T.A.R. Emilia-Romagna Parma Sez. I, Sent., 26-07-2011, n. 271 Misure di prevenzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con provvedimento n. 1801/Area 1 del 25 febbraio 2010, a séguito di richiesta di I.A. S.r.l., la Prefettura di Reggio Emilia rilasciava, ai sensi dell’art. 10 del d.P.R. n. 252 del 1998, l’informazione antimafia liberatoria nei confronti della B. S.p.A., aggiudicataria dei "lavori di realizzazione della "Tangenziale di Novellara (RE) 3° stralcio – da rotatoria S.P. nr. 42 all’intersezione con l’allacciante Cartoccio"". Successivamente, acquisiti nuovi elementi di valutazione, la medesima Amministrazione revocava il precedente atto e comunicava all’ente appaltante la sussistenza del pericolo di infiltrazioni mafiose a carico di quella ditta, con effetto di "interdittiva antimafia" ex art. 3 del d.P.R. n. 252 del 1998 (v. provvedimento n. 4138 del 5 aprile 2011); in particolare, la sopraggiunta determinazione si fondava essenzialmente sui due subappalti conferiti a ditte (T.E. Costruzioni S.r.l. e Consorzio Edile M.) riconducibili a famiglie vicine all’ambiente "ndranghetista e con l’accertata elusione della normativa antimafia per il controllo dei subappalti, sulla presenza nel cantiere di soggetto ritenuto organico ad una famiglia "ndranghetista operativa in Cutro, sulle risultanze investigative emerse nell’ambito delle indagini Caronte e Pastoia a proposito dei subappalti affidati dalla B. S.p.A. a ditte ascrivibili a settori mafiosi. A séguito di ciò, la I.A. S.r.l. disponeva la sospensione dell’aggiudicazione dei lavori e dell’efficacia del contratto d’appalto inerenti la tangenziale di Novellara, in vista della revoca dell’atto di aggiudicazione (v. provvedimento del 7 aprile 2011). Infine, analoga misura veniva assunta dalla Provincia di Reggio Emilia, in relazione ai lavori di "ordinaria e straordinaria manutenzione delle strade provinciali del Reparto Nord", relativi ad un appalto sottoscritto nel 2008 con associazione temporanea di imprese avente quale capogruppo la T.C. S.r.l. e quale componente la B. S.p.A. (v. provvedimento del 15 aprile 2011).

Avverso tali atti ha proposto impugnativa la società ricorrente, lamentandone l’illegittimità sotto molteplici profili. Assume innanzi tutto imperniate le conclusioni dell’Amministrazione su circostanze non correttamente conosciute e rappresentate, interpretate in modo parziale e fuorviante, irrilevanti ai fini della valutazione "prognostica" di pericolosità, sicché il giudizio di pericolo di infiltrazioni mafiose si rivelerebbe iniquo e irragionevole, frutto di travisamento dei fatti, incompletezza dei dati acquisiti, difetto dei presupposti, contraddittorietà della motivazione, arbitrarietà, iniquità, sviamento e illogicità; non sarebbe artificioso, quindi, il frazionamento del subappalto di opere identiche fra due imprese (T.E. Costruzioni S.r.l. e Consorzio Edile M.) riconducibili a famiglie vicine alla "ndrangheta, né giustificherebbe sospetti l’intervenuta sottoscrizione del contratto di subappalto dei lavori alla T.E. Costruzioni S.r.l. prima che ne venisse richiesta l’autorizzazione alla stazione appaltante – per trattarsi di un ordinario modusprocedendi -, né poi implicherebbe significativi profili di anomalia l’impiego della denominazione "affidamento lavori" in luogo di "subappalto" – per essere state comunque rispettate le regole procedurali in materia -, né ancora sottenderebbe intenti fraudolenti l’avvenuto ritrovamento di fatture della T.E. Costruzioni S.r.l. per un importo complessivo superiore a quello autorizzato – per risultare i lavori contabilizzati di ammontare inferiore e quindi quelle fatture il risultato di errati conteggi -, né infine l’asserita ascrivibilità della T.E. Costruzioni S.r.l. e del Consorzio Edile M. alla sfera di controllo di organizzazioni malavitose di natura "ndranghetista offrirebbe in sé elementi utili a delineare la concreta possibilità di influenza e condizionamento dell’attività della B. S.p.A. Censura, poi, il rilievo assegnato alla presenza nel cantiere di un soggetto (Floro Vito Giuliano) detenuto per il delitto di usura e ritenuto organico a famiglia di "ndrangheta operativa in Cutro, trattandosi di presenza autorizzata dal G.I.P. presso il Tribunale di Reggio Emilia e quindi legittimata da provvedimento dell’Autorità giudiziaria. Si duole, ancora, del peso attribuito alle risultanze investigative dell’operazione "Caronte", per trattarsi di fatti risalenti nel tempo e non attuali, per essere gli stessi semmai caratterizzati da condotte estorsive a danno della ricorrente ma non anche rivelatrici di un’effettiva capacità di influire su scelte e indirizzi della società, per non risultare in ogni caso avvenuta una reale attività intimidatoria o comunque per esserne stata inconsapevole destinataria la società, per essere risultato dalle intercettazioni telefoniche un solo generico riferimento all’amicizia con il B. in una conversazione tra gli estorsori con evidente atteggiamento millantatore, per essere del tutto irrilevante l’episodio – isolato e avulso da collegamenti con le vicende societarie – dell’incontro tra il fratello del titolare della ditta e un affiliato all’organizzazione malavitosa autrice dell’estorsione. Contesta, inoltre, il richiamo alle risultanze investigative dell’operazione "Pastoia", per non essersi considerato che l’affidamento in subappalto di talune opere di edilizia ad impresa (C.G.A. Costruzioni S.r.l.) ritenuta "…rientrante apieno titolo nell’orbita di Cosa nostra…", relativamente ai lavori di completamento della variante lungo l’asse viario Cispadano – S.S. n. 62, era stato in realtà deliberato dall’a.t.i. "C.M.B. – B. S.p.A.", aggiudicataria dell’appalto, e che la richiesta di autorizzazione al subappalto era stata presentata all’ANAS dalla capogruppo C.M.B., non dalla B. S.p.A., estranea dunque ai rapporti diretti con la subappaltatrice. Lamenta, infine, l’indebito richiamo ad informazioni di polizia relative a varie contestazioni di reato a carico degli amministratori e dei soci della ricorrente, nell’assunto che si tratta di prospettazioni di accusa inidonee ad esprimere sintomi di permeabilità mafiosa, oltre che tendenziosamente dirette a rappresentare quei soggetti come persone dedite alla consumazione di reati, e comunque frutto di un’incompleta e inesatta esposizione dei fatti, con conseguente configurabilità del vizio di eccesso di potere per carenza di istruttoria, travisamento dei fatti e difetto dei presupposti.

Di qui la richiesta di annullamento degli atti impugnati (ivi compresi i provvedimenti di sospensione dell’efficacia degli appalti aggiudicati alla ricorrente, in quanto viziati da illegittimità derivata) e di condanna dell’Amministrazione statale al risarcimento del danno.

Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell’Interno e l’U.T.G. – Prefettura di Reggio Emilia (a mezzo dell’Avvocatura dello Stato), la Provincia di Reggio Emilia e la I.A. S.r.l., opponendosi all’accoglimento del ricorso.

All’udienza del 13 luglio 2011, ascoltati i rappresentanti delle parti, la causa è passata in decisione.

Va premesso che, per costante giurisprudenza (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 15 dicembre 2010 n. 8928 e 19 ottobre 2009 n. 6380), nel quadro del delicato equilibrio tra le finalità, da un lato, dell’osservanza dei principi costituzionali della presunzione di innocenza e della libertà di iniziativa economica privata e, dall’altro, della più efficace azione di contrasto della criminalità organizzata, le informative prefettizie disciplinate dall’art. 4, comma 4, del d.lgs. n. 490 del 1994 e dall’art. 10, comma 7, del d.P.R. n. 252 del 1998 – relative ad eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa per condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese oggetto di vaglio – devono fondarsi su elementi di fatto che, in quanto aventi carattere sintomatico e indiziante, denotino in senso oggettivo il pericolo di collegamenti tra la società o l’impresa e la criminalità organizzata, in esito ad una valutazione che non presuppone sia provata l’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, essendo invece sufficiente, secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale ancorché ragionevole e circostanziato, l’apprezzabile possibilità di interferenze malavitose rivelata da fatti idonei a configurarne il substrato. Trattandosi di una tipica misura cautelare di polizia, preventiva e interdittiva, che si aggiunge alle misure di prevenzione antimafia di natura giurisdizionale e che prescinde dall’accertamento in sede penale di uno o più reati connessi all’associazione di tipo mafioso, non richiede la prova di fatti di reato né la prova dell’effettiva infiltrazione mafiosa nell’impresa, né la prova del reale condizionamento delle scelte dell’impresa da parte di associazioni o soggetti mafiosi, e ciò in ragione delle caratteristiche fattuali e sociologiche del fenomeno mafioso, che non necessariamente si concreta in condotte univocamente illecite, per potersi anche fermare alla soglia dell’intimidazione, dell’influenza e del condizionamento latente di attività economiche formalmente lecite, onde si rende necessario accertare se sussistono i fattori induttivi della probabilità che i comportamenti e le scelte dell’imprenditore rappresentino un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti delle pubbliche Amministrazioni; pertanto, l’ampia discrezionalità di apprezzamento riservata al Prefetto comporta che il suo giudizio sia sindacabile in sede giurisdizionale solo in caso di manifesti vizi di eccesso di potere per illogicità, irragionevolezza o travisamento dei fatti. Quanto, in particolare, alle condotte accertate in sede penale, la giurisprudenza ha rilevato che la circostanza che l’informativa prefettizia risponda all’esigenza di anticipazione della soglia di difesa sociale ai fini di una tutela avanzata nel campo del contrasto della criminalità organizzata, in modo da prescindere da soglie di rilevanza probatorie tipiche del diritto penale e cercare di cogliere l’affidabilità dell’impresa appaltatrice complessivamente intesa, comporta che fatti vagliati in un giudizio penale favorevole per l’imputato possano acquisire comunque una connotazione indiziante ai fini dell’emersione di concreti rischi di infiltrazione mafiosa – essendo diversi i piani su cui muovono l’Autorità giudiziaria e quella amministrativa -, a meno che la sentenza penale di assoluzione escluda la verificazione stessa di un determinato fatto sul piano della realtà (a prescindere dalla sua valenza giuridica) e allora in tale caso il fatto non può sicuramente assurgere ad elemento indiziario nemmeno ai fini dell’informativa interdittiva (v., tra le altre, TAR Campania, Napoli, Sez. I, 2 novembre 2010 n. 22111). Quanto, poi, all’ipotesi in cui la misura interdittiva tragga sostegno dalla frequentazione di soggetti malavitosi, la giurisprudenza osserva che, in mancanza di una loro specifica significatività e pregnanza circa la finalizzazione al condizionamento mafioso dell’attività imprenditoriale, detti accadimenti devono essere valorizzati da ulteriori elementi indiziari, quali il carattere plurimo e stabile delle frequentazioni e la loro connessione con vicende dell’impresa che depongano nel senso di un’attività sintomaticamente connessa a logiche ed interessi malavitosi (v. Cons. Stato, Sez. VI, 19 ottobre 2009 n. 6380). Quanto, ancora, al rapporto di parentela con esponenti della criminalità organizzata, si ritiene che una simile situazione non costituisca in sé indizio sufficiente per il giudizio di contiguità mafiosa, ma è necessario che al dato dell’appartenenza familiare si accompagni la frequentazione, la convivenza o la comunanza di interessi con l’individuo sospetto (v., ad es., TAR Campania, Napoli, Sez. I, 1° dicembre 2010 n. 26527).

Ciò posto, un primo capo di motivazione è nella fattispecie ancorato all’affidamento di due subappalti a ditte (T.E. Costruzioni S.r.l. e Consorzio Edile M.) riconducibili a famiglie vicine all’ambiente "ndranghetista, il tutto con l’elusione della normativa antimafia per il controllo dei subappalti; si sarebbe operato, cioè, un artificioso frazionamento dei lavori al solo scopo di evitare l’acquisizione delle informazioni ex art. 10 del d.P.R. n. 252 del 1998 e così sottrarre quelle ditte alle verifiche che ne avrebbero impedito l’assunzione dei lavori – come risulterebbe anche confermato dalla circostanza che la T.E. Costruzioni S.r.l. ha fruito di pagamenti di importo (Euro 161.633,35) superiore all’ammontare dichiarato nel contratto (Euro 130.000,00) e alla soglia stabilita per l’acquisizione delle informazioni della Prefettura e come risulterebbe altresì confermato dalla circostanza che il relativo atto contrattuale reca l’inesatta qualificazione del rapporto come affidamento di lavori anziché come subappalto -, mentre un ulteriore rilevante indizio della contiguità mafiosa risiederebbe nel fatto che l’autorizzazione all’affidamento dei lavori alla T.E. Costruzioni S.r.l. era stata richiesta dalla B. S.p.A. alla stazione appaltante in data 21 giugno 2010 e quindi dopo che il relativo contratto era stato stipulato (4 maggio 2010). Sennonché, quanto al frazionamento delle opere in subappalto tra la T.E. Costruzioni S.r.l. e il Consorzio Edile M., il peculiare susseguirsi della consegna dei lavori alla B. S.p.A., prima avvenuta in modo parziale in data 8 e 30 marzo 2010 e poi in modo completo, seppur sotto le riserve di legge, il successivo 1° giugno (v. verbale in pari data; doc. n. 6) – quando si sono finalmente resi disponibili per l’ente appaltante tutti i terreni interessati dalla realizzazione dell’opera -, e la sopraggiunta necessità di apportare modifiche di dettaglio al progetto e di provvedere sollecitamente alla loro esecuzione (v. nota del Responsabile unico del procedimento in data 1° settembre 2010; doc. n. 24), rendono plausibile che la scelta di rivolgersi a ditte diverse per lavori della stessa natura sia stata in realtà resa necessaria dall’avere dovuto operare a tappe forzate e con gli operatori economici risultati in quelle fasi temporali liberi da impegni (l’addotta singolarità della coincidenza di data nelle richieste di autorizzazione dei subappalti inerenti le due imprese non depone per una finalità elusiva dei controlli, se è vero che i relativi contratti risalgono comunque a date diverse); onde il solo fatto oggettivo del frazionamento del subappalto, ove non accompagnato da ulteriori e significativi indizi, non può di per sé rappresentare in tale contesto un indice probante del rischio di condizionamento mafioso supposto dall’Autorità prefettizia, tanto più che questa assume a riferimento le dichiarazioni del sig. Mazzeo, il quale però non era il responsabile di cantiere e aveva piuttosto mansioni secondarie (così come documentato in giudizio dalla ricorrente), risultando perciò poco rilevanti le sue conclusioni circa l’asserita incomprensibilità del ricorso a due distinti subappaltatori. Né appare rivelatrice della volontà di sfuggire alla normativa antimafia la circostanza che siano state rinvenute fatture della T.E. Costruzioni S.r.l. per un importo complessivo (Euro 161.633,35) superiore a quello autorizzato (Euro 130.000,00) e superiore altresì alla soglia stabilita per la verifica prefettizia, risultando in realtà contabilizzati al 30 dicembre 2010 lavori di ammontare pari a Euro 102.997,54 e al 28 febbraio 2011 lavori pari a Euro 116.154,06 (v. doc. n. 50), mentre il successivo 15 marzo l’ente appaltante autorizzava la B. S.p.A. all’estensione del subappalto all’importo globale di Euro 150.000,00 (v. doc. n. 52); le fatture ritrovate, quindi, non corrispondono alla quota di lavori effettivamente eseguita, ed è verosimile rappresentino piuttosto il risultato di calcoli errati o comunque non veritieri, nessun altro elemento essendo stato del resto addotto dall’Autorità prefettizia per comprovare l’indebito dilatarsi del subappalto ad una quantità di opere maggiore di quella assentita. Né, ancora, si presenta significativa la circostanza che la richiesta di autorizzazione al subappalto fosse stata presentata dopo la sottoscrizione del relativo contratto, essendo già stato rilevato che nulla esclude come "…possa essere depositato, all’atto della richiesta di autorizzazione, non lo schema, ma il contratto di subappalto stipulato. In tal caso il termine di 30 giorni anzidetto copre sia lo spazio lasciato all’Amministrazione per concedere o negare l’autorizzazione, sia il termine di 20 giorni prescritto come attesa prima dell’inizio dell’esecuzione dei lavori…" (così la determinazione n. 20 del 5 aprile 2000 dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, in riferimento alla previgente disciplina di cui all’art. 18 della legge n. 55 del 1990, ma sicuramente coerente anche con la normativa di cui all’art. 118 del d.lgs. n. 163 del 2006), sicché in una simile situazione l’efficacia del subappalto già sottoscritto resta subordinata all’autorizzazione della stazione appaltante; il che è quanto avvenuto nella fattispecie, senza che, di conseguenza, il fatto riveli in sé profili di anomalia. Quanto, poi, alla circostanza che si era denominato il subappalto come "contratto di affidamento lavori" e che ciò sarebbe dovuto alla volontà di impedire l’accertamento dei requisiti di ordine generale in capo alla subappaltatrice – il cui legale rappresentante sarebbe stato condannato in passato per il reato di cui all’art. 648bis cod.pen. e si contraddistinguerebbe perciò per un precedente suscettibile di operare come fattore ostativo all’affidamento del subappalto -, osserva il Collegio che l’atto negoziale contiene in realtà più volte nel testo i termini "subappalto" e "subappaltatore" ed è stato pure oggetto di richiesta di autorizzazione della stazione appaltante, sicché non se ne evincono elementi di riscontro all’intento fraudolento in tal modo ipotizzato; ciò anche perché il vaglio del precedente penale asseritamente ostativo implicava una valutazione di pertinenza della stazione appaltante e non dell’impresa appaltatrice/subappaltante, impossibilitata del resto a conoscere di una pena patteggiata ex art. 444 cod.proc.pen. non risultante dal certificato del casellario giudiziale rilasciato a richiesta dell’interessato ed emergente solo dal certificato "integrale" ottenibile dall’ente appaltante. Quanto, infine, ai legami che le due imprese subappaltatrici vanterebbero con organizzazioni "ndranghetiste, non rileva in questa sede accertare la correttezza di simili conclusioni, ma è sufficiente osservare che il mero affidamento di lavori a dette imprese, se non accompagnato da elementi specifici che evidenzino un’effettiva e autonoma permeabilità della B. S.p.A. alle infiltrazioni malavitose, non costituisce circostanza utile in tal senso.

Un secondo capo di motivazione si fonda sulla "…presenza in cantiere di F.V.G., cognato di M.D. presidente CDA della T.E.C., detenuto per il delitto di usura e ritenuto organico alla famiglia di ndrangheta operativa in Cutro…". Sul punto, tuttavia, è persuasiva la censura della ricorrente, secondo la quale non possono essere formulati sospetti di condizionamento mafioso in ragione di una presenza che risulta assentita dall’Autorità giudiziaria ("…F.V.G…. ha ottenuto, in data 22 ottobre 2010, l’autorizzazione del G.I.P. presso il Tribunale di Reggio Emilia a recarsi, in giorni ed orari prestabiliti, presso il cantiere dei lavori di realizzazione della tangenziale nord di Novellara… perché assunto dall’impresa edile "Tre emme costruzioni s.r.l.", avendone dichiarato la disponibilità ad assumerlo il legale rappresentante della predetta ditta…"). In effetti, a fronte della valutazione compiuta dal G.I.P. presso il Tribunale di Reggio Emilia, è contraddittorio e illogico far scaturire il pericolo di influenza malavitosa da una presenza che deve presumersi di per sé inidonea ad alimentare ulteriori attività criminose, a meno che l’Autorità prefettizia non appuri in concreto condotte a ciò preordinate, e quindi verifichi l’effettivo dispiegarsi di comportamenti ascrivibili alla sfera dell’intimidazione di stampo mafioso, o comunque il consolidarsi di rapporti e frequentazioni che giustifichino un simile sospetto; allo stato, pertanto, le ipotesi dell’Amministrazione risultano prive di adeguato sostegno e richiederebbero piuttosto indagini e accertamenti ulteriori, volti a verificare la sussistenza delle suindicate condizioni.

Un terzo capo di motivazione assume a riferimento le risultanze investigative dell’indagine "Caronte", ed in particolare la circostanza che ditte controllate da organizzazioni malavitose (cosa nostra e "ndrangheta) avrebbero in passato costretto la società ricorrente ad affidare loro subappalti nell’ambito dei cantieri ferroviari per l’Alta Velocità in EmiliaRomagna, mentre il fratello del titolare dell’impresa frequentava un soggetto alle dipendenze di chi quelle estorsioni aveva posto in essere, indice di contiguità e vicinanza con la criminalità organizzata. Osserva, però, il Collegio che, come è stato avvertito dalla giurisprudenza in relazione ad un caso di interdittiva antimafia motivata anche con l’estorsione subita ad opera di organizzazioni malavitose (v. TAR Campania, Napoli, Sez. I, 25 agosto 2009 n. 4829), se anche la posizione di estorto non esclude necessariamente la sussistenza di un pericolo di condizionamento – perché attesta l’esistenza di un contatto tra il soggetto passivo e la criminalità organizzata -, è tuttavia evidente come la forza argomentativa di un simile elemento sia significativamente sminuita dalla peculiare posizione di chi avrebbe subito l’ingerenza di gruppi malavitosi, onde di questo aspetto l’informativa deve tenere conto, senza limitarsi a richiamare il procedimento in cui il soggetto figura quale persona offesa dal reato, ma puntualmente motivando circa l’incidenza di tale vicenda sul complessivo giudizio di permeabilità mafiosa; nella fattispecie, invece, il precedente dell’estorsione è stato in modo apodittico richiamato quale fatto in sé significativo a proposito della supposta contiguità con la criminalità organizzata, in assenza degli approfondimenti richiesti dalla giurisprudenza, e ciò indipendentemente dalla censura, priva di apprezzabili riscontri, secondo cui un’estorsione non sarebbe in realtà mai avvenuta e comunque avrebbe visto inconsapevole vittima la ricorrente, oltre a riguardare fatti risalenti nel tempo. Né il singolo episodio della serata di piacere con alcune ragazze che avrebbe visto protagonisti il fratello (Lorenzo B.) del titolare della società ricorrente e un affiliato (Giovanni Durante) all’organizzazione malavitosa autrice dell’estorsione sulla medesima società, ad avviso del Collegio, fornisce elementi rilevanti circa la ritenuta vicinanza con la criminalità organizzata, se l’Amministrazione – come da costante giurisprudenza – non accerti il carattere plurimo e stabile delle frequentazioni, ovvero una comunanza di interessi che sottenda la capacità di influire sulla volontà di uno o più amministratori della società e quindi di incidere sull’attività dell’impresa; il che nella fattispecie, tuttavia, non è stato evidenziato, essendocisi limitati a richiamare quell’episodio, senza corroborarlo con fatti e circostanze che, da un lato, dessero atto della regolarità degli incontri o comunque della sussistenza di interessi condivisi, e che, dall’altro lato, rivelassero l’effettiva capacità del malavitoso e della sua organizzazione di incidere sulle scelte operative della società attraverso un soggetto (Lorenzo B.) invero privo di incarichi di gestione nell’impresa.

Un quarto capo di motivazione si incentra sulle risultanze investigative dell’indagine "Pastoia", per essere emerso – a carico della società ricorrente – l’affidamento in subappalto di taluni lavori di edilizia in favore di impresa (C.G.A. Costruzioni S.r.l.) ritenuta "…rientrante a pieno titolo nell’orbita di Cosa nostra…". Sennonché, come è stato documentato dall’interessata, i lavori di completamento della variante lungo l’asse viario Cispadano – S.S. n. 62 erano stati affidati all’a.t.i. "C.M.B. – B. S.p.A." e la richiesta di autorizzazione al subappalto era stata presentata all’ANAS dalla capogruppo C.M.B. (v. doc. n. 60), onde l’ascrivibilità alla ricorrente (e non alla capogruppo) della scelta della subappaltatrice e della tenuta di rapporti sospetti con la stessa appare frutto di apodittiche conclusioni, e avrebbe semmai richiesto un più completo e puntuale accertamento circa le ragioni e le modalità della decisione di avvalersi di una terza impresa, decisione che invece è sicuramente riconducibile alla ricorrente per il subappalto dei lavori di realizzazione della "variante sud all’abitato di San Martino in Rio" (v. doc. n. 12 della produzione della Prefettura di Reggio Emilia); va, peraltro, ribadito che il mero affidamento di lavori ad imprese che siano poi risultate collegate ad organizzazioni criminali, se non accompagnato da elementi specifici che evidenzino un’effettiva e autonoma permeabilità della B. S.p.A. alle infiltrazioni malavitose, non costituisce circostanza utile in tal senso, dovendo essere chiarito quali reali rapporti si fossero instaurati con gli ambienti della criminalità organizzata e quale peculiare valore andasse assegnato all’assunzione da parte della società ricorrente di taluni dipendenti in vario modo interessati da precedenti penali o da legami con imprese sospette e con settori malavitosi (v. all. 3 alla misura interdittiva), in un quadro generale che, per recare elementi in parte inadeguati e in parte non assistiti dalla necessaria motivazione o istruttoria, si caratterizza per l’insufficienza dei dati posti a fondamento del giudizio di contiguità mafiosa della società, giudizio che – come è noto – deve essere sì emesso sulla base di accertamenti sommari e probabilistici ma senza ridursi a congetture prive di convincenti riscontri.

Le restanti censure della ricorrente investono la parte del provvedimento prefettizio dedicato all’elencazione delle comunicazioni di reato riguardanti soci e amministratori della società. Indipendentemente, però, dal vaglio dell’esito di detti procedimenti e dal pregio che le relative condotte possono assumere in sede di giudizio di pericolo di infiltrazioni mafiose, il Collegio rileva come tali fatti, che non riguardano la criminalità organizzata, possano al più concorrere quale indice della propensione degli interessati ad agire nell’illegalità e quindi ad essere più facile bersaglio dei tentativi di ingerirsi nell’attività di impresa da parte di gruppi malavitosi; il relativo peso, allora, potrà essere apprezzato solo in presenza di circostanze direttamente rivelatrici del sospetto di contiguità mafiosa della società, ovvero quale quadro di contorno di un’attività istruttoria che deve sorreggersi soprattutto su quei profili che denotino vicinanza e persistenza di contatti con ambienti criminali, profili che si è visto nella fattispecie per un verso difettare e per l’altro verso non presentarsi sufficientemente istruiti o motivati. Donde l’inidoneità di dette vicende penali a giustificare in via autonoma l’interdittiva antimafia, che ne risulta di conseguenza allo stato dei fatti caducata, pur risultando astrattamente possibile – come è ovvio – la reiterazione del giudizio di pericolo di infiltrazioni malavitose, previa correzione degli errori e delle carenze che si è in questa sede accertati.

Illegittimi in via derivata, e allo stesso modo oggetto di annullamento giurisdizionale, risultano i due successivi provvedimenti di sospensione dell’efficacia degli appalti aggiudicati alla ricorrente, in quanto entrambi fondati unicamente sull’interdittiva antimafia ora annullata.

Quanto, infine, all’istanza risarcitoria, la si può rigettare sulla base del costante orientamento giurisprudenziale secondo cui, laddove l’annullamento di un provvedimento illegittimo lasci spazio all’attività rinnovatoria dell’Amministrazione e questa sia caratterizzata da margini di discrezionalità – soprattutto se il vizio è costituito da difetto di istruttoria o di motivazione -, non sussistono i presupposti per disporre il risarcimento del danno, dovendo la fondatezza dell’istanza risarcitoria essere valutata all’esito del nuovo esercizio del potere amministrativo, che se ancora sfavorevole escluderebbe di per sé il danno risarcibile derivante dal primo atto, se non eventualmente – ove ammissibile – come danno da ritardo del provvedimento comunque sfavorevole (v., tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 24 gennaio 2011 n. 462). Nella circostanza, come si è visto, il riesercizio del potere prefettizio, risultando astrattamente suscettibile di un nuovo giudizio di pericolo di infiltrazioni mafiose, presenta quei profili di discrezionalità che, allo stato, lasciano incerto l’esito dell’attività rinnovatoria, ed impediscono quindi un accertamento definitivo dei presupposti per il riconoscimento dell’invocato ristoro patrimoniale.

La complessità delle questioni esaminate giustifica la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’EmiliaRomagna, Sezione di Parma, pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, annulla gli atti impugnati.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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