Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 05-04-2011) 20-07-2011, n. 28894 Giudizio d’appello sentenza d’appello

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Milano, con sentenza in data 17 marzo 2010 ha confermato la sentenza emessa all’esito del giudizio abbreviato dal G.U.P. presso il Tribunale di Milano, che aveva condannato A. A. alla pena di anni 5 e mesi 10 di reclusione, per i delitti di cui agli artt. 81 cpv. e 609 bis c.p., art. 609 ter c.p., n. 4, artt. 609 octies e 605 c.p., L. n. 75 del 1958, art. 3, n. 5 commessi in danno di C.M., art. 600 quater c.p. (detenzione di materiale pedopornografico), fatti commessi in (OMISSIS).

Avverso la sentenza ha proposto ricorso l’imputato, chiedendone l’annullamento peri seguenti motivi:

1. Nullità della sentenza per violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) – violazione dell’art. 192 c.p.p. – carenza di adeguata e sufficiente motivazione ( art. 606 c.p.p., lett. e). Nonostante la lunghezza della decisione la sentenza non risulterebbe convincente, sotto il profilo della credibilità della persona offesa. Nel ricorso viene riassunta la storia della relazione tra l’imputato e la persona offesa, che lo stesso aveva portato in (OMISSIS) con la volontà di sposarla.

Il rapporto si sarebbe deteriorato, ma non si sarebbe mai verificato l’ipotesi di sequestro di persona contestata, in quanto le limitazioni della libertà della ragazza erano state imposte dall’ A. solo a protezione della stessa, per i pericoli che avrebbe potuto incontrare in strada uscendo da sola: l’imputato le aveva fornito le chiavi di casa e le aveva anche acquistato un telefonino, segno che non intendeva asservirla. Inoltre la C. non si era lamentata delle relazioni sessuali con l’imputato, nè dell’incontro a tre organizzato con il coimputato S., che era stato vissuto dalla stessa come una nuova esperienza sessuale. La Corte di appello avrebbe confuso un giudizio morale con la responsabilità per gravi reati, recependo acriticamente l’impianto decisorio del giudice di prime cure, confermandone i vizi di logicità ed anzi aggiungendovi ulteriori dettagli ancor meno credibili. Sarebbe invece emerso dal processo che la C. non era stata costretta a nulla e non risponderebbe al vero che l’imputato avrebbe avuto l’intenzione di sfruttarla. Pari menti la sentenza sarebbe illogica in riferimento ai testi di riscontro, G. F. e Ca.Cl.En., le vicine di casa, che non hanno assistito direttamente ai fatti ma sono mere testimoni de relato. Infine, non è condivisibile il fatto che i giudici abbiano ritenuto superfluo accertare se la C. avesse o meno avuto rapporti sessuali con altri individui, in quanto potrebbe trattarsi di una conferma della tesi difensiva, che ritiene calunniatorio tutto il racconto della parte offesa, la quale voleva solo neutralizzare l’ A. per essere libera di frequentare uomini più giovani.

2. Nullità della sentenza per violazione di legge (in relazione agli artt. 62 bis e 69 c.p.). La Corte d’Appello di Milano ha ritenuto insussistenti i presupposti per riconoscere la prevalenza delle concesse attenuanti generiche sull’aggravante contestata, in considerazione della mancata resipiscenza ed il comportamento processuale dell’imputato, il quale ha continuato ad affermare di essere vittima della scaltrezza della donna, per cui i giudici hanno escluso ogni riduzione della pena alla luce dei criteri dell’art. 133 c.p., con una motivazione inaccettabile, in quanto l’imputato è incensurato e senza carichi pendenti.

Motivi della decisione

I motivi di ricorso, sono manifestamente infondati e costituiscono una mera riproposizione di questioni di fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dai giudici di merito, ovvero questioni generiche palesemente inconsistenti ed infondate.

Come è noto, quando le sentenze di primo e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo (Così, tra le altre, Sez. 2, n. 5606 dell’8/2/2007, Conversa e altro, Rv. 236181; Sez 1, n. 8868 dell’8/8/2000, Sangiorgi, Rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145). Tale integrazione tra le due motivazioni si verifica allorchè i giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (Cfr. la parte motiva della sentenza Sez. 3, n. 10163 del 12/3/2002, Lombardozzi, Rv. 221116). Nel caso di specie, i giudici di appello, che pure hanno fatto riferimento alle argomentazioni sviluppate nel dettaglio nella sentenza di primo grado, hanno fornito una valutazione autonoma dei motivi di appello sui punti specificamente indicati, verificando in maniera più che esaustiva sia le ragioni dell’attendibilità della persona offesa, alla luce di principi giurisprudenziali in materia, sia gli elementi probatori di riscontro dei fatti, sia fa tenuta logica della ricostruzione dei gravi delitti ascritti al ricorrente.

Con i motivi di ricorso si è cercato di proporre una nuova lettura della vicenda processuale ma, come è noto, in tema di sindacato del vizio della motivazione, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando completa e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. Pertanto, "la denunzia di minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione (ma che non siano inequivocabilmente muniti di un chiaro carattere di decisività), non possono dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto" (Cfr. Sez. 2, n. 18163 del 6/5/2008, Ferdico, Rv. 239789). Di contro, solo esaminando il compendio probatorio nel suo complesso, all’interno del quale ogni elemento è stato contestualizzato è possibile verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi, oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione.

I motivi avanzati tendono, appunto, ad ottenere una inammissibile ricostruzione dei fatti mediante criteri di valutazione diversi da quelli adottati dai giudici di merito, i quali hanno esplicitato, con motivazione ampia ed esente da vizi logici e giuridici, le ragioni del loro convincimento, circa la attendibilità della persona offesa, le cui dichiarazioni, sia extraprocessuali che nel processo, sono state costanti dall’Inizio della vicenda e sono state riscontrate dagli altri elementi probatori acquisiti.

Diversamente da quanto sostenuto con il secondo motivo di ricorso, per la valutazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa non deve essere utilizzato il criterio di cui all’art. 192 c.p.p.: è ben possibile, per giurisprudenza costante, che il giudice tragga il proprio convincimento circa la responsabilità dell’imputato anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4 che richiedono la presenza di riscontri esterni (cfr., per tutte, Sez. 1, n. 29372 del 27/7/2010, Stefanini, Rv.

248016).

La decisione impugnata, quindi, che ha confermato le valutazioni di merito espresse in primo grado, con motivazione congrua e priva di smagliature logiche, è stata fondata su dichiarazione della parte offesa, rimaste costanti prima e dopo l’incidente probatorio, valutate intrinsecamente ed estrinsecamente attendibili, tenuto conto sia del riscontri testimoniali delle due vicine di casa, le quali udirono le grida, i pianti e le invocazioni di aiuto della donna e le prestarono poi soccorso quando la stessa riuscì a sottrarsi al controllo dell’imputato, sia dal materiale pedopornografico, di cui alla specifica imputazione e di quello pornografico sequestrato all’ A., nel quale risultano filmati che riproducono anche alcuni incontri sessuali tra l’imputato e la persona offesa, nei quali, come documentato nella relazione tecnica agli atti del processo, è emerso il ruolo meramente passivo della vittima.

Risulta, del pari manifestamente infondata la censura di illogicità della motivazione, sul punto del mancato riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche nel giudizio di bilanciamento. Le ragioni di tale valutazione sono state espresse con chiarezza dalla sentenza in grado di appello, attesa la gravità, il numero e la reiterata commissione (per sette mesi circa) dei delitti di violenza, che pertanto non consentono un giudizio di prevalenza di tali circostanze attenuanti sulla contestata aggravante (aver commesso i fatti di violenza sessuale continuata in danno di persona sottoposta a limitazione della libertà personale). I giudici di merito hanno ritenuto, con una valutazione di merito congrua ed immune da censure, che il trattamento sanzionatorio sia stato nel concreto piuttosto mite, proprio in relazione alle concrete fattispecie di reato come accertate nel corso del giudizio. Nè l’incensuratezza e il riconoscimento delle circostanze generiche operato dai giudici di merito impongono, in quanto tali, la scelta della prevalenza delle attenuanti nel giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p., poichè "il riconoscimento della sussistenza di circostanze attenuanti generiche non è incompatibile con la formulazione di un giudizio di equivalenza anzichè di prevalenza delle attenuanti generiche con le aggravanti", in quanto si tratta di una valutazione di natura diversa (in tal senso, Sez. 5, n. 35828 del 6/10/2010, Gambardella, Rv. 248501).

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile ed al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ex art. 616 c.p.p. e di una somma di mille Euro in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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