Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 15-07-2011) 19-07-2011, n. 28494

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del 7 giugno 2011, la Corte di appello di Caltanissetta, giudicando in sede di rinvio a seguito di annullamento pronunciato da questa Corte con sentenza del 12 maggio 2011 nel procedimento relativo al mandato di arresto Europeo emesso in relazione alla sentenza di condanna definitiva emessa dal Tribunale di Buhusi (Romania) il 15 marzo 2010 nei confronti di S.M.C. per il delitto di rapina, ha ordinato la consegna del predetto allo Stato richiedente, a norma della L. 22 aprile 2005, n. 69, art. 22, comma 6 e art. 17. In particolare, il giudice del rinvio ha ritenuto non sussistenti i presupposti richiesti dalla L. n. 69 del 2005, art. 18, per come interpretati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 227 del 2010, per la mancanza di prova di una stabile residenza in Italia e di una sua attività lavorativa, e non sussistenti neppure i presupposti per rinviare la consegna a norma della stessa L. n. 69 del 2005, art. 24 per la pendenza di un procedimento in Italia, in quanto dalla documentazione prodotta risultava che lo S. rivestiva la qualità non di imputato ma di persona offesa.

Avverso la sentenza in questione ha proposto ricorso per cassazione personalmente lo S. il quale lamenta violazione di legge. Deduce infatti il ricorrente che erroneamente la Corte territoriale avrebbe fatto riferimento alla attività lavorativa come elemento condizionante la stabile dimora in Italia, posto che dalla documentazione prodotta emergeva che lo stesso ricorrente ha mantenuto il domicilio effettivo e legittimo per oltre un anno in Barrafranca (EN). Quanto, poi, al procedimento pendente in Italia, si sottolinea che il medesimo rivestiva anche la qualità di indagato oltre che quella di persona offesa.

Il ricorso è palesemente privo di giuridica consistenza. Il tema del rifiuto alla consegna in dipendenza di MAE esecutivo per essere lo straniero dimorante nello Stato di esecuzione ha, come è noto, formato oggetto della sentenza n. 227 del 2010, con la quale venne dichiarata la illegittimità costituzionale della L. n. 69 del 2005, art. 18, comma 1, lett. r), nella parte in cui non prevedeva il rifiuto alla consegna anche del cittadino di un altro Paese membro della Unione Europea che "legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, ai fini dell’esecuzione della pena detentiva in Italia conformemente al diritto interno". La declaratoria di illegittimità costituzionale rinvenne la propria essenza nella riscontrata difformità tra la normativa di recepimento della decisione quadro sul MAE e quanto quest’ultima prevedeva in tema di possibilità di rifiuto della consegna, in vista della salvaguardia di specifici interessi di tutela della persona condannata. Alla stregua, infatti, della interpretazione della decisione quadro offerta dalla Corte di Lussemburgo, la possibilità attribuita al legislatore nazionale di prevedere che l’autorità giudiziaria rifiuti la consegna del condannato ai fini della esecuzione della pena detentiva nello Stato emittente quando si tratti di un cittadino dello Stato di esecuzione, ovvero ivi risieda o abbia dimora, mira a permettere di accordare una particolare importanza alla possibilità di accrescere le opportunità di reinserimento sociale della persona ricercata, una volta espiata la pena; a tale scopo, lo Stato è dunque abilitato a limitare il rifiuto alle "persone che abbiano dimostrato un sicuro grado di inserimento nella società di detto Stato membro". In tale prospettiva, ha puntualizzato la Corte costituzionale, può dedursi che il criterio per la individuazione del contesto sociale, familiare, lavorativo ed altro nel quale si iscrive la prospettiva di risocializzazione che rappresenta la ratio della deroga alla consegna, non è tanto e solo quello della cittadinanza, ma la residenza stabile ed il nucleo degli interessi sociali, familiari, affettivi che disvelino quel "radicamento reale e non estemporaneo", attorno al quale finisce per riflettersi l’essenza risocializzatrice, fulcro, in parte qua, della previsione della decisione quadro e dello stesso principio sancito dall’art. 27 Cost., comma 3. Per altro verso, la richiamata sentenza della Corte costituzionale non ha mancato di sottolineare come le nozioni di residenza e di dimora utilizzate tanto dalla decisione quadro che dalle norme di recepimento e di attuazione, devono ritenersi nozioni comunitarie assoggettate ad interpretazione uniforme, rimessa dunque elettivamente alla opera ermeneutica riservata alla Corte di giustizia, allo scopo di conseguire applicazioni uniformi della normativa che è alla base della decisione quadro. E la Corte di giustizia – ha ancora rammentato la Corte costituzionale – non ha mancato di somministrare al giudice nazionale indicazioni utili a tale riguardo, in particolare declinando la nozione di "residenza" nello Stato di esecuzione in termini di effettività, e assegnando al concetto di "dimora" un significato equivalente a quello di un soggiorno stabile di una certa durata in quello Stato, che consenta di acquisire con tale Stato legami di intensità pari "a quelli che si instaurano in caso di residenza". E’ dunque necessario, al lume della giurisprudenza comunitaria, che il giudice nazionale proceda ad una valutazione complessiva degli elementi oggettivi che caratterizzano la situazione del ricercato, come la durata, la natura e le modalità del suo soggiorno, nonchè i legami familiari ed economici che ha stabilito nello Stato di esecuzione, segnalando pure la necessità che il giudice valuti l’esistenza di un interesse legittimo del condannato a che la pena sia scontata in quello Stato.

Un corredo, dunque, di indicazioni che indubbiamente circoscrivono la finalità del rifiuto alla consegna in un ristretto spettro di esigenze, tutte rivolte ad esaltare il fine di consentire e assecondare il reinserimento sociale del condannato, e non certo ad assicurargli una sorta di potere di scelta dello Stato di esecuzione.

Ebbene, nella specie, il giudice del merito ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi, evocando la carenza di elementi dai quali dedurre quello stabile radicamento, affettivo, lavorativo e sociale, del condannato nel territorio nazionale, non potendosi a tal fine reputare di un qualche significato le circostanze di fatto sulle quali impropriamente il ricorrente ha fondato le proprie censure.

Quanto, poi, alla circostanza della esistenza di un procedimento pendente in Italia, anche a voler prescindere dai motivati rilievi della Corte territoriale, la quale ha puntualizzato che alla luce della documentazione prodotta nel procedimento in questione il condannato rivestirebbe la qualità di persona offesa, è dirimente rilevare che la facoltà riconosciuta alla Corte di appello di rinviare la consegna per consentire alla persona richiesta di essere sottoposta a procedimento penale in Italia per un reato diverso da quello oggetto del mandato di arresto Europeo, implica una valutazione di tipo discrezionale, basata sui criteri desumibili dalla L. n. 69 del 2005, art. 20, del cui mancato esercizio il consegnando non può dolersi, a meno che egli non l’abbia espressamente sollecitato, adducendo al riguardo uno specifico interesse (Cass., Sez. 6, 28 settembre 2010, Mallucci).

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in Euro 1.000,00 alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui alla L. 22 aprile 2005, n. 69, art. 22, comma 5.

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