Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 04-05-2011) 20-07-2011, n. 28918

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte d’Appello di Napoli con sentenza del 21 luglio 2010, in parziale riforma della sentenza del 9.3.2010 del GUP del Tribunale di Napoli, ha rideterminato in anni sei la pena inflitta a T. L., per i delitti di cui agli artt. 609-quater, 527, 609 bis e 609 septies c.p., art. 600 bis c.p., comma 1.

L’imputato ha proposto ricorso per cassazione chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi:

1. Nullità della sentenza per mancanza di uno dei requisiti essenziali previsti dall’art. 546 c.p.p.. Violazione art. 606, comma 3, lett. c) ed e) in relazione all’art. 533 c.p.p. e per illogicità della motivazione. La sentenza è priva dell’imputazione in quanto nonostante abbia indicata la formula nell’intestazione: "imputato dei reati di cui all’allegato elenco", detto elenco risulta mancante.

Pertanto difetta il requisito previsto dall’art. 546 c.p.p. sub e) e l’indicazione dell’imputazione non risulta neppure dall’epigrafe della sentenza di primo grado nè dal decreto di citazione per il giudizio di secondo grado, per cui il diritto di difesa è stato compresso e danneggiato.

Inoltre, la Corte di appello avrebbe ricostruito i fatti in termini di verosimiglianza e non di certezza al di là di ogni ragionevole dubbio, in ossequi al parametro logico-giuridico imposto dalla legge.

In particolare, appare illogico ritenere che uno dei giovani, G.F., avrebbe subito un rapporto violento, contro la sua volontà, in quanto tale giovane, nel corso dell’incidente probatorio, ha ammesso di essere stato proprio lui a cercare un approccio con l’imputato e di avere contratto una malattia venerea per essere aduso ad andare "con le (prostitute) nere". Del pari è illogica la conferma della condanna per il delitto contestato sub e) per il solo fatto che gli incontri sarebbero avvenuti nell’autovettura del prevenuto, in quanto non è stato precisato se l’auto si trovava in un luogo pubblico o aperto al pubblico o meno.

Motivi della decisione

Osserva la Corte che i motivi di ricorso sono manifestamente infondati. 1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

La decisione impugnata (come peraltro quella di primo grado) contiene accluso in allegato copia della richiesta di rinvio a giudizio del T., contenente l’indicazione di dettagliati capi di imputazione, ai quali l’intestazione della sentenza fa rinvio. Dagli stessi si evince che il ricorrente è stato processato per i delitti: a) di cui all’art. 609 quater c.p., per aver compiuto atti sessuali con il minore M.C., praticandogli un rapporto orale all’interno della propria autovettura Fiat Punto targata (OMISSIS), compiendo con tale condotta il reato di atti osceni in luogo pubblico o comunque esposto al pubblico (capo b), in (OMISSIS); e) di cui agli artt. 609 bis e septies, comma 4, n. 1, c.p., perchè, dopo aver condotto presso la propria abitazione il minore G.F. con la proposta di fargli eseguire dei lavori edili, con violenza consistita nel chiudergli la porta della stanza all’interno della quale lo aveva condotto e nel toccargli repentinamente gli organi genitali, costringeva il predetto minore a subire atti sessuali, in (OMISSIS); d) di cui all’art. 600 bis c.p., comma 1, perchè dopo aver commesso il delitto di cui al capo che precede, ricontattando il minore G.F. sull’utenza cellulare a lui in uso, incontrandolo in più occasioni e regalandogli senza alcun plausibile motivo un paio di scarpe, conducendolo in luoghi isolati e tranquillizzandolo circa l’assenza di intenti violenti nei suoi confronti, lo induceva a prostituirsi per la somma di Euro 10,00 che gli consegnava in occasione di almeno due incontri nel corso dei quali, all’interno della sua autovettura, in luoghi isolati, ma aperti al pubblico, si masturbava toccando contemporaneamente gli organi genitali del predetto minore e perchè con la condotta predetta compiva atti osceni in luogo pubblico o comunque esposto al pubblico, in (OMISSIS), con la recidiva. Sia la sentenza di secondo grado che la sentenza di primo grado hanno motivato ampiamente su ciascuno dei delitti contestati e l’atto di appello del T., oltre a non fare menzione di alcuna mancanza nel decreto di citazione o nella sentenza quanto all’indicazione dei fatti di reato addebitati, svolge la propria impugnazione argomentando diffusamente in merito alle singole ipotesi delittuose ascritte. Del pari, anche il presente ricorso, contiene un esplicito riferimento al capo e) della rubrica e a specifiche circostanze fattuali degli episodi contestati, da cui è agevole dedurre che il ricorrente, durante tutto il giudizio di merito, è stato posto in condizione di esercitare il proprio diritto di difesa e che sia il decreto di citazione a giudizio, che la sentenza di primo grado contenevano l’enunciazione dei fatti addebitati in allegato, al pari di quanto verificabile nel fascicolo in sede di legittimità, in riferimento alla sentenza di secondo grado. Peraltro il motivo sarebbe comunque manifestamente infondato, perchè l’art. 546 c.p.p., comma 3 prevede espressamente che la sentenza è nulla solo se manchi della motivazione o di elementi essenziali del dispositivo o della sottoscrizione del giudice ed è stato già affermato che "tra gli elementi essenziali la cui mancanza o incompletezza determina la nullità della sentenza a norma dell’art. 546 c.p.p., comma 3, non è previsto il capo di imputazione, posto che l’enunciazione dei fatti e delle circostanze ascritte all’imputato ben possono desumersi dal complessivo contenuto della decisione" (Sez. 2, 3/2/1997, Strazzullo, Rv. 208462); e ciò vale a maggior ragione quando si tratti di sentenza d’appello, naturalmente strutturata con riferimento a quella di primo grado (cfr. Sez. 6, 26/4/ 2000, Vezio,Rv. 220630 e Sez. 3, 22/1/ 1997, De Luca, Rv.

207103).

2. Per quello che riguarda il secondo motivo di ricorso, afferente la violazione del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, è bene ricordare che questa Corte ha affermato II principio di diritto in base al quale, quando le sentenze di primo e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo (Così, tra le altre, Sez. 2, n. 5606 dell’8/2/2007, Conversa e altro, Rv. 236181; Sez 1, n. 8868 dell’8/8/2000, Sangiorgi, Rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145). Tale integrazione tra le due motivazioni si verifica allorchè i giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (Cfr. la parte motiva della sentenza Sez. 3, n. 10163 del 12/3/2002, Lombardozzi, Rv. 221116). E’ stato inoltre precisato che se l’appellante ha riproposto questioni di fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il giudice dell’impugnazione può motivare addirittura per relationem. Nel caso di specie, i giudici di appello, che pure hanno fatto riferimento alle esaustive argomentazioni sviluppate nel dettaglio nella sentenza di primo grado, hanno fornito una valutazione autonoma dei motivi di appello sui punti specificamente indicati, verificando sia le ragioni dell’attendibilità delle testimonianze che gli altri elementi probatori come acquisiti nel giudizio, per cui la presente censura costituisce una pedissequa riproposizione di alcuni dei motivi di appello già proposti, ai quali il Collegio di appello ha fornito risposta più che esaustiva, e pertanto è inammissibile.

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende Così deciso in Roma, il 4 maggio 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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