Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 12-04-2011) 19-07-2011, n. 28460

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del 28.4.2010 la Corte d’Appello di Messina, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Messina del 27.2.2002 che aveva condannato M.O., M.G. e C. C. per due tentate estorsioni, rideterminava la pena per M.O. in anni 3 di recl. ed Euro 800,00 di multa e per M.G. e C.C. in anni 2 mesi 6 di recl. ed Euro 600,00 di multa.

Ricorrono per Cassazione i difensori degli imputati.

In particolare il difensore di M.O. deduce che la sentenza impugnata è incorsa in:

1. mancanza di motivazione in ordine al 3 motivo d’appello con il quale era stata richiesta l’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 628 c.p., comma 3. 2. illogicità della motivazione con riguardo alla ritenuta responsabilità concorsuale dell’imputato.

3. mancata motivazione in ordine all’esclusione della desistenza volontaria.

Il difensore di M.G. deduce che la sentenza impugnata è incorsa in:

1. violazione di legge con riguardo all’art. 629 c.p.. Lamenta il ricorrente l’assenza di minaccia con riguardo ad entrambe le tentate estorsioni. Contesta inoltre l’utilizzazione della deposizione del Brigadiere S. ai sensi dell’art. 195 c.p.p., comma 4, così come modificato dalla L. n. 63 del 2001;

2. violazione di legge per mancata applicazione della desistenza volontaria e delle circostanze attenuanti genetiche.

Il difensore di C.C. deduce che la sentenza impugnata è incorsa in:

1. violazione dell’art. 195 c.p.c., comma 4. Sostiene il ricorrente che con riguardo alle deposizioni rese dall’Agente di P.G. S. doveva applicarsi l’art. 195 c.p.p., comma 1. 2. violazione di legge con riguardo all’art. 629 c.p., per assenza di minaccia.

3. mancato riconoscimento della desistenza volontaria.

I ricorrenti propongono alcuni motivi identici che possono pertanto essere trattati congiuntamente.

Deve dichiararsi la manifesta infondatezza dei motivi sollevati dalla difesa M.G. e C.C. in ordine alla pretesa inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’Ag. Di P.G. S..

Correttamente il Tribunale ha utilizzato la testimonianza de relato dell’ufficiale di polizia giudiziaria, Brig. S.. La prova orale in parola è stata, infatti, assunta il 12 gennaio 2001 e quindi prima della entrata in vigore della L. 1 marzo 2001, n. 63, la quale, novellando l’art. 195 c.p.p., comma 4, ha reintrodotto il divieto di assunzione della testimonianza degli agenti e degli ufficiali di polizia giudiziaria sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni (la disposizione, contenuta nel testo originario dell’art. 195 c.p.p. era stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza del 31 gennaio 1992).

In relazione alla relativa questione di diritto intertemporale, insorta per effetto della reintroduzione del divieto de quo, questa Corte ha fissato il seguente principio di diritto: "La deposizione di un ufficiale di polizia giudiziaria sul contenuto di dichiarazioni di testimoni, avvenuta prima dell’entrata in vigore della L. n. 63 del 2001, è legittimamente acquisita al fascicolo del dibattimento ed è pienamente utilizzabile, in applicazione del principio generale stabilito dall’art. 526 c.p.p,, secondo cui il giudice può utilizzare ai fini della deliberazione le prove legittimamente acquisite nel dibattimento, in quanto detta legge, modificando l’art. 195 c.p.p., comma 4, ha introdotto non un divieto dì utilizzazione, ma uno specifico divieto di acquisizione probatoria" (Sez. 3, 8 giugno 2997, n. 33785, De Los Santos, massima n. 237634; cui ad de:

Sez. 1, 1 marzo 2006, n. 7352, Maffioli, massima n. 233136 e Sez. 2, 10 aprile 2002, n. 30275, Gafuri, massima n. 222783 (Cass. sez. 1, 8 aprile 2008 n. 17215, Cass. Sez. 2 n. 35191/08).

Restano, pertanto, superate le residue censure, sviluppate dalle difese sul presupposto (invero errato) della applicazione retroattiva dell’art. 195 c.p.p., comma 4, siccome novellato, alla prova in questione Manifestamente infondate sono le doglianze sollevate in ordine all’assenza di minaccia e al concorso di M.O.. Entrambi i motivi sono del tutto generici, non tenendo conto delle argomentazioni esposte nelle sentenze di merito, e prospettando una semplice rilettura del compendio probatorio, secondo un iter tipicamente inammissibile nel giudizio di legittimità.

Fondata è invece la doglianza in ordine alla reiterata richiesta di applicazione dell’art. 56 c.p., comma 3.

E’ vero che quando l’azione intimidatoria si realizza attraverso contatti verbali non è possibile riconoscere la desistenza nella pura e semplice inattività dell’agente, a meno che questa non si sia protratta per un tempo sufficiente a dimostrare che vi sia stato un vero e proprio abbandono del progetto estorsivo. Nel caso di specie la Corte d’Appello si è limitata a richiamare sul punto le argomentazioni del primo giudice che ha affermato: "che la circostanza che la richiesta di denaro sia stata avanzata solo una volta nei confronti di ciascuna delle persone offese non può essere interpretata nel senso di una desistenza degli imputati dall’intento criminoso. Ostativa in tal senso è proprio la circostanza che i prevenuti, dopo avere chiesto il denaro ad una delle vittime si siano successivamente rivolte all’altra, così chiaramente palesando la volontà dì persistere nelle illecite richieste estorsive" e ha sottolineato come peraltro fosse plausibile ritenere che le richieste fossero cessate a causa di un fattore esterno: la cattura del latitante M..

Ciò detto deve rilevarsi che, con riguardo a ciascun tentativo di estorsione contestato, la Corte non ha dato conto, a fronte di specifici motivi d’appello, delle ragioni, fondate su elementi probatori, che l’avevano portata a ritenere insussistente l’invocata desistenza pur a fronte di un’unica richiesta estorsiva nei confronti di ciascuna vittima, non reiterata e considerata anche la non provata sussistenza di elementi esterni in grado da determinare la rottura dell’iter criminoso in assenza di volontà dei correi.

La sentenza impugnata deve essere per l’effetto annullata con rinvio alla Corte d’appello di Reggio Calabria perchè proceda a nuova valutazione in ordine al mancato riconoscimento della desistenza volontaria sulla scorta dei principi sopra indicati.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Reggio Calabria.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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