Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 18-05-2011) 20-07-2011, n. 28933 Bancarotta fraudolenta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte d’Appello di Roma ha confermato, il 23.3.2010, la sentenza di condanna del Tribunale di Roma emessa, nelle forme del rito abbreviato, nei confronti di D.B.A., accusato di bancarotta fraudolenta societaria, in ragione della accertata falsità dei bilanci di SITOFM S.r.l., dichiarata fallita il (OMISSIS).

La vicenda attiene ad una società immobiliare impegnata nell’acquisto di un vasto complesso immobiliare sito in Via (OMISSIS) e risultato inadempiente nella restituzione dei mutui richiesti per la ristrutturazione del medesimo.

Ad una iniziale accusa di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale seguiva, per contestazione in udienza di primo grado, l’attuale addebito modulato sulla novella configurazione della L. Fall., art. 223, comma 2, n. 1, conseguita alla riforma di cui al D.Lgs. n. 62 del 2001.

Avverso la decisione d’appello interpone ricorso la difesa del D. B. ed eccepisce:

– l’illegittimità costituzionale della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3 per contrasto con l’art. 117 Cost., art. 7 CEDU, come già rilevato dalla Cassazione, 2^ Sez. ( Ord. 11.6.2010);

– prescrizione del reato a mente del nuovo art. 157 c.p., maturata prima della sentenza della Corte d’Appello;

– violazione degli artt. 517 e 522 c.p.p. (ed art. 117 Cost., art. 6, comma 3, lett. b, CEDU) nella parte in cui stabilisce la celebrazione di un processo equo) per la sostituzione del capo di imputazione all’udienza 22 settembre 2004, pur nella identità del fatto contestato;

– carenza ed illogicità di motivazione nell’avere trascurato di giustificare il superamento delle dette eccezioni processuali.

In data 13 maggio 2011 sono pervenuti motivi aggiunti a firma dell’avv. Possenti (motivi depositati tempestivamente presso C. App. Roma).

Motivi della decisione

Questa sezione della Corte di Cassazione ha così deciso in presenza di analoga eccezione difensiva con Ordinanza del il 27 gennaio 2011:

"… come è noto, la L. n. 251 del 2005, art. 10 detta disposizioni transitorie sull’applicazione dei termini prescrizionali secondo i diversi criteri stabiliti dalla stessa legge a modifica della previsione dell’art. 157 cod. pen.. In particolare, per ciò che qui interessa, il comma 3 dell’articolo citato, nella formulazione conseguente alla declaratoria di parziale illegittimità costituzionale di cui a Corte Cost., sent. n. 393 del 2006, stabilisce che i termini computati secondo la normativa sopravvenuta, ove più brevi di quelli individuati alla legislazione precedente, vengano applicati ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge ad esclusione di quelli già pendenti in grado di appello o dinanzi alla Corte di Cassazione.

Posto che la disciplina dei termini di prescrizione ha natura sostanziale (Sez. 5, n. 12766 del 16.2.2010, imp. Meggiorin, Rv.

246877) ed è pertanto soggetta all’applicazione dei principi generali di cui all’art. 2 c.p. in tema di retroattività della legge più favorevole all’imputato, la norma in oggetto pone nella specie un limite a tale generale effetto retroattivo, identificandolo, nello sviluppo cronologico del procedimento, nella pendenza del procedimento in grado di appello; per cui, laddove detta pendenza abbia avuto inizio prima dell’entrata in vigore della legge introduttiva delle nuove modalità di calcolo dei termini di prescrizione, queste ultime non potranno essere applicate nel procedimento, che continuerà ad essere regolato a questi fini dalla normativa previgente. Come rammentato dallo stesso ricorrente, questa Corte ha recentemente affermato che il dato processuale della pendenza del procedimento in grado d’appello del procedimento è determinato dalla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado (Sez. U, n.47008 del 29.10.2009, imp. D’Amato, Rv.244810). Questa posizione, ribadita anche da decisioni successive (Sez. 6, n.8983 del 16.12.2009, imp. Tonisi, Rv.246406), è coerente con la attuale formulazione della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, che non radica il discrimine fra le aree di operatività delle normative succedutesi in un atto processuale determinato, ma lo indica invece sostanzialmente nell’inizio di una fase processuale. Ragionevole e consequenziale è, a questo punto, un’interpretazione che colloca il limite nell’atto formalmente conclusivo della fase immediatamente precedente, ossia quella di primo grado; atto che deve essere individuato nella pronuncia della sentenza di condanna che definisce quella fase, ponendosi per altro verso come affermazione particolarmente qualificata, in quanto susseguente alla verifica del contraddittorio dibattimentale, della volontà punitiva dell’ordinamento, come tale indicata in posizione preminente quale atto interruttivo della prescrizione dall’art. 160 c.p., comma 1.

Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, il principio appena enunciato non è posto in discussione dall’indirizzo giurisprudenziale per il quale, laddove il giudizio di primo grado si sia concluso con una sentenza di assoluzione, il momento determinante per l’instaurarsi della pendenza in grado di appello deve essere identificato nell’emissione del decreto di citazione a giudizio per tale grado. L’orientamento in esame (Sez. 6, n. 7112 del 25.11.2008, imp. Perrone, Rv.242421) è fondato invero proprio sull’impossibilità di estendere le connotazioni conclusive e definitorie della fase di primo grado, proprie della sentenza di condanna, alla sentenza di assoluzione, significativamente non indicata fra gli atti interruttivi della prescrizione; in tal senso il criterio adottato dalla citata decisione delle Sezioni Unite di questa Corte viene ad essere a contrariis confermato".

Tanto premesso, la questione di legittimità costituzionale non può presentarsi al Collegio come manifestamente infondata.

A siffatta conclusione è pervenuta anche una precedente declaratoria di non manifesta infondatezza della questione (Cass. Sez. 2 del 27 maggio 2010, De Giovanni, CED Cass. 247321), che ha ritenuto che il principio di retroattività della legge più favorevole sia sancito sia a livello internazionale sia a livello comunitario,con richiamo all’art. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con L. n. 881 del 1977, stabilisce che "se, posteriormente alla commissione di un reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne", "disposizione alla quale si collega la riserva dell’Italia nel senso dell’applicazione limitata ai procedimenti in corso, e non anche a quelli nei quali sia intervenuta una decisione definitiva". Norma di carattere internazionale che ove sia parametrata all’art. 117 Cost., comma 1, rende non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disciplina transitoria in esame, perchè priva l’imputato, il cui processo sia già pendente in appello o in Cassazione, dell’ottemperanza alla regola cogente, imposta dalla norma pattizia per la quale la legge più favorevole deve essere di immediata applicazione, senza che le deroghe disposte dalla legge ordinaria possano essere giustificate per effetto del bilanciamento con interessi di analogo rilievo.

Più decisioni della Corte Costituzionale, da ultima Corte Cost., sent. n. 93 del 2010, hanno peraltro costantemente affermato che "le norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione, integrano, quali norme interposte il parametro costituzionale espresso dall’art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui esso impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli "obblighi internazionali" (sentenze nn. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008)". Ne consegue che "nel caso in cui si profili un eventuale contrasto tra una norma interna e una norma CEDU, il giudice nazionale comune, deve, quindi, preventivamente verificare la praticabilità di una interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica (sentenza n. 239 del 2009), e, ove tale soluzione risulti impercorribile, non potendo egli disapplicare la norma interna contrastante, deve denunciare la rilevata incompatibilità proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento al parametro dianzi indicato". La Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo, in seguito al ricorso n. 10249 del 2003 presentato da S.F., con sentenza del 17.9.2009 ha imposto alla Stato italiano di porre fine alla violazione degli artt. 6 e 7 della Convenzione e di assicurare che la pena dell’ergastolo inflitta al ricorrente venisse sostituita con pena non superiore a quella della reclusione di anni trenta. La CEDU è pervenuta alla citata decisione avendo affermato che l’art. 7 della Convenzione, che stabilisce il principio del divieto di applicazione retroattiva della legge penale, incorpora anche il corollario del diritto dell’accusato al trattamento più lieve. In particolare, per quel che rileva nel presente procedimento, dopo aver rammentato le proprie precedenti pronunce sull’interpretazione dell’art. 7 della Convenzione, la Corte Europea ha stabilito che la sopravvenienza di norme di carattere internazionale e di pronunce applicative e interpretative di esse imponeva un "approccio dinamico ed evolutivo nell’interpretazione dell’art. 7". Allo scopo richiamava l’art. 491 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, la sentenza 3.5.2005 della Corte di giustizia delle Comunità Europee e lo stesso art. 2 cod. pen. italiano. Affermava in conseguenza il principio secondo il quale "l’art. 71 della Convenzione non sancisce solo il principio della irretroattività della legge penale più severa, ma anche, implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa", per cui "se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato".

Alla luce di queste considerazioni, rilevato che la proposta questione di legittimità costituzionale è, altresì, rilevante nel presente giudizio, poichè la disciplina prescrittiva del reato di bancarotta aggravato è difforme rispetto alla normativa previgente, prevedendo termini più brevi di estinzione del reato, si impone la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, con sospensione del presente giudizio, per il vaglio della rilevata questione di legittimità della disciplina transitoria prevista dalla L. n. 251 del 2005, disponendo la sospensione del presente procedimento.

P.Q.M.

Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 10, comma 3, in relazione all’art. 117 della Costituzione e sospende il giudizio in corso.

Dispone che a cura della Cancelleria la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento.

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