Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 13-04-2011) 19-07-2011, n. 28465

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

S.M.T. ricorre avverso la sentenza della Corte di appello di Roma in data 14 aprile 2010 che ha confermato la responsabilità della prevenuta in ordine al delitto continuato di appropriazione di un assegno ricevuto per errore, ricettazione di un ordine di acquisto falsamente redatto ed uso di detto falso ordine ( art. 647 c.p., comma 1, n. 3 e comma 2; art. 648 cpv. c.p.; art. 489 c.p., art. 61 c.p., n. 2), fatti commessi nel (OMISSIS).

I giudici di merito hanno accertato che l’imputata, presentatasi come dipendente della società Artecom s.r.l., esercente la vendita di gioielli porta a porta, aveva nel corso di vari incontri venduto a D.A.V. vari monili per il cui pagamento l’acquirente aveva consegnato il 3 giugno 2002 a saldo un assegno che doveva essere compilato per la somma di Euro 500 e che invece, per errore, ebbe a compilare per Euro 5.000. La D.A., avvedutasi dell’errore dagli estratti conto bancari, contestò con un fax diretto alla società il pagamento non dovuto; la S. è risultata essere la titolare della società e l’ordinativo di gioielli per il valore di Euro 5.000 è risultato falso nella firma della D.A..

Il difensore della ricorrente deduce violazione degli artt. 495 e 190 c.p.p., per illegittimità della revoca di ammissione della testimonianza di R.G., responsabile della ditta produttrice dei gioielli venduti alla D.A.V. "sulla circostanza dell’avvenuto inoltro nel giugno 2002 di ordine di gioielli su misura (orecchini, e girocollo in oro e pietre preziose) da realizzarsi per la signora D.A.; sui listini all’ingrosso ed al dettaglio osservati nella vendita dei gioielli acquistati nel 2002 dalla signora D.A.V.". Deduce l’illogicità della decisione della Corte territoriale di avere ritenuta superflua la prova per essere rimasta accertata la falsità della sottoscrizione da parte della D.A. dell’ordinativo.

Deduce ancora violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla prova che non siano stati consegnati alla D.A. gioielli del valore corrispondente ai Euro 5.000 versati, circostanza tratta dalla Corte di appello solo in base alle dichiarazioni dell’acquirente; rileva che il nominativo del P. cui fu indirizzato il fax dalla querelante, non appena avvedutasi dell’errore di compilazione del titolo di credito, non fu dato da essa imputata, potendo essere accertato da una visura camerale della società venditrice Artecom. Deduce ancora essere non credibile che la S. si presentò come collaboratrice e non come titolare della società e che le fatture della merce furono spedite solo dopo la richiesta di restituzione del denaro. Chiede la concessione del beneficio della non menzione, essendo l’imputata persona incensurata.

Il ricorso è manifestamente infondato.

Il diritto alla prova riconosciuto alle parti dall’art. 190 c.p.p., comma 1 non è assoluto ma espressamente subordinato alla verifica da parte del giudice che la prova richiesta non sia vietata dalla legge ovvero superflua o irrilevante. Detto controllo è esclusivamente proprio del giudice di merito e sfugge al sindacato di legittimità ove il provvedimento di diniego sia stato adottato con motivazione immune da vizi logici e giuridici (Cass. 18.2.94, Goddi, rv. 197868;

Cass. 9.4.92, Pirici, rv. 191304; Cass. 1, 25.11.91, ud. 4.11.91, rv.

189329) Nel caso concreto non possono essere prospettati vizi di manifesta illogicità in ordine alla revoca dell’audizione della testimone stante l’accertamento peritale della falsità dell’accettazione dell’ordine e "la mancata corrispondenza dei prezzi indicati nelle presunte fatture relative alla merce asseritamente ordinata ed a quella acquistata rispetto alle somme ricevute e dei prezzi indicati nei listini prodotti dalla difesa rispetto ai prezzi indicati in fattura".

Al riguardo deve essere confermato che nel giudizio di cassazione deve essere accertata la coerenza logica delle argomentazioni seguite dal giudice di merito nel rispetto delle norme processuali e sostanziali. Ai sensi del disposto di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e, la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicchè dedurre tale vizio in sede di legittimità comporta dimostrare che il provvedimento è manifestamente carente di motivazione o di logica e non già opporre alla logica valutazione degli atti operata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica, degli atti processuali (Cass. S.U. 19.6.96, De Francesco).

Esula infatti dai poteri della Corte di Cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Cass. S.U. 2.7.97 n. 6402, ud. 30.4.97, rv. 207944, Dessimone). Con il ricorso si nega validità logica alle conclusioni del giudice di merito, prospettando una diversa lettura degli atti e delle risultanze processuali, avendo la corte territoriale accertato che l’imputata, quale effettiva titolare della ditta venditrice ebbe ad appropriarsi del titolo e firmò il falso ordine di acquisto.

Va inoltre precisato che il giudice di appello nella fattispecie, avendo raggiunto la prova di un corretto accertamento dei fatti ha debitamente applicato il principio di legittimità che statuisce che la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello ha carattere eccezionale ed il mancato accoglimento della richiesta volta ad ottenere detta rinnovazione in tanto può essere censurato in sede di legittimità in quanto risulti dimostrata la oggettiva necessità dell’adempimento in questione e quindi l’erroneità di quanto ritenuto dal giudice di merito circa la possibilità di "decidere allo stato degli atti", come previsto dall’art. 603 c.p.p., comma 1. Ciò significa che per la mancata assunzione di prova decisiva deve dimostrarsi l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità ricavatoli dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di conclusiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate qualora fosse stato provveduto, come richiesto, all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in sede di appello (Cass. i 16.7.99 n. 9151, ud. 28.6.99, rv. 213923).

E’ manifestamente infondato anche il ricorso per il diniego del beneficio della non menzione in ordine al quale il giudice di merito ha ritenuto la non concedibilità per la odiosità del fatto commesso approfittando della situazione personale della parte offesa ed approfittando della fiducia della cliente.

L’impugnazione è pertanto inammissibile a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. d) e art. 606 c.p.p., comma 3; alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000. Le spese sostenute dalla parte civile nel grado sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e di Euro 1.000 alla Cassa delle ammende nonchè alla rifusione in favore della parte civile F. G. delle spese sostenute in questo grado di giudizio che si liquidano in complessivi Euro 13.000, oltre I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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