo, con sentenza del 17.3.2001, affermava la responsabilità penale di C.L. in ordine al reato di cui:

– al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 (per avere acquistato insieme ad altri, o quantomeno per essersi intromesso nell’acquisto di circa un chilogrammo di sostanza stupefacente del tipo cocaina – acc. in (OMISSIS)) e lo condannava alla pena ritenuta di giustizia.

Tale pronunzia di condanna veniva confermata dalla Corte di appello di Brescia, con sentenza del 29.4.2002, annullata con rinvio dalla Corte di Cassazione con sentenza del 18.11.2008, essendosi ravvisata la nullità del decreto di citazione per il giudizio di appello a cagione dell’omesso avviso all’unico difensore di fiducia.

Nel giudizio conseguente al rinvio altra sezione della Corte di appello di Brescia, con sentenza del 28.5.2010, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ribadiva l’affermazione della responsabilità penale del C. e rideterminava la pena principale a lui inflitta in anni sette, mesi otto di reclusione ed Euro 36.000,00 di multa, confermando la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici.

Avverso tale sentenza hanno proposto separati ricorsi il C. ed il suo difensore. Quest’ultimo ha eccepito:

1) la violazione della normativa in tema di gratuito patrocinio, assumendo al riguardo che la tardiva adozione del provvedimento sulla richiesta avanzata dall’imputato all’udienza del 18 maggio 2000, in ordine alla quale la decisione era intervenuta soltanto il 14 maggio 2001 (allorquando erano scaduti i termini per presentare i motivi di impugnazione), aveva comportato che l’imputato, sprovvisto di difesa tecnica, era stato costretto – con evidente limitazione dei propri diritti – ad effettuare da sè un importante atto difensivo quale l’impugnazione della sentenza di primo grado;

2) la erroneità dell’affermazione secondo la quale l’imputato aveva comunque un difensore fiduciario (l’avvocato Vito Cavarretta), il quale ben avrebbe potuto redigere adeguati motivi di appello;

3) la inutilizzabilità della testimonianza resa (all’udienza del 15.12.2000) da L.Z.A., maresciallo dei ROS dei Carabinieri, poichè il sottufficiale era "parte interessata ai fatti di causa", essendo stato successivamente incriminato anche per la cessione della cocaina al C. nel contesto di un’attività provocatoria connotata da profili di illiceità;

4) la contraddittorietà della valutazione degli elementi di prova ai fini dell’affermazione della responsabilità, in quanto i giudici del merito – pure avendo considerato credibili le dichiarazioni del C. secondo le quali egli, assuntore di cocaina, aveva avuto interesse ad inserirsi nell’operazione di trasferimento della droga al solo fine di poter lucrare "un campione di sostanza" – avrebbero incongruamente affermato, poi, che l’imputato si era attivamente interposto in quella operazione fornendo la sua partecipazione alla complessiva attività di cessione;

5) la incongruità del mancato riconoscimento di una situazione di non-punibilità ai sensi dell’art. 49 c.p., comma 2, (inidoneità dell’azione posta in essere dall’imputato), in quanto tutta l’operazione riferita all’introduzione in Italia della cocaina ed alle successive cessioni sarebbe stata svolta in seguito ad istigazione e con l’apporto esclusivo dato dagli agenti del ROS dei Carabinieri e dall’avallo del pubblico ministero che aveva coordinato le indagini (poi rinviati a giudizio per illeciti commessi anche in relazione alla vicenda in oggetto).

La Corte territoriale, in proposito, non avrebbe effettuato alcun "controllo rigoroso sulle attività poste in essere dall’U.P.G. di copertura in relazione alla statuizione legislativa D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 97";

6) la violazione delle previsioni dell’art. 597 c.p.p., comma 1, avendo la Corte di merito fatto riferimento ad una sentenza di condanna emessa nei confronti dell’imputato l’11.2.2003 dalla Corte di appello di Milano (irrevocabile il 10.12.2004 e risultante dal certificato penale), senza procedere all’acquisizione materiale della sentenza stessa. Ciò non ha consentito di conoscere testualmente la motivazione di quel documento e rende non controllabile l’affermazione secondo la quale il C. "era rimasto coinvolto in una condotta analoga, segno di una piena conoscenza del circuito criminale specifico, e certo non soltanto come mero consumatore";

7) la incongruità del diniego di circostanze attenuanti generiche e dell’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.

Il C., a sua volta, con atto di gravame redatto personalmente, ha lamentato che "per il fatto oggetto del giudizio lo Stato italiano non ha mai presentato domanda di estradizione al Governo dello Stato del Belgio" e che non poteva trarsi occasione dalla sua presenza fisica nel territorio nazionale "per sottoporlo a provvedimenti diversi da quelli per i quali l’estradizione è stata concessa".

Motivi della decisione

Entrambi i ricorsi non sono meritevoli di accoglimento e devono essere rigettati.

1. Nella fattispecie in esame il provvedimento di ammissione al gratuito patrocinio è stato emesso il 14 maggio 2001, mentre la relativa istanza era stata depositata (e la stessa sentenza di primo grado era stata pronunziata ed anche depositata) anteriormente alla vigenza della modifica introdotta nella L. 30 luglio 1990, n. 217, art. 6 dalla L. 29 marzo 2001, n. 134, che in quella disposizione normativa inserì, prima ancora del definitivo assetto dato all’istituto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 in materia di spese di giustizia, le parole "a pena di nullità assoluta ai sensi dell’art. 179 c.p.p., comma 2", per sanzionare il mancato rispetto del termine per la decisione (da rendere immediatamente nel caso di presentazione dell’istanza all’udienza, nei dieci giorni in caso di presentazione in cancelleria).

Deve, pertanto, anzitutto rilevarsi che solo successivamente all’entrata in vigore della L. n. 134 del 2001, al fine di soddisfare la necessità di assicurare celermente il patrocinio gratuito ai non abbienti, è stata legislativamente garantito con la comminatoria più grave tra le possibili sanzioni processuali (la nullità assoluta) il rispetto dei termini stabiliti per provvedere sulla richiesta di ammissione al beneficio.

In relazione alla novellata formulazione legislativa, poi, la giurisprudenza ormai consolidata di questa Corte è orientata nel senso che la nullità prevista per il caso che il giudice non deliberi nei termini di legge sull’istanza di ammissione avanzata dall’imputato non opera quando l’omissione nel provvedimento resti priva di concreti effetti pregiudizievoli per la difesa dell’interessato (vedi Corte Cost., 1 ottobre 2003, n. 304 e Cass., sez. 6, 30.11.2004, n. 46510, Candiano).

Nella specie nessun pregiudizio è derivato alla difesa, poichè l’imputato, nel giudizio svoltosi davanti al Tribunale in composizione monocratica, venne assistito dall’avvocato Vito Cavarretta, che, in data 10 febbraio 2001, egli proprio aveva nominato dal carcere quale suo difensore di fiducia (revocato soltanto nel luglio del 2001, dopo la scadenza dei termini utili per la presentazione dell’appello), dovendosi escludere la mera congettura che la difesa possa non essere stata adeguata ed i motivi di appello non siano stati redatti da quel difensore solo perchè la prestazione professionale era priva di garanzie sul piano retributivo, anche alla stregua del principio generale secondo il quale la difesa tecnica inadeguata non può in alcun modo viziare l’esito del processo.

2. Dalla effettiva esistenza dell’atto di nomina fiduciaria, pervenuto all’autorità giudiziaria procedente il 16 febbraio 2001, emerge la piena legittimità dell’affermazione della Corte di appello di Brescia secondo la quale per mero errore l’avvocato Cavaretta era stato indicato quale "difensore di ufficio" nel verbale di udienza del 17 marzo 2001, data della discussione e della pronunzia della sentenza di primo grado.

Restano così smentite le doglianze di "interpretazione ipotetica e congetturale" svolte al riguardo nel ricorso: esiste una nomina del difensore di fiducia, effettuata mediante una formale dichiarazione di volontà dell’imputato, mentre non emerge alcun elemento da cui possa dedursi la mancata accettazione dell’incarico da parte del professionista cosi nominato.

3. Quanto alla testimonianza di L.Z.A., maresciallo dei ROS dei Carabinieri, è lo stesso ricorrente ad evidenziare che, alla data in cui la deposizione venne resa (udienza del 15.12.2000), non risultava l’esistenza di alcuna indagine a carico di quel sottufficiale.

La Corte di appello di Brescia, invece, all’udienza del 28.5.2010, acquisì il decreto 13.6.2005 con cui il G.I.P. del Tribunale di Milano aveva disposto il rinvio a giudizio del L. per avere partecipato ad un’associazione a delinquere finalizzata all’importazione ed allo spaccio di droga, "in particolare prendendo parte attiva alle operazioni di importazione, di ricerca degli acquirenti e di cessione della sostanza stupefacente, procedendo ai servizi di osservazione in modo funzionale ai fini dell’organizzazione, redigendo e sottoscrivendo relazioni ideologicamente false dal 1991 al 1997".

Secondo la prospettazione difensiva, in seguito a tale acquisizione, la Corte di merito avrebbe dovuto procedere ad "una nuova disamina degli atti processuali" (che illegittimamente avrebbe omesso), non potendo più utilizzare le dichiarazioni di un teste che aveva "interesse a portare avanti la tesi accusatoria nei confronti del C.L. per difendere al meglio il proprio operato".

Osserva al riguardo il Collegio che l’audizione del teste L., all’udienza del 15.12.2000, non avvenne in violazione dell’art. 197 c.p.p. e che la rinnovazione del dibattimento deve ritenersi correttamente denegata dalla Corte territoriale, poichè l’affermazione di responsabilità del C. risulta correlata alle constatazioni dirette (precedute da osservazioni pregresse) dei Carabinieri che parteciparono all’operazione del 3 settembre 1996 (nel corso della quale venne sequestrato il chilogrammo di cocaina ed il C. venne trovato in possesso della somma di L. 7.500.000) ed alle confessioni di altri coimputati, in una situazione in cui la condotta dello stesso C. risulta completamente avulsa dai comportamenti delittuosi poi ascritti al L..

4. L’imputato è stato condannato per essersi intromesso nell’acquisto di circa un chilogrammo di cocaina (costituente parte di una maggiore quantità introdotta in Italia dalla Colombia, di cui i Carabinieri avevano acquisito sostanzialmente la disponibilità ed il controllo anche attraverso l’utilizzazione di un agente sotto copertura).

Nel contesto dell’articolata attività rivolta alla cessione dello stupefacente, tale G.M. aveva proposto l’acquisto di parte della sostanza al C.L., che aveva mostrato interesse all’operazione.

Nella vicenda erano stati coinvolti tali B.L. e L. V. e, mancando il denaro per l’acquisto, il finanziatore era stato reperito in tale P.R..

C., unitamente agli altri, si era recato a Bergamo per provare la droga ed ivi gli era stato consegnato un campione della cocaina.

Nel pomeriggio del 3 settembre 1996, in Bergamo, C., dopo essersi intrattenuto anche con G., si era poi unito in un bar a Li., P. e B.. La sostanza stupefacente era stata consegnata al G., che in serata l’aveva data al Li., unendosi poi a P., B. e C.. A questo punto erano intervenuti i Carabinieri, che avevano sequestrato la droga e rilevanti somme di denaro.

La responsabilità del C. è stata ravvisata in quanto egli non si era limitato a mettere in contatto il G. con il Li., ma li aveva accompagnati a Bergamo per provare la merce e, secondo le sue stesse ammissioni, aveva preso in consegna i 50 milioni (forniti dal P.) che furono consegnati per l’acquisto.

Non poteva darsi credito, dunque, alla prospettazione difensiva secondo la quale l’imputato, assuntore di cocaina, avrebbe agito esclusivamente per entrare in possesso di un campione della sostanza, in quanto egli, pur dopo avere raggiunto tale scopo, aveva continuato a partecipare attivamente alle trattative di acquisto, concordando pure con i complici la consegna di un corrispettivo inferiore a quello in primo momento pattuito.

Trattasi di una ricostruzione razionale dei fatti e dell’apporto partecipativo dell’imputato agli stessi, ove il proposito di conseguire il campione non si pone in contrasto con la complessiva attività da lui posta successivamente in essere.

La motivazione riferita al riconoscimento della responsabilità, nella sentenza impugnata, appare esauriente e corrispondente alle premesse fattuali acquisite in atti, in quanto essa esamina tutti gli elementi decisivi a disposizione e fornisce risposte coerenti alle obiezioni della difesa; mentre le censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione dei fatti e dell’attribuzione degli stessi alla persona dell’imputato non sono proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata.

5. Quanto alla doglianza riferita alla mancata applicazione dell’art. 49 c.p., comma 2, i giudici del merito hanno evidenziato, con congrua e logica motivazione, che l’attività dei militari del ROS (i quali tenevano sotto costante controllo i trasferimenti della cocaina) non aveva inciso "sull’attuazione della condotta del reo a raggiungere il risultato che era nei suoi propositi", in perfetta aderenza alla giurisprudenza costante di questa Corte secondo la quale, nell’ipotesi della presenza di agente provocatore, l’esclusione della punibilità stabilita nel capoverso dell’art. 49 cod. pen. presuppone necessariamente la derivazione assoluta ed esclusiva dell’azione delittuosa dall’istigazione di tale soggetto e non può conseguentemente configurarsi quando l’attività dell’agente provocatore costituisce un fattore estrinseco che ha dato spunto all’azione delittuosa che sia stata voluta e realizzata dal reo secondo impulsi e modalità concrete allo stesso autonomamente riconducibili (vedi Cass.: sez. 6, 24.1.2008, n. 16163 (avente ad oggetto analoga vicenda connessa alle operazioni dei ROS), nonchè sez. 5, 26.1.2010, n. 11915).

Anche se l’appartamento di Bergamo, dove la cocaina era custodita, fosse stato effettivamente predisposto dai Carabinieri del ROS, resta il fatto che l’imputato non ha mai avuto alcun contatto con agenti provocatori e si è prestato volontariamente a porre in essere un’attività di ricerca degli acquirenti non propostagli da personale di copertura, prestando direttamente attività rivolta a favorire l’operazione di consegna di una parte del quantitativo complessivo dello stupefacente.

6. A norma dell’art. 236 c.p.p., è consentita l’acquisizione dei certificati del casellario giudiziale, nonchè delle sentenze irrevocabili di qualunque giudice italiano, ai fini del giudizio sulla personalità dell’imputato.

La Corte di merito ha fatto riferimento alla sentenza definitiva 11.2.2003 della Corte di appello di Milano (con condanna ad anni otto di reclusione, attualmente in esecuzione, per fatti accertati nel dicembre del 1994), evincendone l’esistenza dal certificato penale.

Essa non ha utilizzato ai fini decisori le argomentazioni svolte in quella sentenza, limitandosi ad evidenziare come quella precedente condanna smentisse la prospettazione difensiva dell’imputato secondo la quale egli era un mero consumatore di droga, ignaro del circuito criminale specifico.

Non era necessaria, pertanto, l’acquisizione di quel provvedimento giudiziario, non dovendosi compiere alcuna valutazione o verifica ai sensi dell’art. 238-bis c.p.p..

7. La richiesta di concessione di circostanze attenuanti genetiche e dell’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, non è stata valutata dalla Corte di merito, poichè contenuta in "motivi nuovi" di appello presentati tardivamente ed avverso tale statuizione nessuna doglianza viene svolta nei ricorsi.

8. L’atto di gravame redatto personalmente dal C. è poco comprensibile per oggettiva carenza di specificazione ed introduce, comunque, una doglianza che non era stata svolta con i motivi di appello.

9. Al rigetto dei ricorsi segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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