Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 10-03-2011) 19-07-2011, n. 28806

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza in data 17.1.2010 la Corte di appello di Brescia respingeva la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione avanzata da T.T. relazione alla custodia cautelare in carcere dalla medesima subita dal 4 ottobre 2008 al 18 febbraio 2009 e quindi agli arresti domiciliari sino al 16 aprile 2009, in relazione alla imputazione di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione.

2. Avverso tale ordinanza ricorre per cassazione l’interessata, attraverso il difensore di fiducia, deducendo violazione di legge e difetto della motivazione per aver escluso la riparazione ritenendo che la medesima avesse dato causa per colpa grave alla detenzione semplicemente perchè aveva precedenti penali e non poteva non sapere quale attività il suo compagno gestiva, ma senza che a suo carico vi fossero reali indizi di concorso nel reato e neppure la ritenuta connivenza; quanto a quest’ultima, la corte di Brescia ha trascurato di considerare che nel dibattimento non si era affatto provato che la T. avesse, con il proprio comportamento agevolato la consumazione del reato da parte del compagno; nel giudizio della riparazione non si poteva ritenere invece la sussistenza della connivenza, stante l’intagibilità del giudicato sulla assoluzione.

Motivi della decisione

1. Il ricorso non è fondato.

2. Ai fini dell’accertamento del requisito soggettivo ostativo al riconoscimento dell’indennizzo in questione, il giudice del merito, investito dell’istanza per l’attribuzione di una somma di danaro a titolo di equa riparazione per l’ingiusta detenzione, ai sensi dell’art. 314 cod. proc. pen., ha il dovere di verificare se la condotta tenuta dall’istante nel procedimento penale, nel corso del quale si verifico1 la privazione della libertà personale, quale risulta dagli atti, sia connotabile di dolo o di colpa grave. Il giudice stesso deve, a tal fine, valutare se certi comportamenti riferibili alla condotta cosciente e volontaria del soggetto, possano aver svolto un ruolo almeno sinergico nel trarre in errore l’autorità giudiziaria; ciò che il legislatore ha voluto, invero, è che non sia riconosciuto il diritto alla riparazione a chi, pur ritenuto non colpevole nel processo penale, sia stato arrestato e mantenuto in detenzione per aver tenuto una condotta tale da legittimare il provvedimento dell’autorità inquirente (sez. 4 7.4.99 n.440, Min. Tesoro in proc. Petrone Ced 197652).

Le sezioni unite di questa Corte (sentenza 13.12.1995 n. 43, Sarnataro rv.203638) hanno poi ulteriormente precisato che "Nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione è necessario distinguere nettamente l’operazione logica propria del giudice del processo penale, volta all’accertamento della sussistenza di un reato e della sua commissione da parte dell’imputato, da quella propria del giudice della riparazione il quale, pur dovendo operare, eventualmente, sullo stesso materiale, deve seguire un "iter" logico- motivazionale del tutto autonomo, perche1 è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste si sono poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell’altrui errore) alla produzione dell’evento "detenzione" ed in relazione a tale aspetto della decisione egli ha piena ed ampia libertà di valutare il materiale acquisito nel processo, non già per rivalutarlo, bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell’azione (di natura civilistica), sia in senso positivo che del tutto evidente, rispondendo ad un principio generale, che), sia in senso positivo che negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione del diritto alla riparazione". 3. Il provvedimento impugnato rileva che era pacifico che la T. fosse a conoscenza del fatto che nel locale gestito dal convivente, accanto a prestazioni a sfondo sessuale lecite (spettacoli di lap dance e simili), avvenivano prestazioni di sesso a pagamento nei sei "prive" destinati, pur con contabilità separata, proprio all’attività di sfruttamento della prostituzione; che la donna risultava già condannata per attività di sfruttamento della prostituzione; che ella collaborava nella gestione del locale; si rileva altresì che l’assoluzione è stata pronunciata non essendo stato provato, con adeguata certezza, che il contributo della donna fosse diretto, oltre che alla attività lecita legata agli spettacoli a sfondo sessuale, anche nei confronti di quella di sfruttamento della prostituzione che si svolgeva nei prive; che il comportamento della medesima doveva tuttavia considerarsi improntato a colpa grave dal momento che ella ben sapeva cosa avveniva nel locale ed era consapevole che anche gli incassi leciti erano collegati allo sfruttamento della prostituzione, atteso che provenivano da clienti attratti nel locale anche per la possibilità delle prestazioni sessuali a pagamento che esso offriva.

La motivazione è, ad avviso del Collegio, adeguata e corretta avendo indicato, nell’ambito della autonomia consentita e fermo l’accertamento dei fatti da parte del giudice penale, le ragioni per le quali il comportamento della istante doveva ritenersi connotato da colpa grave.

4. Al rigetto del ricorso segue per legge la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali; la medesima, in ragione della soccombenza, deve essere altresì condannata alla rifusione delle spese sostenute per questo giudizio di Cassazione dal Ministero dell’Economia, liquidate in Euro 750,00.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese sostenute per questo giudizio di Cassazione dal Ministero dell’Economia e liquidate in Euro 750,00.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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