Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 26-01-2011) 18-07-2011, n. 28238

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 9 aprile 2001 il Tribunale di Savona ha assolto C.F., F.F. e B.F. dai reati di disastro doloso continuato e aggravato e di tentato avvelenamento di acque e falde acquifere destinate all’alimentazione umana, agli stessi contestati in concorso ai capi a) e b) dell’imputazione, e ha assolto A.E. dal delitto di falso in atto pubblico, continuato e aggravato, allo stesso contestato al capo f).

2. La Corte d’appello di Genova, con sentenza del 2 marzo 2009, provvedendo nei confronti di C.F., F.F., B.F. e A.E., ha dichiarato inammissibili, ai sensi dell’art. 591 cod. proc. pen., lett. c), in relazione all’art. 581 cod. proc. pen., gli appelli proposti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero dell’Ambiente, dall’Associazione World Wildlife Fund e dall’Associazione italiana Legambiente, e, in parziale riforma della sentenza di primo grado, appellata anche dalla Procura della Repubblica di Genova e dalla parte civile Regione Liguria, ha dichiarato F.F. colpevole del reato di disastro doloso continuato e aggravato, contestato al capo a), e, concesse le circostanze attenuanti generiche subvalenti rispetto alle aggravanti contestate, l’ha condannato alla pena di anni quattro e mesi sei di reclusione, oltre al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile Regione Liguria, da liquidarsi in separato giudizio civile.

Con la stessa sentenza la Corte d’appello di Genova ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di B.F. per essere il reato ascrittole estinto per morte del reo, e, confermando nel resto la sentenza, ha confermato l’assoluzione di F.F. per il reato di tentato avvelenamento di acque e falde acquifere destinate all’alimentazione umana, di C.F. per i reati di disastro doloso continuato e aggravato e tentato avvelenamento di acque e falde acquifere, e di A.E. per il reato di falso ideologico continuato, allo stesso contestato in via esclusiva al capo F).

3. La vicenda giudiziaria, come ricostruita nei due gradi del giudizio, era parte di una complessa indagine che aveva preso avvio dalle dichiarazioni di F.F., gestore di una cava abusiva di materiale lapideo sita in località (OMISSIS), che aveva riferito di avere, dietro compenso, a seguito di incarico ricevuto da C.F. nel 1983, trasportato e interrato migliaia di fusti provenienti da varie imprese nella predetta cava e in diverse discariche (discarica in loc. (OMISSIS), discarica (OMISSIS)).

4. Il Tribunale, ritenuti contestati il reato di disastro doloso, qualificato come delitto a consumazione anticipata che non richiede per la sua configurazione il prodursi dell’evento dannoso che "espone a pericolo collettivo con effetti gravi complessi ed estesi un numero indeterminato di persone", e il reato di tentato avvelenamento di acque destinate all’alimentazione, all’esito della svolta istruttoria, condotta attraverso l’escussione di numerosi testi (ispettore L., C., F. C., G., P., Pe., A., R., S.), l’esame delle relazioni USL sui prelievi effettuati nella cava e nelle singole discariche, in alcuni dei fusti rinvenuti e in alcuni pozzi a valle della cava, l’esame degli esiti delle analisi effettuate dai consulenti del P.M., delle analisi svolte dal servizio di igiene pubblica della USL (OMISSIS), della perizia del (OMISSIS) disposta dal Pretore di Finale Ligure e della perizia disposta in data (OMISSIS) dal G.i.p. del Tribunale di Savona, ha ritenuto non provate le condotte contestate.

4.1. La sentenza di primo grado riteneva, in particolare, che le modalità di gestione delle discariche e la presenza di fusti e di sostanze dubbie all’interno delle aree interessate non erano sufficienti per ritenere integrati i reati contestati di disastro ambientale e di tentato avvelenamento di acque e falde acquifere, sul rilievo che era emersa la presenza di sostanze tossico-nocive in concentrazioni superiori ai limiti di legge in soli cinque dei dieci campioni prelevati nella cava (OMISSIS), e che erano assenti dati certi in ordine "alla composizione delle sostanze, alla loro potenza inquinante, alla capacità di penetrazione nel terreno e alla velocità di infiltrazione", oltre che in ordine alla composizione del terreno nel quale le sostanze erano occultate, alla sua permeabilità in rapporto a ciascun componente, alle condizioni di occultamento, al tipo di recipienti utilizzati per lo stoccaggio, alle condizioni di conservazione dei recipienti e al tempo necessario per l’eventuale rottura definitiva degli stessi.

Nè, secondo il Tribunale, era provato il tentativo di avvelenamento delle falde acquifere, attesa la non accertata presenza di sostanze inquinanti nelle acque monitorate per le discariche di (OMISSIS), oltre ad evidenziarsi la non configurabilità, comunque, del tentativo per l’incompatibilità del dolo indiretto, desumibile dalla condotta contestata, con la fattispecie di cui all’art. 56 cod. pen..

Anche il D.P.C.M. 28 maggio 1992, che aveva dichiarato lo stato di emergenza per fronteggiare il pericolo del rinvenimento di sostanze tossico-nocive in discariche abusive di alcuni comuni della Regione Liguria, non era significativo per provare il fatto, perchè non supportato da dati tecnici relativi alla individuazione delle sostanze inquinanti, al grado di tossicità, ai rii interessati a tali sostanze e alla presenza di falde destinate all’alimentazione.

5. La Corte d’appello, che aveva disposto la perizia richiesta dal Procuratore Generale e dalle parti civili costituite per accertare "la natura e la pericolosita delle sostanze ritrovate e messe in sicurezza, anche in relazione alle modalità con le quali le stesse vennero stoccate e interrate", riteneva che gli esiti della stessa, espletata dal prof. B.P., avevano "colmato le lacune evidenziate dal primo giudice". 5.1. La perizia, disposta il 4 febbraio 2005, era stata condotta, come precisato dal perito, "per il notevole lasso di tempo trascorso, sulla base della documentazione reperita presso veri enti e ascoltando le persone che avevano gestito l’emergenza ambientale effettuando la bonifica del sito e acquisendo le osservazioni dei consulenti tecnici di parte", e, in particolare aveva riguardato la cava (OMISSIS), dove erano stati smaltiti migliaia di fusti contaminati provenienti da varie attività e posta in vicinanza dei pozzi per acqua destinata all’alimentazione, partendo dall’analisi dei cinque campioni dei dieci prelevati nella detta cava dai tecnici della USL n. (OMISSIS), risultati contenere sostanze tossico- nocive in concentrazione superiore ai limiti di legge.

5.2. Sulla base degli elementi forniti dal perito sia nella relazione scritta sia nel corso del suo esame all’udienza del 12 febbraio 2009, che erano riportati nella sentenza, la Corte riteneva indubbia l’esistenza del nesso di causalità tra lo smaltimento dei fusti nella ex-cava (OMISSIS), che aveva comportato lo stoccaggio di rifiuti tossico-nocivi e pericolosi, non confinati, rispetto all’ambiente circostante, in un sito idoneo, e lo stato di degrado ambientale che si era manifestato, con il deterioramento dei fusti, attraverso l’inquinamento del terreno e delle acque sotterranee, di proporzioni tali da determinare la dichiarazione, con decreto del Presidente del Consiglio Ministri del 28 maggio 1992, dello stato di emergenza per fronteggiare la situazione di estremo pericolo per la pubblica incolumità e per l’ambiente, e l’urgente bonifica dell’intera zona interessata, per le emerse caratteristiche di contingibilità e urgenza per il risanamento del sito, rilevate nel corso di un esteso sopralluogo da funzionari del Ministero dell’Ambiente, della Regione Liguria, delle USL n. (OMISSIS), e della Provincia di Savona.

La Corte di merito escludeva la possibilità di ricostruzioni alternative, richiamava i dati forniti dal perito in merito alla qualità e quantità dei rifiuti e alla estensione dell’inquinamento, la cui eliminazione era passata attraverso una lunga opera di bonifica, anche economicamente molto impegnativa, richiamava l’istruttoria dibattimentale svoltasi in primo grado, riteneva certa l’idoneità della condotta illecita contestata, consistita nell’interramento di circa ventimila fusti contenenti rifiuti tossico- nocivi e altamente inquinanti, a porre in pericolo l’incolumità pubblica e riteneva integrate le caratteristiche giuridiche del reato di cui all’art. 434 cod. pen., delineate nella premessa della sentenza.

5.3. Secondo la Corte, era logico ritenere che F.F., "per l’importanza del problema dello smaltimento dei rifiuti e per l’imponenza del numero dei fusti da sistemare nella cava", dove erano stati rinvenuti ventimila fusti, "abbia avuto consapevolezza fin dall’inizio della illiceità dell’operazione richiestagli, a suo dire, dietro compenso da C.F., ma anche della sua pericolosità", sì da ritenere integrato l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 434 cod. pen., costituito dal dolo generico, e cioè dalla coscienza e volontà di compiere l’azione o l’omissione idonea a cagionare il disastro, con l’intenzione di porre in pericolo la pubblica incolumità, attraverso l’inquinamento del suolo e del sottosuolo, accettando il rischio che l’evento potesse realizzarsi.

L’aver esposto al pericolo con effetti gravi un numero indeterminato di persone costituiva, secondo la Corte, la ragione per la quale F.F. "tormentato dal rimorso" aveva consentito, con le sue dichiarazioni e indicazioni, di scoprire sia l’esistenza della discarica priva delle necessarie autorizzazioni dietro la cava da lui gestita, sia l’illecita gestione, con fini speculativi, del problema dello smaltimento dei rifiuti a partire dal 1980.

La responsabilità del solo F.F. era da porre in relazione all’intervenuto decesso dei coimputati B.F. e F.F. e alla mancata proposizione dell’appello nei confronti di C..

5.4. La Corte riteneva, invece, che l’imputato F.F. non dovesse essere ritenuto responsabile del reato di tentato avvelenamento delle acque, sia per la non configurabilità del tentativo nei delitti di pericolo e l’incompatibilità tra il tentativo e il dolo indiretto o generico, sia per la mancanza di dati probativi di danni alla salute pubblica derivanti dal riscontrato avvelenamento delle acque potabili, determinato dall’interramento dei fusti nella cava (OMISSIS), per le modalità con le quali le sostanze tossiche e nocive si erano riversate nelle falde acquifere sotterranee, dipendenti soprattutto dalle eccezionali piene del rio (OMISSIS). Neppure, secondo la Corte, era individuabile l’intento del F. di avvelenare le falde acquifere piuttosto che quello di ricavare un illecito guadagno dall’illecito smaltimento dei rifiuti, potendo lo stesso rappresentarsi, per le sue cognizioni tecniche, l’inquinamento del suolo e non il successivo avvelenamento delle acque.

5.5. Quanto alla dosimetria della pena, la Corte partiva dalla pena base di anni 4 di reclusione per il reato di cui all’art. 434 cod, pen., comma 2, che aumentava per l’aggravante di cui all’art. 61 cod. pen., n. 5, ritenendo subvalenti le attenuanti generiche che concedeva, e aumentava per la continuazione, determinando la pena finale in anni 4 e mesi 6 di reclusione.

6. Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione F.F., con il ministero del suo difensore, avv. Carlo Coniglio, chiedendone l’annullamento sulla base di quattro motivi.

6.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e), per mancanza della motivazione in riferimento alla sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 434 cod. pen., comma 2, contestata al capo a).

Il ricorrente, in particolare, richiama le argomentazioni poste dal Tribunale di Savona a fondamento della pronuncia assolutoria in ordine al reato di cui al capo a) ed evidenzia che detto primo Giudice, all’esito della complessa istruttoria dibattimentale, aveva ritenuto non provata neppure la fattispecie base di disastro doloso a consumazione anticipata, che, prevista dall’art. 434 cod. pen., comma 1, non richiede l’effettiva verificazione del danno, ma solo la sussistenza di un mero pericolo concreto di verificazione dello stesso.

Secondo il ricorrente anche il Giudice d’appello nel disporre, in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen., la perizia richiesta dalla Procura Generale e dalle parti civili, aveva ritenuto "allo stato non dimostrato il pericolo di disastro ambientale" e necessario "colmare le lacune evidenziate, a conclusione della complessa istruttoria dibattimentale, dal primo giudice".

Tuttavia, ad avviso del ricorrente, la Corte non avrebbe chiarito in sentenza se l’attività peritale avesse consentito di ritenere integrata la sola fattispecie base di cui all’art. 434 cod. pen., comma 1, o avesse "abbracciato" anche la contestata aggravante ad effetto speciale di cui al comma 2.

La motivazione della sentenza è stata, comunque limitata alla sussistenza del reato base di pericolo, e la mancanza di motivazione in merito alla contestata aggravante comporta l’annullamento della sentenza.

6.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e), per manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato di disastro doloso di cui al capo a).

Secondo il ricorrente la prova del tutto "tautologica" della consapevolezza piena da parte sua della illiceità e della pericolosità dell’operazione compiuta, tratta dall’importanza del problema dello smaltimento dei rifiuti e dall’elevato numero dei fusti da sistemare nella cava, prescinde dal rilievo che la rappresentazione del concreto rischio che dalla condotta potesse derivare un disastro ambientale suppone cognizioni tecnico- scientifiche, che esso ricorrente non possiede, e la cui complessa valutazione è dimostrata dal supplemento istruttorio disposto dalla Corte per accertare, nonostante il ritrovamento dei ventimila fusti nella cava, se dalla condotta posta in essere fosse derivato un fenomeno di inquinamento del suolo e sottosuolo o un concreto pericolo di disastro ambientale.

Secondo il ricorrente, l’insussistenza dell’elemento psicologico è anche dimostrata dalla contraddittoria precisazione fatta dalla Corte quando, in relazione al reato di cui all’art. 439 cod. pen., per il quale esso ricorrente è stato assolto, ha evidenziato che il suo intento era quello di ricavare un illecito guadagno per lo smaltimento dei rifiuti, piuttosto che quello di avvelenare le falde acquifere.

6.3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la nullità dell’ordinanza del 4 febbraio 2005, con la quale è stata ammessa la perizia ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen., e la consequenziale nullità della sentenza ex art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), per violazione delle norme processuali di cui all’art. 178, lett. c), e art. 228 cod. proc. pen., sul rilievo che la perizia non si è svolta sui fusti sotterrati, costituenti corpo di reato, ma soprattutto su documentazione relativa alla messa in sicurezza della zona della cava di Loc. (OMISSIS), riguardante attività svolte da altre autorità al di fuori del processo, senza contraddittorio delle parti e su atti che non hanno mai fatto parte del fascicolo del dibattimento e dello stesso Pubblico Ministero, senza rilievi di quest’ultimo e delle parti civili, che hanno inciso negativamente sul diritto di difesa dell’imputato.

6.4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce che il reato di cui all’art. 434 cod. pen., comma 1, per cui vi è condanna, è certamente prescritto, e rileva al riguardo che per la vecchia disciplina della prescrizione, applicabile nella specie per la risalenza al 2003 dell’inizio del giudizio di appello, il termine di prescrizione è di dieci anni e, per effetto della interruzione, di quindici anni.

In relazione al tempus commissi delicti, alla sospensione del termine nel periodo dal 28 aprile 2006 al 30 settembre 2008 e alla intervenuta interruzione, la prescrizione, ad avviso del ricorrente, è maturata il 26 luglio 2009, nel periodo compreso tra il deposito della sentenza d’appello e la scadenza del termine per proporre ricorso per cassazione.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo è fondato.

2. Questa Corte ha più volte affermato che con il delitto punito dall’art. 434 cod. pen., comma 1, è tutelato il bene giuridico della pubblica incolumità espressamente richiamato nel contesto della stessa norma, esposto a pericolo dagli attentati alla sicurezza delle costruzioni o da altre cause dolose non specificatamente previste dalla legge. Si tratta, in particolare, di un delitto di attentato innominato, che si realizza qualunque sia l’atto o il fatto costitutivo dell’azione lesiva, e la cui integrazione è anticipata al momento in cui sorge il pericolo per la pubblica incolumità.

Il verificarsi del crollo o del disastro, verso cui l’azione, causalmente orientata, deve dirigersi, integra, invece, la fattispecie aggravata presa in considerazione autonomamente dal secondo comma dello stesso articolo, con aggravamento di pena (Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006, dep. 06/02/2007, P.G. in proc. Bartalini e altri, Rv. n. 235668).

2.1. Al fine di una maggiore caratterizzazione del predetto reato, deve rilevarsi che, a differenza degli attentati disciplinati dall’art. 432, comma 1, e art. 433 cod. pen., commi 1 e 2, che prescindono dallo scopo dell’azione e nei quali la volontà dell’agente non trascende l’evento di pericolo realizzato, la fattispecie di cui all’art. 434 cod. pen., comma 1, presuppone un’offesa in fieri, colta in anticipo rispetto al suo compiuto realizzarsi, e sorretta dall’elemento soggettivo del dolo (Sez. 1, n. 1332 del 14/12/2010, dep. 19/01/2011, Zonta, Rv. 249283, non massimata sul punto).

In particolare, sul piano oggettivo l’idoneità dell’azione deve essere considerata sotto il profilo potenziale, a prescindere da eventi esterni o sopravvenuti, essendo requisito che connota la nozione di disastro la "potenza espansiva del nocumento" e Inattitudine a mettere in pericolo la pubblica incolumità", come emerge anche dai lavori preparatori del codice penale e, pertanto, implicando che sia cagionato un evento di danno o di pericolo straordinariamente grave e complesso, non eccezionalmente immane, caratterizzato dalla potenzialità di diffondersi ampiamente nello spazio circostante la zona interessata dall’evento e nei confronti di un numero indeterminato di persone (Sez. 3, n. 9418 del 16/01/2008, dep. 29/02/2008, Agizza, Rv. 239160; Sez. 1, n. 30216 del 25/06/2003, dep. 17/07/2003, Barillà, Rv. 225504; Sez. 4, n. 8171 del 10/01/1985, dep. 25/09/1985, Barba, Rv. 170463).

Sul piano soggettivo occorre per l’integrazione delle indicate fattispecie la coscienza e volontà di compiere l’azione o l’omissione idonea a cagionare il disastro, che costituisce l’offesa del bene tutelato dalla norma, restando estraneo al dolo l’effettiva produzione del disastro che costituisce una circostanza aggravante che va posta a carico dell’agente per il solo fatto oggettivo della sua produzione. In tal modo, il dolo è intenzionale rispetto all’evento di disastro ed è eventuale rispetto al pericolo per la pubblica incolumità (Sez. 1, n. 1332 del 14/12/2010, dep. 19/01/2011, Zonta, Rv. 249283).

3. Nel caso di specie, all’imputato è stato contestato il reato di cui all’art. 434 cod. pen., commi 1 e 2, e, con riguardo alla qualificazione giuridica dello stesso, la sentenza impugnata ha richiamato l’esame, condotto dal primo giudice, che, sulla base del concetto di disastro inteso come evento di danno che espone a pericolo collettivo con effetti gravi complessi ed estesi un numero indeterminato di persone, l’ha ritenuto come delitto a consumazione anticipata che non richiede il prodursi dell’evento dannoso.

Tale iniziale inquadramento della fattispecie è stato ripreso dalla Corte quando, all’esito dell’esame dei dati forniti dal perito, ha ritenuto la certa idoneità della condotta di interramento di circa ventimila fusti, contenenti rifiuti tossico-nocivi e altamente inquinanti, a cagionare un disastro ambientale e a porre in pericolo l’incolumità pubblica, e ha ritenuto che tale condotta avesse le caratteristiche giuridiche del reato di cui all’art. 434 cod. pen., in relazione al quale, valutata la sussistenza dell’elemento soggettivo, ha applicato la pena prevista dall’art. 434 cod. pen., comma 2. 4. A tali conclusioni che sono tra loro incoerenti, apparendo la qualificazione giuridica, condivisa dalla Corte, riferita alla fattispecie prevista dall’art. 434 cod. pen., comma 1, ed essendo la pena applicata riferita alla fattispecie aggravata, prevista dall’art. 434 cod. pen., comma 2, la Corte è pervenuta ritenendo che, sulla base delle risultanze della perizia disposta in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio di appello, fossero colmate le lacune evidenziate dal primo giudice, e poste a fondamento della pronuncia assolutoria per la ritenuta insufficienza della presenza di fusti o di sostanze dubbie all’interno delle varie aree interessate ai fini della sussistenza del disastro ambientale e di avvelenamento di acque o sostanze alimentari.

Gli elementi forniti dal perito hanno, ad avviso della Corte, reso indubbia l’esistenza di un nesso di causalità tra lo smaltimento dei fusti nella ex cava (OMISSIS) e "lo stato di degrado ambientale, manifestatosi con il deterioramento dei fusti attraverso l’inquinamento del terreno e delle acque sotterranee", le cui proporzioni avevano fondato la dichiarazione dello stato di emergenza per la situazione di estremo pericolo per la pubblica incolumità e per l’ambiente e interventi di bonifica della zona interessata.

5. Le incongruenze argomentative che emergono dal testo della sentenza, e che si riflettono nella confusa rappresentazione delle ragioni giuridicamente significative che hanno determinato il convincimento della Corte circa la ricorrenza della fattispecie aggravata, per la quale è stata pronunciata condanna, e prima ancora della idoneità della condotta sotto il profilo potenziale a cagionare un disastro, sono conseguenti a non risolte lacune motivazionali, che attengono al piano oggettivo sia della condotta che dell’evento.

La sussunzione della fattispecie concreta nella ipotesi di reato di disastro innominato non è stata, infatti, esaminata in rapporto all’ampiezza in termini spaziali e alla protrazione in termini temporali della condotta per ritenere la stessa idonea e univocamente diretta a provocare un disastro ambientale, per contaminazione diretta o indiretta dei siti destinati a insediamenti abitativi o agricoli di eccezionale gravità, e porre in pericolo l’incolumità pubblica, nè in relazione alla verificazione dell’evento di danno.

Tale esame e la sua traduzione in termini motivazionali si rendevano necessari, avendo riguardo alle modalità di espletamento della perizia e alle sue conclusioni, in rapporto alle ulteriori emergenze istruttorie e quindi processuali e agli operati interventi di bonifica e alla loro incidenza sulla reversibilità o riparabilità del danno o del pericolo di danno.

6. La sentenza impugnata deve essere, quindi, annullata con rinvio alla Corte d’appello di Genova che, in coerenza con quanto rappresentato, dovrà, in piena libertà di giudizio ma con motivazione completa e immune da vizi logici, procedere a nuovo giudizio.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Genova.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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