Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 09-06-2011) 19-07-2011, n. 28783 Omicidio colposo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) Con sentenza 2 dicembre 2009 la Corte d’Appello di Roma ha riformato la sentenza 10 gennaio 2007 del Tribunale di Velletri, sez. dist. di Anzio – che aveva condannato N.M. alla pena ritenuta di giustizia per il delitto di omicidio colposo in danno di G.A. deceduto in (OMISSIS) – e ha dichiarato estinto per prescrizione il reato ascritto all’imputato confermando le statuizioni civili adottate dal primo giudice.

I giudici di merito hanno accertato che la persona offesa era stata ricoverata il 24 marzo 2001 presso il reparto di chirurgia generale dell’ospedale di Anzio con diagnosi di "sospetta occlusione intestinale". Le condizioni del paziente si andavano via via aggravando; si verificavano episodi di ematemesi e melena e alle ore 11,30 del 26 marzo il paziente veniva portato in sala operatoria per l’esecuzione di una gastroscopia che doveva però essere sospesa per l’aggravarsi delle condizioni tanto che, alle 16,30 successive, il paziente decedeva.

L’evento è stato addebitato al dott. N., medico in servizio presso l’indicato reparto dalla mattina del 24 marzo alla mattina del 25 marzo, perchè, in tesi di accusa, avrebbe omesso di disporre tempestivamente un’endoscopia che avrebbe consentito di accertare la patologia da cui era affetto il paziente e di intervenire per rimuoverne le cause ed evitare l’evento provocato da "un’acuta insufficienza cardiocircolatoria, epilogo di un grave shock ipovolemico secondario ad una lesione ulcerativa del duodeno con lesione anche dell’arteria gastroduodenale". 2) Contro la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso N. M. che ha dedotto, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge con riferimento alla ritenuta esistenza del rapporto di causalità tra la condotta del ricorrente e l’evento.

In particolare, secondo il ricorrente, l’accertamento del rapporto di causalità sarebbe avvenuto in totale contrasto con il parere dei periti i quali hanno ritenuto che l’endoscopia non avrebbe accertato la presenza della lesione dell’arteria gastroduodenale. In ogni caso, secondo i periti, l’accertamento più tempestivo della patologia e la somministrazione di idonea terapia avrebbero avuto scarse probabilità di successo tanto più che il paziente era affetto da miocardiosclerosi e che l’ospedale in cui era avvenuto il ricovero non era dotato della strumentazione per effettuare la gastroscopia.

Con il secondo motivo si deduce il vizio di motivazione sempre con riferimento all’accertamento dell’esistenza del rapporto di causalità. La sentenza impugnata avrebbe contraddetto il parere dei periti senza spiegare adeguatamente le ragioni del suo convincimento e senza indicare le basi scientifiche di questa opinione posto che i periti avevano praticamente escluso la possibilità che la gastroscopia evidenziasse l’esistenza della lesione. Del tutto apodittica sarebbe inoltre la conclusione secondo cui, se anche la gastroscopia non avesse evidenziato la lesione, si sarebbe dovuto ugualmente eseguire l’intervento che avrebbe evidenziato la lesione dell’arteria gastroduodenale; parimenti immotivata sarebbe poi l’affermazione sulla possibilità per il paziente di sopportare l’intervento chirurgico.

Con il terzo motivo si deduce la violazione degli artt. 521 e 605 c.p.p. per non avere, la sentenza impugnata, valutato le condotte di terzi successive al termine dell’orario di servizio del dott. N. presente in reparto fino alle ore 8 del 26 marzo e per aver omesso di prendere in considerazione l’efficacia causale della condotta dei medici che sono a lui subentrati e che avrebbero avuto efficacia interruttiva del rapporto di causalità. 3) Il ricorso è infondato e deve conseguentemente essere rigettato.

Poichè il giudice d’appello ha dichiarato l’estinzione del reato vanno premessi, all’esame specifico dei motivi di ricorso, alcuni cenni sui principi che disciplinano il rapporto tra l’accertamento della responsabilità penale e l’obbligo, per il giudice, di immediata applicazione dell’art. 129 c.p.p., comma 2 in presenza di una causa estintiva del reato sia o meno ancora in corso l’azione civile nel processo penale.

Com’è noto il presupposto per l’applicazione dell’art. 129 indicato è costituito dall’evidenza della prova dell’innocenza dell’imputato.

In questo caso la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla causa di estinzione del reato ed è fatto obbligo al giudice di pronunziare la relativa sentenza. I presupposti per l’immediato proscioglimento (l’inesistenza del fatto, l’irrilevanza penale, il non averlo l’imputato commesso) devono però risultare dagli atti in modo incontrovertibile tanto da non richiedere alcuna ulteriore dimostrazione in considerazione della chiarezza della situazione processuale.

In presenza di una causa estintiva del reato non è quindi più applicabile la regola probatoria, prevista dall’art. 530 c.p.p., comma 2, da adottare quando il giudizio sfoci nel suo esito ordinario, ma è necessario che emerga "positivamente" dagli atti, e senza necessità di ulteriori accertamenti, la prova dell’innocenza dell’imputato (cfr. Cass., sez. 5, 2 dicembre 1997 n. 1460, Fratucello; sez. 1, 30 giugno 1993 n. 8859, Mussone). E’ stato affermato che, in questi casi, il giudice procede, più che ad un "apprezzamento", ad una "constatazione" (Cass., sez. 6, 25 marzo 1999 n. 3945, Di Pinto; 25 novembre 1998 n. 12320, Maccan). Da ciò consegue altresì che non è consentito al giudice di applicare l’art. 129 c.p.p. in casi di incertezza probatoria o di contraddittorietà degli elementi di prova acquisiti al processo anche se, in tali casi, ben potrebbe pervenirsi all’assoluzione dell’imputato per avere, il quadro probatorio, caratteristiche di ambivalenza probatoria.

Questi principi sono stati di recente ribaditi dalle sezioni unite di questa Corte con sentenza (28 maggio 2009 n. 35490, Tettamanti, rv.

244273-4-5) alle cui condivisibili argomentazioni si rinvia.

Coerente con questa impostazione è anche la uniforme giurisprudenza di legittimità che, fondandosi anche sull1obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità, esclude che il vizio di motivazione della sentenza impugnata, che dovrebbe ordinariamente condurre all’annullamento con rinvio, possa essere rilevato dal giudice di legittimità che, in questi casi, deve invece dichiarare l’estinzione del reato (cfr. la citata sentenza Maccan della 5^ sezione ed inoltre sez. 1, 7 luglio 1994 n. 10822, Boiani). In caso di annullamento, infatti, il giudice del rinvio si troverebbe nella medesima situazione che gli impone l’obbligo della immediata declaratoria della causa di estinzione del reato.

Ma questi principi sono applicabili, per quanto attiene alla responsabilità penale dell’imputato, nei casi in cui sia stata proposta l’azione civile nel processo penale, solo nel giudizio di primo grado all’esito del quale non può il giudice dichiarare estinto il reato e pronunziarsi sull’azione civile (cfr. Cass., sez. 4, 1 ottobre 1993 n. 10471).

Nel giudizio d’impugnazione, in presenza di una condanna al risarcimento dei danni o alle restituzioni pronunziata dal primo giudice (o dal giudice d’appello) ed essendo ancora pendente l’azione civile, il giudice penale, secondo il disposto dell’art. 578 c.p.p., è tenuto, quando accerti l’estinzione del reato per amnistia o prescrizione, ad esaminare il fondamento della medesima azione (penale).

In questi casi la cognizione del giudice penale, sia pure ai soli effetti civili, rimane integra e il giudice dell’impugnazione deve verificare, senza alcun limite, l’esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale al fine di confermare o meno il fondamento della condanna alle restituzioni o al risarcimento pronunziata dal primo giudice (o dal giudice d’appello nel caso in cui l’estinzione del reato sia stata da lui pronunziata o debba essere emessa dalla Corte di cassazione).

In conclusione va affermato che costituisce principio inderogabile del processo penale quello secondo cui la condanna al risarcimento o alle restituzioni può essere pronunziata solo se il giudice penale ritenga accertata la responsabilità penale dell’imputato; anche se l’estinzione del reato non gli consente di pronunziare condanna penale.

Va però ancora ricordato che la sentenza delle sezioni unite Tettamanti, in precedenza ricordata, ha affermato che il principio richiamato sulla prevalenza della causa di estinzione del reato nel caso di dedotto vizio di motivazione trova un temperamento in due ipotesi. La prima riguarda il caso di assoluzione in primo grado ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2 e impugnazione del pubblico ministero: in questo caso, secondo le sezioni unite, se il giudice di appello ritiene infondato nel merito l’appello del pubblico ministero deve confermare la sentenza di assoluzione.

Il secondo caso attiene invece più specificamente all’ipotesi dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale: il giudice di appello è tenuto, anche nel caso in cui il reato sia estinto per amnistia o prescrizione, ad esaminare l’esistenza dei presupposti per la condanna penale quando sia ancora presente nel processo la parte civile; in tale caso ove pervenga, all’esito di questo esame, a ritenere l’insufficienza o la contraddittorietà del compendio probatorio deve pronunziare sentenza di assoluzione nel merito.

Secondo le sezioni unite questa deroga ai principi in precedenza enunciati si fonda sulla considerazione "che alcun ostacolo procedurale, nè le esigenze di economia processuale (che, come più volte detto, costituiscono, con riferimento al principio della ragionevole durata del processo, la ratio ed il fondamento della disposizione di cui all’art. 129 c.p.p., comma 2), possono impedire la piena attuazione del principio del favor rei con l’applicazione della regola probatoria di cui all’art. 530 c.p.p., comma 2".

E’ da rilevare che la deroga, come hanno precisato le sezioni unite, riguarda esclusivamente il giudizio di appello non essendo attribuita, al giudice di legittimità, una funzione di rivalutazione del compendio probatorio.

4) All’udienza odierna il difensore del ricorrente ha prodotto gli atti di transazione di tutte le parti civili presenti nel processo di appello ( G.G., AN., N., C. e CA.) i cui difensori, sebbene regolarmente citati, non sono comparsi.

In questi atti, sottoscritti da tutte le parti civili presenti nel giudizio di appello, si dichiara che le pretese di natura civilistica conseguenti al decesso del congiunto G.A. sono state interamente soddisfatte e si rinunzia a qualsiasi azione in sede civile o penale in conseguenza dell’evento indicato.

Deve dunque ritenersi che, pur in mancanza di una formale revoca della costituzione di parte civile, nel presente giudizio di legittimità non debba più ritenersi presente l’azione civile per cui, alla luce dei principi esposti in precedenza, andrà solo verificata l’applicabilità dell’art. 129, comma 2 già ricordato per verificare la fondatezza del ricorso ai soli fini penali.

5) Questo scrutinio non può che avere una risposta negativa sulla fondatezza dei motivi di ricorso.

I giudici di merito hanno infatti accertato che alle ore 1,00 del 25 marzo era già evidente la sintomatologia riferibile ad un serio problema emorragico in corso il che rendeva necessaria l’esecuzione di un esame gastroduodenoscopico. Questo esame era stato prescritto dal medico cui il dott. N. era subentrato alle ore 8 del medesimo 25 marzo; l’imputato peraltro non si era preoccupato di farlo eseguire tempestivamente come le condizioni del paziente richiedevano e come prescrivono le linee guida per l’elevato rischio di ulteriori sanguinamenti ove non vengano eliminate le cause della patologia.

La sentenza impugnata non omette di considerare che il 25 marzo era giorno festivo nel quale l’esame richiesto non poteva essere eseguito nell’ospedale di Anzio evidenziando la possibilità che il paziente venisse trasportato in altra struttura disponibile.

La sentenza impugnata ha inoltre ampiamente considerato la deduzione difensiva che faceva riferimento alla circostanza che, la mattina del 25 marzo, le condizioni del paziente erano stabilizzate rilevando che la patologia accertata, proprio per l’elevato rischio di recidiva, richiedeva la pronta esecuzione dell’esame già indicato e che i gravi sintomi precedentemente manifestati erano indicati nella cartella clinica dove si evidenziava l’urgenza dell’accertamento.

In ogni caso l’esistenza dell’elemento soggettivo del reato neppure è posta in discussione con i motivi di ricorso che si appuntano invece sulla prova dell’esistenza del rapporto di causalità.

Ma le censure proposte sotto questo profilo con i primi due motivi di ricorso che, per la loro stretta connessione possono essere congiuntamente esaminati, sono infondate.

La sentenza impugnata ha infatti confermato, fondando la sua valutazione anche su un esame motivatamente critico dei pareri dei periti, che nella giornata del 25 marzo – proprio per la già rilevata stabilizzazione delle condizioni del paziente – non si era certamente verificata la grave emorragia che il giorno successivo ha reso impossibile l’effettuazione della gastroduodenoscopia; secondo i giudici di appello l’effettuazione di questo esame in condizioni stabili avrebbe consentito di accertare la presenza, sulla parete duodenale, del coagulo (rinvenuto in sede di autopsia) formatosi sulla iniziale lesione dell’arteria gastroduodenale.

In ogni caso, secondo la sentenza impugnata, anche se dovesse ammettersi che la lesione dell’arteria non era rilevabile con il mero esame omesso questo avrebbe certamente rivelato la presenza del coagulo che avrebbe richiesto un intervento chirurgico urgente all’esito del quale la lesione sarebbe stata resa evidente rendendosi quindi possibile un intervento chirurgico idoneo a salvare la vita del paziente. Questo intervento sarebbe stato possibile, secondo i giudici di appello, perchè, malgrado l’età del paziente (77 anni), non esistevano serie controindicazioni alla sua effettuazione la cui efficacia salvifica non viene motivatamente posta in dubbio dalla sentenza impugnata.

Inammissibile per manifesta infondatezza e per genericità è invece il terzo motivo di ricorso. E’ manifestamente infondato sotto il profilo del concorso di cause che non è idoneo ad escludere il rapporto di causalità tra condotta ed evento ( art. 41 c.p., comma 1). E’ comunque generico perchè, pur precisando gli elementi di fatto intervenuti dopo che il ricorrente aveva lasciato il servizio non indica quali condotte colpose da terzi poste in essere avrebbero cagionato l’evento nè precisa sotto quale profilo queste condotte avrebbero avuto quel carattere di eccezionalità idoneo ad "interrompere" il rapporto di causalità perchè da sole sufficienti a determinare l’evento.

In conclusione deve ritenersi che non sussistano elementi per ritenere evidente la prova dell’innocenza del ricorrente e che, al contrario, gli elementi acquisiti fossero idonei a fondare l’affermazione di colpevolezza.

6) Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

la Corte Suprema di Cassazione, Sezione 4^ penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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