T.A.R. Lazio Roma Sez. II, Sent., 25-07-2011, n. 6673

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con separati ricorsi le parti indicate in epigrafe impugnavano l’ordinanza n. 8 del 14 gennaio 2011 di nomina della nuova Giunta del Comune di Roma e la successiva ordinanza n. 18 del 17 gennaio 2011 di affidamento dei compiti di indirizzo e controllo in merito all’attuazione delle linee programmatiche e agli obiettivi da realizzare, assumendone l’illegittimità per violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 51 Cost., dell’art. 1 del d. lgs. 198/2006 e dell’art. 5 comma 3 dello Statuto del Comune di Roma.

Assumevano, in particolare, i ricorrenti che la presenza in Giunta di un solo assessore di sesso femminile non garantisse il rispetto del parametro dell’equilibrio di genere, introdotto puntualmente dalla disposizione statutaria sopra richiamata a tutela del principio costituzionalmente rilevante delle pari opportunità.

Con successivi motivi aggiunti estendevano l’impugnazione alla successiva ordinanza n. 64 del 2 marzo 2011 con la quale il Sindaco di Roma Capitale, riesaminati gli atti sopra menzionati, li confermava integralmente, fornendo motivazione sul punto della ritenuta conformità delle determinazioni assunte con il principio di pari opportunità.

Insistevano infatti i ricorrenti tutti nel ritenere la composizione della Giunta del Comune di Roma in contrasto con il parametro dell’equilibrio di genere a cui il Comune stesso si sarebbe autovincolato in sede statutaria, a dispetto delle argomentazioni poste dal Sindaco a fondamento del nuovo provvedimento confermativo.

Roma Capitale si costituiva in entrambi i giudizi, deducendo in via preliminare l’inammissibilità dei ricorsi per difetto di legittimazione dei soggetti ricorrenti e, nel merito, ribadendo la legittimità della composizione della nuova Giunta, specie alla stregua dell’ordito motivazionale del provvedimento di conferma del 2 marzo 2011.

Si costituiva altresì, limitatamente al ricorso n. 1590/2011 il controinteressato assessore Marco Visconti per resistere all’impugnativa.

Con ordinanza n. 4754 del 26 maggio 2011 il Collegio disponeva la riunione dei giudizi per ragioni di connessione oggettiva e, rilevata la mancata notificazione del ricorso iscritto al n. 1590/2011 R.G. all’assessore Dino Gasperini, ordinava l’integrazione del contraddittorio.

Alla pubblica udienza del giorno 13 luglio 2011, in esito alla discussione orale, i ricorsi venivano trattenuti per la decisione.

Motivi della decisione

In via preliminare occorre prendere in esame le eccezioni di inammissibilità del ricorso proposte dalla difesa di Roma Capitale.

L’inammissibilità viene dedotta, in primo luogo, sotto il profilo del difetto di legittimazione ad agire in capo ai ricorrenti.

Non sussisterebbe, a parere di Roma Capitale, in capo a nessuno dei ricorrenti una posizione sostanziale qualificata e differenziata rispetto a quella del comune cittadino, con conseguente mancanza del presupposto della legittimazione ad agire, anche considerato che, nel caso di specie, non si verte in nessuna delle ipotesi tassative in cui il nostro ordinamento consente l’esercizio dell’azione popolare (in materia elettorale, su questioni di incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità, ex art. 7 legge n. 142/90). Il principio sancito dall’art. 51 Cost., relativo alle pari opportunità di genere, secondo la tesi difensiva, non sarebbe tutelabile attraverso forme di azione collettiva o popolare.

Si assume, inoltre, che le ordinanze impugnate non provocherebbero in capo a nessuno dei ricorrenti alcun pregiudizio né diretto, né indiretto, cosicchè nessuno di essi risulterebbe portatore di un interesse concreto ed attuale all’annullamento.

Tale prospettazione non può essere condivisa dal Collegio.

Con i ricorsi in trattazione infatti si deduce non tanto, e non soltanto, la frustrazione del principio costituzionale generale delle pari opportunità, quanto la violazione della specifica norma introdotta dallo Statuto del Comune di Roma che, a salvaguardia del predetto principio di rilevanza costituzionale, nella disciplina della formazione della Giunta comunale impone al Sindaco, nella nomina degli Assessori, di assicurare la presenza equilibrata dei due sessi.

In altri termini, il principale motivo di doglianza introdotto con il gravame in trattazione attiene alla violazione di una norma che regolamenta, attraverso l’introduzione di un precetto puntuale e concretamente vincolante come si chiarirà appresso, il procedimento di formazione dell’organo di governo dell’amministrazione comunale.

Si tratta quindi di chiarire quali soggetti possano essere ritenuti legittimati in via generale a fare valere in sede giurisdizionale la violazione delle norme che disciplinano la formazione della Giunta comunale, verificando poi se la natura e la caratterizzazione funzionale del precetto specificamente violato nel caso di specie possa valere a diversamente condizionare la configurazione dell’ambito dei legittimati.

La legittimazione generale innanzi tutto, a parere del Collegio va riconosciuta in capo ai consiglieri comunali i quali, ai sensi dell’art. 47 del Testo Unico degli Enti Locali, possono essere nominati membri della Giunta municipale e sono in quanto tali portatori di un interesse concreto e specifico a che, nella nomina dei componenti della Giunta, vengano rispettate dal Sindaco tutte le disposizioni normative di carattere immediatamente cogente.

Detto interesse non può essere inteso alla stregua di interesse di mero fatto, in quanto oggetto di precisa qualificazione normativa e non occorrendo, per la possibile nomina alla carica di assessore su iniziativa del Sindaco, la verifica di ulteriori specifici requisiti soggettivi.

Non può, in altri termini, ritenersi ipotizzabile una legittimazione processuale legata al possesso di requisiti ulteriori rispetto a quelli che fondano la legittimazione sostanziale alla nomina alla carica di assessore.

La legittimazione ad agire dei consiglieri comunali, peraltro, è stata ripetutamente ribadita in fattispecie analoghe a quella oggetto del presente giudizio, in quanto, accanto alla tradizionale legittimazione dei consiglieri comunali ad agire in giudizio ove vengano in rilievo atti incidenti sul diritto all’ufficio, deve essere riconosciuta una loro analoga legittimazione a contestare in sede giurisdizionale la legittimità dell’azione degli organi politici dell’ente di appartenenza sotto ogni profilo, in ragione di un interesse giuridicamente rilevante di ciascun consigliere comunale ad impedire che l’organo politico di riferimento istituzionale agisca in violazione di legge (cfr. Tar Puglia Lecce 24.2.2010 n. 622)

Detta legittimazione generale, ad avviso del Collegio, si specifica poi, e assume connotati ancor più definiti, allorquando l’azione sia volta, come nel caso di specie, a garantire l’attuazione delle disposizioni dello statuto comunale, che costituisce espressione primaria della funzione normativa consiliare.

L’assunto va ribadito anche allorquando, come nel caso di specie, il precetto, del quale si lamenta la violazione, costituisce precipitato del principio delle pari opportunità e si traduce nell’obbligo, per il Sindaco, di assicurare nella formazione della Giunta l’equilibrio di genere.

Nella richiamata prospettiva infatti, ad avviso del Collegio, la legittimazione non può aprioristicamente essere ritenuta sussistente in capo ai soli consiglieri comunali di sesso femminile, considerato che la garanzia dell’equilibrio di genere anche in seno agli organismi politici esecutivi risponde ad un interesse non circoscrivibile in ragione del genere di volta in volta non adeguatamente rappresentato e, soprattutto, è affidata ad un precetto, di carattere generale e riconducibile al principio di buon andamento dell’azione pubblica, la cui violazione può per tale ragione essere contestata da ogni consigliere comunale.

Più in particolare, poi, va ribadita la legittimazione processuale delle ricorrenti Cirinnà e Azuni quali consiglieri comunali e al tempo stesso, rispettivamente, presidente e vicepresidente della Commissione speciale delle elette, prevista dall’art. 23 dello Statuto comunale proprio al fine di concorrere al rispetto in ambito cittadino delle regole poste a garanzia della pari opportunità.

Il ruolo istituzionale rivestito dalle predette specifica ulteriormente il sopra rammentato profilo di legittimazione processuale dei consiglieri comunali, a garanzia dell’attuazione all’interno degli organismi comunali, prima ancora che nell’ambito cittadino, delle prescrizioni poste a presidio delle pari opportunità; senza che, in detta prospettiva, possa assumere valenza il fatto che alla Commissione speciale delle elette siano riconosciute, a tutela delle pari opportunità, funzioni solo consultive e di proposta e non anche di amministrazione attiva.

Il ragionamento seguito con riguardo ai consiglieri comunali conduce, però, ad avviso del Collegio, a configurare una legittimazione all’impugnazione degli atti di nomina della Giunta non circoscritta ai soli componenti dell’organo consiliare, considerato che ciascun cittadino elettore nel Comune di riferimento può essere nominato assessore anche se non eletto al Consiglio comunale.

La legittimazione all’impugnazione degli atti di nomina della Giunta di Roma Capitale deve quindi essere riconosciuta anche a ciascun cittadino elettore del Comune di Roma, non già a titolo di azione popolare (non ricorrendo i presupposti per la configurazione di nessuna delle ipotesi tipiche di azione popolare in materia di elezione degli organismi rappresentativi e riguardando invero l’azione popolare le diverse ipotesi di legittimazione eccezionalmente riconosciuta sia pure in difetto del presupposto della titolarità di una posizione soggettiva di interesse), bensì in quanto soggetto potenzialmente aspirante alla titolarità della carica.

In altri termini, mentre le ipotesi eccezionali, e per ciò tassative, di azione popolare si sostanziano nell’attribuzione di una legittimazione con finalità di mero controllo della legalità, sganciata dalla titolarità di una posizione sostanziale qualificata e differenziata del soggetto legittimato, nel caso in parola la legittimazione del cittadino elettore (e non del cittadino uti civis) fonda sul riconoscimento normativo della sua legittimazione sostanziale ad essere nominato assessore della Giunta comunale.

Ne consegue che il cittadino elettore è anche portatore di un interesse concreto ed attuale all’annullamento degli atti di nomina degli assessori, adottati in violazione delle norme di legge o statutarie.

E ciò perché, potendo ciascun elettore, come detto, aspirare alla nomina ad assessore, anche se non eletto al Consiglio Comunale, (cfr. art. 4 co. 5 del d. lgs. n. 156/2010), sussiste un interesse giuridicamente rilevante di ciascun cittadino elettore a che le nomine avvengano in conformità alle norme di legge o di statuto.

Detto interesse, come sopra già precisato con riguardo ai consiglieri comunali, non è di mero fatto perché oggetto di precisa qualificazione in una fonte normativa; né, per la nomina alla carica di assessore, occorre la titolarità di ulteriore qualifica o requisito soggettivo tale da determinare una posizione soggettiva differenziata rispetto a quella del semplice cittadino elettore, nemmeno di fatto (per esempio pregresse esperienze politiche o appartenenza ad area politica omogenea a quella del Sindaco, potendo essere evidentemente nominati assessori personalità anche tecniche o del sociale), non potendosi quindi immaginare di circoscrivere la legittimazione all’azione in capo a singoli che, per opinabili ragioni di mero fatto o, peggio, per insindacabili valutazioni politiche (nella specie di competenza del Sindaco) possano essere considerati potenziali "nominandi".

La diversa opzione ermeneutica in punto di legittimazione e di interesse al ricorso, fatta propria dalla difesa di Roma Capitale, non tiene quindi conto del fatto che le norme in parola sono poste a tutela di interessi riferibili proprio a ciascun cittadino elettore, e sottovaluta peraltro la correlata esigenza di evitare che si creino zone franche di illegittimità in materie di diretta rilevanza generale.

Alla stregua delle superiori considerazioni va quindi rigettata l’eccezione di difetto di legittimazione ed interesse al ricorso con riferimento a tutti gli odierni ricorrenti.

Sempre in via preliminare, va poi disattesa l’eccezione di improcedibilità, per sopravvenuta carenza di interesse, dei ricorsi principali proposti avverso le ordinanze n. 8 del 14 gennaio 2011 e 18 del 17 gennaio 2011, a seguito dell’intervenuta adozione della successiva ordinanza n. 64 del 2 marzo 2011.

Quest’ultima ordinanza, adottata in esito ad un asserito procedimento di riesame delle precedenti, infatti, assume carattere meramente confermativo delle stesse, recando soltanto articolata esplicitazione delle ragioni per le quali le precedenti determinazioni siano da ritenere conformi al principio delle pari opportunità e, in particolare, del parametro dell’equilibrio di genere di cui all’art. 5 dello statuto. Come si legge nella motivazione dell’ordinanza in parola, infatti, il Sindaco di Roma Capitale non ha inteso revocare o modificare il contenuto dispositivo delle pregresse determinazioni di cui alle ordinanze del gennaio 2011, che ha invece inteso interamente confermare, non già in esito all’acquisizione di nuovi elementi istruttori, bensì soltanto in base ad un ordito motivazionale integrativo ex post di scelte già effettuate.

Permane dunque l’interesse dei ricorrenti all’annullamento di tutti gli atti impugnati, considerata l’unitarietà e la perdurante efficacia del complesso dispositivo provvedimentale oggetto di gravame.

Va anche disattesa, perché infondata in fatto, l’eccezione di improcedibilità specificamente riferita al ricorso n. 698/11 R.G. in ragione di una asserita mancata estensione dell’impugnazione all’ordinanza n. 64/2011: invero detta impugnazione è stata effettuata con ricorso per motivi aggiunti ritualmente notificato in data 23 marzo 2011.

Occorre infine scrutinare la questione della natura politica o meno dei provvedimenti impugnati, sollevata dalla difesa di Roma Capitale, la cui fondatezza, ai sensi dell’art. 7, comma 1, ultimo periodo, c.p.a., li sottrarrebbe alla giurisdizione amministrativa, con conseguente inammissibilità del ricorso.

L’eccezione è infondata.

Come ripetutamente ribadito dalla giurisprudenza (cfr., da ultimo, Tar Campania Napoli I, n. 1985/2011) la nomina degli assessori comunali non può essere intesa come un atto oggettivamente non amministrativo che realizza scelte di carattere politico e, come tale, non sindacabile innanzi al giudice.

Il provvedimento di nomina degli assessori infatti non contiene scelte programmatiche, non individua i fini da perseguire nell’azione di governo e non ne determina il contenuto; non costituisce, dunque, atto (di indirizzo) politico e neppure direttiva di vertice dell’attività amministrativa.

La natura fiduciaria del rapporto che lega gli assessori al Sindaco, il quale certamente gode della più ampia discrezionalità nella scelta delle persone da nominare, non consente di ritenere che l’atto di nomina sia svincolato dal raggiungimento di obiettivi prefissati e libero nei fini: l’ampiezza delle valutazioni di opportunità che ispirano la composizione della Giunta e l’individuazione dei suoi membri, sebbene possibilmente ispirata anche da apprezzamenti politici, non deve essere confusa con l’esercizio della funzione politica in senso proprio.

Si tratta, pertanto, di un atto soggettivamente e oggettivamente amministrativo, l’emanazione del quale è sottoposta all’osservanza delle disposizioni che attribuiscono, disciplinano e conformano il relativo potere, il cui corretto esercizio è, sotto questi profili, pienamente sindacabile in sede giurisdizionale.

Tanto osservato, l’atto di nomina della giunta di Roma Capitale è atto soggetto al rispetto di parametri di legittimità procedimentale e sostanziale che delimitano l’esercizio del potere del Sindaco e che, per quanto in questa sede è stato denunciato, non sono stati osservati in relazione al vincolo dell’equilibrio di genere concernente la composizione della compagine assessorile.

Ne consegue, anche sotto il richiamato profilo, la piena ammissibilità dei ricorsi che vanno quindi delibati nel merito.

Come già sopra ricordato, entrambi i gravami sono affidati ad una analoga articolazione dei motivi di censura e lamentano la violazione del principio delle pari opportunità nelle sue varie declinazioni normative, individuando poi nel contrasto con il disposto di cui all’art. 5 comma 3 dello statuto del Comune di Roma il profilo di più evidente illegittimità degli atti impugnati.

Con i motivi aggiunti, poi, si contesta l’adeguatezza della motivazione introdotta con la delibera n. 64 e la sua idoneità a superare i denunciati profili di contraddittorietà delle nomine confermate rispetto al principio di pari opportunità ed al parametro più specifico dell’equilibrio tipizzato dalla norma statutaria richiamata.

Già in altre occasioni la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto nell’art. 51 Cost. (che, stabilendo la parità di accesso di tutti i cittadini, indipendentemente dal sesso, agli uffici pubblici e alle cariche elettive, prevede che " la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini") un parametro di legittimità sostanziale di attività amministrative discrezionali, rispetto alle quali si pone come limite conformativo (fra le pronunce più significative T.A.R. Campania Napoli, sez. I, sentt. n. 12668 del 2010 e nn. 1427 e 1985 del 2011 cit.).

L’assunto non è però pacifico in giurisprudenza (cfr., in senso divergente tra loro, T.A.R. Lombardia – Milano, sez. I, 4 febbraio 2011, n. 354; T.A.R. Puglia – Lecce, 24 febbraio 2010, n. 622), e la questione involge profili di interpretazione generale del principio costituzionale delle pari opportunità che riguarda l’attuazione dell’eguaglianza sostanziale fra uomini e donne nella vita sociale, culturale, economica e politica e, in particolare, nella rappresentanza democratica.

Al di là dei diversi approcci interpretativi, quel che al Collegio appare fuor di dubbio è che, anche a seguito della riforma dell’art. 51 introdotta con la legge costituzionale 30 maggio 2003 n. 1, il nostro ordinamento costituzionale pone il riequilibrio fra donne e uomini in generale e il principio della c.d. parità democratica nella rappresentanza, in particolare, come valori fondanti del nostro sistema ordinamentale, e che in detto contesto costituzionale si colloca il trend normativo che in questi ultimi anni, a livello sia primario che secondario, si caratterizza per l’introduzione di numerose prescrizioni orientate all’attuazione dell’obiettivo delle pari opportunità.

Prescrizioni quindi che, a prescindere dalla possibilità di intendeere il principio costituzionale come meramente programmatico invece che come immediatamente precettivo e cogente (la stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale, partendo dalla sentenza n. 422 del 1995 fino ad arrivare alla sentenza n. 4 del 2010 appare evolversi decisamente nel senso dell’effettività e del carattere cogente delle norme sulla parità di genere), trovano legittimazione formale e sostanziale piena nel tessuto costituzionale.

Il quadro normativo si arricchisce e si articola progressivamente in ambiti anche diversi da quello tipicamente elettorale, mentre sempre più ampio rilievo qualitativo e quantitativo vengono ad assumere disposizioni, di fonte secondaria, volte a garantire l’equilibrio di genere nella composizione degli organismi collegiali esecutivi e di vertice del variegato pianeta delle pubbliche amministrazioni.

In siffatte fattispecie, poi, l’obiettivo funzionale dell’equilibrio di genere, oltre a rispondere primariamente allo scopo dell’attuazione del principio dell’eguaglianza sostanziale (attraverso la rimozione di ostacoli oggettivi alla parità di condizioni per l’accesso alle cariche pubbliche da parte di uomini e donne), si colora sempre più di una ulteriore e nuova caratterizzazione teleologica, connessa all’acquisita consapevolezza della strumentalità della equilibrata rappresentanza dei generi, nella composizione di tali organismi, rispetto ai fini del buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa.

Soltanto l’equilibrata rappresentanza di entrambi i sessi in seno agli organi amministrativi, specie se di vertice e di spiccata caratterizzazione politica, garantisce l’acquisizione al modus operandi dell’ente, e quindi alla sua concreta azione amministrativa, di tutto quel patrimonio, umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità del genere.

Organi squilibrati nella rappresentanza di genere, in altre parole, oltre ad evidenziare un deficit di rappresentanza democratica dell’articolata composizione del tessuto sociale e del corpo elettorale (il che risulta persino più grave in organi i cui componenti non siano eletti direttamente, ma nominati), risultano anche potenzialmente carenti sul piano della funzionalità, perché sprovvisti dell’apporto collaborativo del genere non adeguatamente rappresentato.

L’equilibrio di genere, come parametro conformativo di legittimità sostanziale dell’azione amministrativa, nato nell’ottica dell’attuazione del principio di eguaglianza sostanziale fra i sessi, viene così ad acquistare una ulteriore dimensione funzionale, collocandosi nell’ambito degli strumenti attuativi dei principi di cui all’art. 97 Cost.: dove l’equilibrata partecipazione di uomini e donne (col diverso patrimonio di umanità, sensibilità, approccio culturale e professionale che caratterizza i due generi) ai meccanismi decisionali e operativi di organismi esecutivi o di vertice diventa nuovo strumento di garanzia di funzionalità, maggiore produttività, ottimale perseguimento degli obiettivi, trasparenza ed imparzialità dell’azione pubblica.

L’assunto trova ulteriore conferma nella pienezza della formula adottata dal codice delle pari opportunità (d. lgs. 198/06) che all’art. 1 comma 4, come modificato dal d. lgs. n. 5/2010 di attuazione della direttiva comunitaria 2006/54/CE, stabilisce che l’obiettivo della parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere tenuto presente nella formulazione e attuazione, a tutti i livelli e ad opera di tutti gli attori, di leggi e di regolamenti, ma anche nell’adozione di atti amministrativi e in tutte le attività politiche ed amministrative.

La richiamata prospettiva di valorizzazione dell’apporto equilibrato di entrambi i sessi all’azione amministrativa, peraltro, sembra essere stata convintamente e fortemente sposata recepita dallo statuto del Comune di Roma che, all’art. 4, nell’ottica del pieno perseguimento dell’obiettivo della parità dei sessi, individua svariati ed articolati profili di iniziativa e di intervento amministrativo volti ad assicurare l’attiva partecipazione culturale, sociale, lavorativa e politica delle donne nell’Amministrazione e nella città (cfr. art. 4 comma 1). E ciò proprio in nome dell’ormai acquisita consapevolezza dell’importanza del contributo del mondo femminile alla buona amministrazione e al funzionale perseguimento degli obiettivi del vivere civile; importanza e rilievo di un contributo che si apprezza e si valorizza a livello normativo proprio sul presupposto della diversità di un patrimonio umano, sociale, culturale, di sensibilità e professionalità, che si vuole acquisire ai meccanismi dell’agere pubblico evidentemente in una prospettiva di arricchimento dell’esercizio delle funzioni e di buon andamento.

La valenza di una simile scelta normativa in seno allo statuto della Capitale della Repubblica Italiana emerge a tutto tondo e rimanda inevitabilmente a coerenti successive determinazioni amministrative, di applicazione e di dettaglio.

Le norme statutarie non si limitano ad una mera enunciazione di principio sull’obiettivo delle pari opportunità, ma si articolano in precetti puntuali, importanti, che vincolano l’azione amministrativa in generale e, in particolare, le scelte rimesse alle competenza del Consiglio Comunale e dello stesso Sindaco.

A differenza di altri statuti comunali che si limitano all’enunciazione di principi o intenti programmatici, in particolare, l’art. 5 dello statuto di Roma Capitale stabilisce, al primo comma, che "nei casi in cui il Sindaco e il Consiglio Comunale debbano nominare o designare, ciascuno secondo le proprie competenze, rappresentanti in enti, istituzioni, ovvero in altri organismi gestori di servizi pubblici, fra i nominati è garantita la equilibrata presenza di uomini e donne…" e al terzo comma che " nel nominare i componenti della Giunta Comunale, i responsabili degli uffici e dei servizi nonché nell’attribuire e definire gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna, il Sindaco assicura una presenza equilibrata di uomini e donne, motivando le scelte con riferimento al principio di pari opportunità".

La disposizione si sostanzia dunque nella prescrizione di una azione positiva di riequilibrio delle presenze dei due sessi con riferimento non solo alla Giunta ma a tutti gli organismi operativi dell’amministrazione comunale, con una scelta normativa netta e di inequivocabile interpretazione, proprio per la puntualità, la ricchezza e la complessa articolazione del dato di diritto positivo.

A fronte di ciò non vale obiettare, come fa la difesa di Roma Capitale in questo giudizio, che l’art. 51, co. 1, Cost. si limiterebbe ad individuare, quale obiettivo da perseguire con strumenti e tempi rimessi alla discrezionalità dei processi di decisione politica, l’esigenza di garantire la presenza delle donne all’interno degli organi, piuttosto che prescrivere direttamente il rispetto di un numero minimo di componenti di sesso femminile all’interno degli stessi; nè che le enunciazioni di principio dello Statuto in tema di pari opportunità non avrebbero efficacia giuridica vincolante, quanto piuttosto una funzione culturale e politica che non consentirebbe di affermarne la precettività, non ostandovi il fatto che esse possano essere inserite in una disposizione di carattere organizzativo quale, in particolare, quella dell’art. 5 comma 3 sulla nomina della Giunta, poiché la norma manifesterebbe l’intento di fissare null’altro che un obiettivo, di per sé sottratto a forme di controllo giudiziario.

E’ una tesi che non può essere condivisa dal Collegio non tanto, o meglio, non soltanto perché nello specifico – a differenza di altre analoghe disposizioni contenute in vari statuti comunali o regionali – la disposizione è affidata ad un dato letterale (il Sindaco… assicura una presenza equilibrata di uomini e donne) inequivocabilmente indicativo del carattere immediatamente e direttamente cogente del precetto, quanto perché si inserisce in un complesso normativo statutario, nel quale si colloca come specifico strumento operativo, la cui ratio complessiva è quella di garantire, e non soltanto di auspicare o promuovere, le pari opportunità e l’equilibrio di genere in tutta l’attività amministrativa di Roma Capitale.

L’art. 5 comma 3, cioè, non può essere decontestualizzato in modo da sostenere, con la difesa dell’amministrazione comunale, che la norma manifesterebbe null’altro che l’intento di fissare un obiettivo di massima, quando in realtà essa vuole garantire il pieno rispetto, vale a dire la completa, integrale e puntuale realizzazione di quella idea o valore (il valore della differenza di genere) che lo statuto di Roma Capitale ha inteso porre fra le idee e i principi basilari fondanti la vita amministrativa e, prima ancora, civile della collettività romana.

Lo strumento prescelto per il perseguimento dell’obiettivo, lungi dall’essere individuato nella fissazione di un numero o di una percentuale fissa di rappresentanza di ciascun sesso nella Giunta (c.d. quote rosa), è invece costituito da un parametro conformativo delle scelte di competenza del Sindaco, che come detto ne costituisce anche un limite: l’equilibrio di genere, che implica la necessità della presenza equilibrata di uomini e donne negli organi e negli uffici indicati.

Il concreto dimensionamento del parametro va ricostruito tenendo conto delle finalità perseguite dalla norma da un lato, e dall’altro considerando che lo statuto ha volutamente evitato l’introduzione di parametri numerici fissi (cosicchè, a parere del Collegio, essi non possono essere recuperati in sede di interpretazione della norma).

Nondimeno, l’elemento numerico rimane prioritario: un’equilibrata ripartizione delle cariche sul piano quantitativo fra uomini e donne costituisce infatti la modalità ordinaria di conformazione delle scelte del Sindaco al parametro statutario dell’equilibrio di genere.

E tuttavia, nella richiamata prospettiva funzionale, nel caso di squilibrio sul piano quantitativo della rappresentanza dei sessi, il conseguimento dell’obiettivo dell’equilibrio di genere può passare anche per l’apprezzamento, sul piano qualitativo e sostanziale, del ruolo e delle funzioni riconosciute al sesso minoritariamente rappresentato in seno ai diversi organismi, e quindi della misura e della rilevanza dell’apporto collaborativo prestato da ciascuno dei generi all’attività complessiva del soggetto collegiale.

In altri termini, a fronte di una squilibrata rappresentanza dei generi sul piano numerico o quantitativo, potrà comunque ritenersi raggiunto l’equilibrio soltanto nel caso di conferimento al genere scarsamente rappresentato di ruoli o funzioni il cui rilievo sostanziale e funzionale sia tale, secondo logicità e ragionevolezza, da compensare il gap numerico.

Nel caso di specie, la composizione della Giunta, di cui ai provvedimenti impugnati, con la presenza di una sola donna su 12 membri complessivi dell’organo, esclude, secondo ordinari canoni di logicità e ragionevolezza, di ritenere attuato l’equilibrio di genere e garantite le sottese esigenze di funzionalità.

Ciò anche alla stregua delle motivazioni introdotte con la delibera n. 64 e di cui appresso si dirà.

La ricostruzione della caratterizzazione teleologica della norma in parola, nel senso fin qui esposto, consente infatti al Collegio di chiarire come debba essere inteso e dimensionato l’onere di motivazione posto a carico del Sindaco con riferimento al principio della pari opportunità.

Proprio in ragione del fatto che il parametro dell’equilibrio di genere non è riconducibile soltanto al dato numerico e assume connotati sostanziali che possono rimandare alla rilevanza dei ruoli e delle funzioni, implicando un apprezzamento di carattere sostanziale analogo a quello tipico delle scelte amministrative, anche di spiccata caratterizzazione politica (come, è appunto quella della nomina degli assessori comunali) con riguardo ad altri parametri di legittimità sostanziale, lo statuto rimette al Sindaco il giudizio sull’equilibrata composizione della Giunta e il compito, quindi, di attuazione della presenza equilibrata dei sessi.

La motivazione della scelta effettuata deve allora estrinsecare i confini dell’apprezzamento operato e del giudizio conseguente e deve, ovviamente, rispondere a canoni di razionalità, logicità e ragionevolezza, prestandosi sotto siffatti profili al sindacato giurisdizionale di legittimità.

Emerge quindi con chiarezza come, a fronte di una squilibrata composizione della Giunta sul piano numerico, secondo la disposizione statutaria in esame, il Sindaco non possa limitarsi ad esplicitare le ragioni per le quali non sia riuscito a garantire l’equilibrata presenza di entrambi i generi (come pure sostenuto in qualche isolata pronuncia giurisprudenziale), quasi come se il parametro normativo fosse derogabile per ragioni politiche e l’onere motivazionale si risolvesse nella individuazione di ragionevoli giustificazioni dello squilibrio dei generi (ove, peraltro, sarebbe difficile immaginare ragionevoli ostacoli oggettivi a nomine che tengano anche conto della valorizzazione delle diversità di genere).

Al contrario, l’equilibrio di genere è, per chiara determinazione dello Statuto (espressione massima della volontà dell’organo più direttamente rappresentativo sul piano democratico e nel quale si compendiano le istanze delle diverse forze politiche, sociali, culturali della città), precetto pienamente vincolante e inderogabile dal Sindaco nella nomina dei componenti della Giunta e non può dunque ipotizzarsi una prospettiva motivazionale idonea a giustificare la radicale violazione dell’obbligo.

Nel quadro che si è fin qui delineato, allora, la motivazione di cui alla delibera n. 64, con la quale il Sindaco di Roma esprime le ragioni della ritenuta compatibilità con il parametro dell’equilibrio di genere della composizione della Giunta capitolina (nella quale un sesso ha il 92% della rappresentanza e l’altro soltanto l’8%) appare erronea ed inadeguata.

Erronea nella parte in cui si ribadisce il carattere non cogente della disposizione di statuto; inadeguata nella parte in cui si pretende di individuare nella composizione del Consiglio Comunale, e nei rapporti della rappresentanza dei generi ivi realizzati, il parametro esterno di raffronto e di verifica dell’assicurato equilibrio della presenza dei generi nella Giunta, considerato che, come sopra rilevato, l’equilibrio deve essere garantito dal Sindaco nelle determinazioni rimesse alla sua competenza, deve essere riferito, per quanto riguarda la Giunta, esclusivamente alla sua composizione, e deve risultare da un apprezzamento ponderato di profili quantitativi e qualitativi nel senso sopra delineato.

Diversamente ragionando, secondo quanto proposto con l’ordito motivazionale della delibera impugnata, si arriverebbe ad avallare il paradosso correttamente segnalato da alcune delle ricorrenti: il forte squilibrio di genere nella rappresentanza consiliare, determinato dall’assenza di adeguate disposizioni elettorali volte a garantire le pari opportunità e dalla annosa indifferenza dei partiti al tema della valorizzazione del ruolo politico delle donne, finirebbe con il legittimare la violazione di uno specifico precetto – introdotto per statuto, anche per introdurre una inversione di tendenza – che limita e conforma il potere di nomina del Sindaco in funzione di stimolo ed incentivo ad una diversa partecipazione di entrambi i generi alla attività politicoamministrativa della Giunta.

Più in generale, ad avviso del Collegio, appare difficile ipotizzare, sul piano della ragionevolezza e della razionalità, che la presenza nella Giunta capitolina di un’unica donna, sebbene impegnata in un ruolo di rilievo (viste le competenze attribuite all’assessore Sveva Belviso), possa garantire un’adeguata attuazione dell’equilibrio di genere nella rappresentanza.

Per tutte queste ragioni i ricorsi ed i motivi aggiunti sono fondati e vanno accolti, con conseguente pronuncia di annullamento di tutti gli atti impugnati.

Le spese di giudizio possono essere interamente compensate fra le parti in ragione della novità e della complessità della vicenda.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sui ricorsi riuniti, come in epigrafe proposti, li accoglie e, per l’effetto, annulla gli atti impugnati.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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