Corte Costituzionale sentenza n. 5 SENTENZA 15 – 23 gennaio 2014

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SENTENZA

nei giudizi di legittimita’ costituzionale dell’art. 1 del
decreto legislativo 13 dicembre 2010, n. 213 (Modifiche ed
integrazioni al decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179, recante
disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui
si ritiene indispensabile la permanenza in vigore); in via
subordinata dell’art. 14, commi 14 e 18, della legge 28 novembre
2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005);
in via conseguenziale dell’art. 2268, comma 1, numero 297), del
decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento
militare), promossi dal Tribunale ordinario di Verona con ordinanza
del 25 febbraio 2012 e dal Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale ordinario di Treviso con ordinanza del 9 maggio 2012,
iscritte ai nn. 201 e 229 del registro ordinanze 2012 e pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 39 e 42, prima serie
speciale, dell’anno 2012.
Udito nella camera di consiglio del 6 novembre 2013 il Giudice
relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

1.- Il Tribunale ordinario di Verona, con ordinanza emessa il 25
febbraio 2012 e pervenuta a questa Corte il 21 agosto 2012 (r.o. n.
201 del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 76, 18 e 25,
secondo comma, della Costituzione, questione di legittimita’
costituzionale dell’art. 1 del decreto legislativo 13 dicembre 2010,
n. 213 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 1° dicembre
2009, n. 179, recante disposizioni legislative statali anteriori al
1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in
vigore), nella parte in cui modifica il decreto legislativo 1°
dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative statali anteriori al
1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in
vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n.
246), espungendo dalle norme mantenute in vigore il decreto
legislativo 14 febbraio 1948, n. 43 (Divieto delle associazioni di
carattere militare); il Tribunale, in via subordinata, ha sollevato,
in riferimento all’art. 76 Cost., questioni di legittimita’
costituzionale dell’art. 14, commi 14 e 18, della legge 28 novembre
2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005)
e, per l’effetto, del d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte in cui
modifica il d.lgs. n. 179 del 2009, espungendo dalle norme mantenute
in vigore il d.lgs. n. 43 del 1948.
Con la medesima ordinanza, il Tribunale ordinario di Verona ha
«consequenzialmente» sollevato, in riferimento agli artt. 76, 18 e
25, secondo comma, Cost., questione di legittimita’ costituzionale
dell’art. 2268 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice
dell’ordinamento militare), nella parte in cui, al numero 297) del
comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948; il medesimo Tribunale, in
via subordinata, ha sollevato, in riferimento all’art. 76 Cost.,
questioni di legittimita’ costituzionale dell’art. 14, comma 14,
della legge n. 246 del 2005 e, per l’effetto, dell’art. 2268 del
d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui, al numero 297) del comma
1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948.
Il giudice rimettente riferisce di essere investito della
trattazione di un procedimento penale nei confronti di varie persone
imputate del reato previsto dall’art. 3 (rectius: art. 1) del d.lgs.
n. 43 del 1948, in riferimento all’azione dell’associazione
denominata «Camicie verdi», poi confluita nell’associazione
denominata «Guardia Nazionale Padana».
Nell’udienza del 10 dicembre 2010 il Tribunale ordinario di
Verona, dopo avere accertato che con l’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del
2010 era stata abrogata la norma sanzionatoria, aveva sollevato
questione di legittimita’ costituzionale, ritenendo che «cio’ fosse
avvenuto in totale assenza di una valida delega al Governo per
realizzare quell’abrogazione», e, come ricorda il Tribunale, dopo tre
giorni dalla proposizione di quella questione, il Governo, con il
d.lgs. n. 213 del 2010, aveva nuovamente «abrogato» il d.lgs. n. 43
del 1948, «espungendo la norma dall’elenco delle disposizioni che lo
stesso Governo, con il precedente decreto legislativo n. 179 del
2009, aveva espressamente deliberato di mantenere in vigore».
In seguito alla «nuova ed autonoma abrogazione» del d.lgs. n. 43
del 1948, la Corte costituzionale aveva restituito gli atti al
collegio rimettente, per una nuova valutazione della rilevanza della
questione.
Il Tribunale ritiene che il Governo abbia adottato il nuovo
decreto legislativo senza averne il potere. Pertanto, una volta
dichiarata l’illegittimita’ costituzionale del d.lgs. n. 213 del
2010, nella parte in cui modifica il d.lgs. n. 179 del 2009,
espungendo dalle norme mantenute in vigore il d.lgs. n. 43 del 1948,
tornerebbe ad essere rilevante l’originaria questione di legittimita’
attinente all’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui
ha abrogato il citato d.lgs. n. 43 del 1948.
Come ricorda il Tribunale rimettente, con l’art. 14, comma 14,
della legge n. 246 del 2005, il legislatore ha delegato il Governo ad
adottare, con le modalita’ di cui all’art. 20 della legge 15 marzo
1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e
compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica
Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), e
successive modificazioni, «decreti legislativi che individuano le
disposizioni statali, pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970,
anche se modificate con provvedimenti successivi, delle quali si
ritiene indispensabile la permanenza in vigore», stabilendo al
successivo comma 14-ter che «decorso un anno dalla scadenza del
termine di cui al comma 14, ovvero del maggior termine previsto
dall’ultimo periodo del comma 22, tutte le disposizioni legislative
statali non comprese nei decreti legislativi di cui al comma 14,
anche se modificate con provvedimenti successivi, sono abrogate».
Il comma 14 dell’art. 14 della legge n. 246 del 2005 stabilisce
che l’esercizio della delega, avente ad oggetto l’individuazione
delle norme da mantenere in vigore, deve avvenire entro ventiquattro
mesi dalla scadenza del termine di cui al comma 12, consistente, a
sua volta, in «ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore»
della legge n. 246 del 2005, vale a dire dal 16 dicembre 2005, con
conseguente individuazione del 16 dicembre 2009 quale termine finale.
Con il d.lgs. n. 179 del 2009 il Governo ha elencato le leggi
dello Stato anteriori al 1970 delle quali era «indispensabile la
permanenza in vigore», e tra queste, al numero 1001 dell’Allegato 1
al citato decreto, ha indicato il d.lgs. n. 43 del 1948.
Il successivo intervento, operato con il d.lgs. n. 213 del 2010
sul d.lgs. n. 179 del 2009 per modificarne il contenuto, sarebbe del
tutto illegittimo per l’assenza di una delega al Governo ad abrogare
leggi o provvedimenti gia’ sottratti all’effetto abrogativo del comma
14-ter dell’art. 14 della legge n. 246 del 2005. L’individuazione da
parte del Governo di un provvedimento del quale era «indispensabile
la permanenza in vigore» avrebbe impedito che quel testo normativo
fosse travolto dall’effetto abrogativo previsto dal citato comma
14-ter. Conseguentemente solo il legislatore, con una legge, avrebbe
poi potuto disporne l’abrogazione.
Secondo il giudice rimettente, il potere esercitato dal Governo,
volto a "ritornare" sulle determinazioni gia’ adottate con il d.lgs.
n. 179 del 2009, non potrebbe trovare la sua fonte di legittimazione
nella delega all’epoca attribuita dal comma 14 dell’art. 14 della
legge n. 246 del 2005, perche’ quel potere era conferito per un
termine complessivo di quattro anni, spirato nel dicembre 2009, vale
a dire pochi giorni dopo l’adozione del decreto legislativo n. 179
del 2009. Quindi, nel dicembre 2010, allorche’ era stato adottato il
d.lgs. n. 213 del 2010, il Governo non avrebbe avuto alcun potere di
modificare il contenuto del decreto legislativo n. 179 del 2009.
Ne’ il potere del Governo di abrogare un provvedimento
legislativo gia’ sottratto all’effetto abrogativo del comma 14-ter
dell’art. 14 della legge n. 246 del 2005 potrebbe «discendere» dal
successivo comma 18, disposizione citata nell’art. 1 del d.lgs. n.
213 del 2010.
Il comma 18, infatti, non consentirebbe all’esecutivo di
«intervenire nuovamente sulla scelta operata nell’individuazione
delle norme per le quali era "indispensabile la permanenza in vigore"
e sottratte all’effetto abrogativo altrimenti conseguente», ma si
limiterebbe a consentire interventi integrativi, di riassetto o
correttivi rispetto alle norme mantenute in vigore e alle norme
adottate per ragioni di semplificazione e di riassetto delle stesse
leggi.
La conferma di cio’ deriverebbe, oltre che dal chiaro tenore del
comma 18, dal fatto che il comma 14 fissa un termine preciso e
definito per l’individuazione delle norme da mantenere in vigore o da
lasciar perire, «mentre se si ammettesse che nel diverso e piu’ ampio
termine di cui al comma 18 il Governo avesse ancora la medesima
facolta’, il termine di cui al comma 14 non avrebbe avuto alcun
significato».
La riprova ulteriore del ragionamento del giudice rimettente
emergerebbe dalla previsione del comma 14-ter dell’art. 14 della
legge n. 246 del 2005, il quale stabilisce inderogabilmente
l’abrogazione delle norme non mantenute in vigore «decorso un anno
dalla scadenza del termine di cui al comma 14».
Tale abrogazione si verificherebbe un anno prima della scadenza
del termine di cui al comma 18, con l’effetto che se si ritenesse
ancora possibile per il Governo, nel termine ulteriore del comma 18,
modificare le scelte compiute entro il termine di cui al comma 14,
«l’elenco delle leggi destinate all’abrogazione o al mantenimento
verrebbe ad essere definito addirittura successivamente alla scadenza
del termine di cui al comma 14-ter, cui la legge delega ricollega
l’effetto abrogativo o di mantenimento in vigore».
Gli interventi consentiti dal comma 18 sarebbero solo di
adeguamento e armonizzazione della disciplina in vigore (conservata
in vigore o successiva al 1970), in quanto tale disposizione prevede
che il Governo agisca nel rispetto "esclusivamente" dei criteri
dettati dal comma 15 e «non gia’ dei criteri di cui al comma 14, che
sono proprio quelli dettati per guidare il Governo nella scelta delle
leggi da mantenere in vigore».
In conclusione, secondo il giudice a quo, il legislatore
delegante ha inteso assegnare al delegato un primo termine di 48 mesi
per compiere le scelte relative all’individuazione delle norme
anteriori al 1970 da mantenere in vigore e un secondo termine, di
ulteriori 24 mesi, per gli interventi di semplificazione e
armonizzazione della normativa mantenuta in vigore e di quella
successiva al 1970.
In via subordinata, qualora si ritenesse la permanenza in capo al
Governo di un potere di abrogazione in virtu’ dei citati commi 14 e
18 della legge n. 246 del 2005, si dovrebbe ritenere l’illegittimita’
costituzionale di tali disposizioni, per contrasto con l’art. 76
Cost., con conseguente illegittimita’ della disposizione abrogatrice
prevista dal d.lgs. n. 213 del 2010, per assenza di delega. La norma
costituzionale consentirebbe infatti di delegare il potere
legislativo al Governo solo previa fissazione di principi e criteri
direttivi e per oggetti definiti, e il comma 18, riferendosi ai soli
criteri del comma 15, non detterebbe alcun criterio «realmente
effettivo nel guidare il Governo nell’intervento di selezione delle
norme da mantenere in vigore o lasciar cadere, atteso che […]
neppure richiama i criteri, di per se’ minimali, di cui al comma 14»,
lasciando cosi’ l’esecutivo totalmente libero di individuare le norme
da abrogare o da mantenere in vigore.
Ritenendo, invece, che l’intervento di successivo ripensamento
dovesse essere almeno rispettoso dei criteri di cui al comma 14, non
potrebbero essere trascurate, in via ulteriormente subordinata, «la
genericita’ anche dei criteri elencati in detto comma» e l’assenza di
oggetti definiti.
Cio’ lascerebbe al Governo una totale discrezionalita’, che
contrasterebbe con l’art. 76 Cost., «fatto tanto piu’ grave ove, come
nel caso di specie, il legislatore delegato utilizzi questa ampia
discrezionalita’ per andare ad attingere norme che sono comunque
poste a presidio di valori costituzionali, atteso che indubbiamente
il decreto legislativo n. 43 del 1948 da’ attuazione all’art. 18,
comma 2, della Costituzione, sanzionando penalmente il divieto ivi
previsto».
In ordine alla rilevanza e all’ammissibilita’ della questione di
legittimita’ costituzionale, il rimettente osserva che, se la norma
abrogatrice del reato fosse legittima, «il presente procedimento si
dovrebbe concludere con una sentenza immediata di improcedibilita’
per intervenuta abrogazione», mentre, in caso contrario, «dovrebbe
proseguire per pervenire ad una pronuncia di merito, anche
eventualmente in applicazione dell’art. 2 cod. pen.».
Muovendo dall’analisi della giurisprudenza costituzionale in tema
di sindacato di legittimita’ sulle norme penali di favore, tra le
quali non rientrerebbe il caso in esame di una norma direttamente e
integralmente abrogativa di una fattispecie di reato, il giudice a
quo rileva, poi, come non sia condivisibile l’esclusione, in tali
ultime ipotesi, del sindacato della Corte costituzionale, in quanto
in tal modo residuerebbero aree dell’ordinamento sottratte al
controllo di costituzionalita’, con il paradosso per cui «scelte
legislative di abrogazione di reati offensivi di valori
costituzionalmente protetti o di diritti inviolabili dell’uomo non
potrebbero mai essere sindacate dal giudice delle leggi».
In ogni caso, sottolinea il Tribunale rimettente, anche
«ritenendo che la riserva di legge di cui all’art. 25, secondo comma,
Cost., precluda alla Corte costituzionale un sindacato sulle leggi
abrogative di reati», tale orientamento non potrebbe trovare
applicazione nel caso di specie, in cui «la pronuncia che e’
richiesta alla Corte e’ diretta espressamente a riaffermare il
principio di riserva di legge di cui all’art. 25, secondo comma,
Cost., violato proprio dall’illegittimo intervento di un organo
diverso dal Parlamento». Diversamente si produrrebbe l’effetto di
legittimare «la violazione del medesimo principio ad opera del
Governo in carenza assoluta del relativo potere», con effetti assai
piu’ gravi di quelli impediti, riguardo al decreto-legge non
convertito, dalla sentenza di questa Corte n. 51 del 1985. Se in
quella sede si e’ privato di effetti il decreto-legge non convertito,
«perche’ senza conversione non e’ parificabile ad un atto
legislativo, tanto piu’ deve essere precluso ad un atto di valore
ancora inferiore, come un decreto legislativo adottato senza delega,
di esplicare effetti abrogativi».
Alla dichiarazione di illegittimita’ costituzionale del d.lgs. n.
213 del 2010, laddove «abroga il mantenimento in vigore del reato»
oggetto del procedimento a quo, disposto con il d.lgs. n. 179 del
2009, conseguirebbe «la necessita’ di confrontarsi con la permanenza
in vigore dell’ulteriore norma abrogatrice dello stesso reato,
attuata con il precedente decreto legislativo n. 66 del 2010».
Rispetto alla questione di legittimita’ costituzionale dell’art.
2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui ha abrogato
l’intero d.lgs. n. 43 del 1948, il Tribunale riporta integralmente il
contenuto della precedente ordinanza di rimessione, letta in udienza
il 10 dicembre 2010.
Sintetizzando le argomentazioni a sostegno della censura, il
giudice rimettente sottolinea l’insussistenza in capo al Governo del
potere di abrogare il d.lgs. n. 43 del 1948, in quanto, per un verso,
la delega avrebbe riguardato l’adozione di un provvedimento avente
«valore di ricognizione della legislazione vigente» e, per altro
verso, il d.lgs. n. 43 del 1948 non rientrerebbe nella materia
dell’ordinamento militare come definita dall’art. 1 del Codice
dell’ordinamento militare. Il Governo, inoltre, si sarebbe avvalso
della delega ex art. 14, comma 14, della legge n. 246 del 2005 gia’
utilizzata in senso opposto, poiche’ il d.lgs. n. 179 del 2009 «aveva
espressamente affermato la permanenza in vigore del d.lgs. n. 43 del
1948 in quanto "indispensabile"». Infine, l’abrogazione del d.lgs. n.
43 del 1948 lascerebbe priva di copertura sanzionatoria la violazione
del divieto delle associazioni militari che perseguono scopi
politici, sancito dall’art. 18 della Costituzione.
Ad avviso del Tribunale rimettente, il d.lgs. n. 66 del 2010
trova la propria legittimazione nell’art. 14, commi 14 e 15, della
legge n. 246 del 2005.
In particolare, il comma 15 stabilisce che i decreti legislativi
di cui al citato comma 14 provvedono, altresi’, alla semplificazione
o al riassetto della materia che ne e’ oggetto, nel rispetto dei
principi e criteri direttivi di cui all’art. 20 della legge n. 59 del
1997, anche al fine di armonizzare le disposizioni mantenute in
vigore con quelle pubblicate successivamente alla data del 1° gennaio
1970.
Cio’ posto, secondo il rimettente, «il Governo non aveva il
potere di abrogare» il d.lgs. n. 43 del 1948, ne’ in forza della
delega di cui al comma 14, ne’ sulla base di quella di cui al comma
15 del citato art. 14 della legge n. 246 del 2005.
Rispetto alla delega di cui all’art. 14, comma 14, il potere
delegato si sarebbe esaurito con l’emanazione del d.lgs. n. 179 del
2009, che aveva mantenuto in vigore il d.lgs. n. 43 del 1948. D’altra
parte «la delega era stata conferita al solo scopo di selezionare le
norme da mantenere in vigore e, una volta compiuta questa selezione,
non vi era alcuno spazio nella delega per un successivo intervento
abrogativo». L’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948 non sarebbe
stata consentita nemmeno dal criterio di cui alla lettera b) del
comma 14 dell’art. 14 in esame, in quanto la norma in questione non
risulterebbe obsoleta, essendo «espressione di un principio che e’
stato inserito nel corpo della Costituzione, tra le norme
fondamentali», laddove altri divieti collegati al particolare momento
storico sono stati inseriti nelle norme transitorie (come il divieto
di riorganizzazione del partito fascista). Ne’ avrebbe rilievo la
scarsa applicazione della norma incriminatrice, che, al contrario,
potrebbe essere ritenuta indice della sua particolare efficacia
deterrente.
In via subordinata, il Tribunale rimettente solleva la questione
di legittimita’ costituzionale dell’art. 14, comma 14, della legge n.
246 del 2005 per violazione dell’art. 76 Cost., con conseguente
illegittimita’ costituzionale della norma abrogatrice – l’art. 2268
del d.lgs. n. 66 del 2010 – in esame: la legge delega sarebbe
«totalmente muta in ordine al settore nel quale il Governo e’
chiamato a legiferare, in quanto a fronte di una deliberata
abrogazione di tutte le norme anteriori ad una certa data senza
distinzione di materie, il Governo e’ stato delegato a scegliere
quali pregresse discipline normative mantenere in vigore»; inoltre,
secondo il giudice a quo, i principi e i criteri direttivi indicati
nella legge delega sarebbero del tutto privi del requisito della
determinazione, risolvendosi in gran parte (e, forse, con la sola
esclusione del criterio dettato dalla lettera c del comma 14 in
esame) «in prospettazioni prive di contenuto concreto ed
effettivamente delimitante del potere delegato».
In ordine all’insussistenza del potere abrogativo del d.lgs. n.
43 del 1948 in forza del comma 15 dell’art. 14 della legge n. 246 del
2005, il Tribunale rimettente sottolinea come il comma in questione
contenga una delega alla semplificazione o al riassetto delle norme
mantenute in vigore, anche al fine di armonizzarle con quelle
pubblicate successivamente al 1° gennaio 1970; in questo caso i
principi e i criteri direttivi sono quelli elencati nell’art. 20
della legge n. 59 del 1997, espressamente richiamato dal citato comma
15. Soffermandosi dunque sull’art. 20, il giudice a quo osserva che
gli unici criteri, previsti dal comma 3 di tale articolo,
effettivamente idonei a definire l’ambito entro cui doveva muoversi
il legislatore delegato, erano quelli di cui alla lettera a) e, in
parte, alla lettera a-bis), laddove il criterio dettato alla lettera
b) avrebbe lo scopo esclusivo di indicare in modo espresso le norme
da abrogare, perche’ sostituite da «altre disposizioni confluite nel
Codice o incompatibili con queste». Nella prospettazione del giudice
rimettente, i criteri sub a) e a-bis) confermano che «la delega non
era conferita per riformare le diverse materie individuate, ma
semplicemente per realizzare testi unici delle disposizioni ante 1970
mantenute in vigore (con eventuale armonizzazione delle disposizioni
successive vigenti), con la facolta’ aggiuntiva costituita dalla
possibilita’ di modificare le disposizioni medesime, ma
esclusivamente per "garantire la coerenza logica e sistematica della
normativa", anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio
normativo, nell’ambito di un coordinamento formale del testo».
Dalla delega in esame, dunque, non discenderebbe il potere di
abrogare il d.lgs. n. 43 del 1948, la cui disciplina, con particolare
riferimento alla fattispecie incriminatrice oggetto del giudizio a
quo, non troverebbe alcuna regolamentazione nel Codice
dell’ordinamento militare, sicche’ rispetto a quella fattispecie «non
si sono realizzati ne’ un riassetto normativo ne’ tanto meno una
codificazione, ma semplicemente se ne e’ disposta l’abrogazione, con
l’effetto di rendere lecito un comportamento prima penalmente
punito». Ne’ potrebbe sostenersi, sottolinea il giudice rimettente,
che l’abrogazione in esame sia stata imposta o consentita da esigenze
di coordinamento o di armonizzazione con altre previsioni contenute
nel Codice dell’ordinamento militare, sia perche’ la materia da
quest’ultimo regolata sarebbe diversa da quella di cui al d.lgs. n.
43 del 1948, sia perche’ la fattispecie incriminatrice in esame non
si porrebbe in contrasto con alcuna previsione del codice; pertanto,
secondo il giudice a quo, «va esclusa in radice la possibilita’ che
con quel Codice il legislatore delegato potesse abrogare il decreto
legislativo 14 febbraio 1948 n. 43», che non riguarda
«l’organizzazione, le funzioni e l’attivita’ della difesa e sicurezza
militare e delle Forze armate», ma detta una disposizione
direttamente attuativa del precetto costituzionale di cui all’art. 18
Cost.
Il Tribunale rimettente aggiunge che, se l’art. 18 Cost. «non
impone la previsione di una sanzione e, men che meno, di una sanzione
penale», l’abrogazione della norma che costituisce la concreta
attuazione del precetto costituzionale, tuttavia, farebbe si’ che la
condotta, pur vietata dalla Costituzione, diventi «lecita per
l’ordinamento penale, non essendo sanzionata da altre norme penali».
Ne consegue, nella prospettazione del giudice a quo, che «la scelta
di sanzionare o meno quel divieto e la selezione degli interventi
sanzionatori piu’ adeguati tanto piu’ non puo’ essere compiuta dal
Governo senza una delega specifica sul punto. E per la stessa ragione
non puo’ qui essere invocata la possibilita’ di una lettura ampia dei
criteri direttivi».
In ordine alla rilevanza e all’ammissibilita’ della questione di
legittimita’ costituzionale, il giudice rimettente ribadisce quanto
gia’ esposto rispetto alla questione concernente l’art. 1 del d.lgs.
n. 213 del 2010.
2.- Con ordinanza emessa il 9 maggio 2012 e pervenuta a questa
Corte il 2 ottobre 2012 (r.o. n. 229 del 2012), il Giudice
dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Treviso ha
sollevato, in riferimento agli artt. 76, 3, 18 e 25, secondo comma,
Cost., questioni di legittimita’ costituzionale dell’art. 2268 del
d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui, al numero 297) del comma
1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948, e dell’art. 1 del d.lgs. n. 213
del 2010, nella parte in cui modifica il d.lgs. n. 179 del 2009,
espungendo dalle norme mantenute in vigore il d.lgs. n. 43 del 1948.
Con la medesima ordinanza il giudice a quo ha sollevato, in via
subordinata, questioni di legittimita’ costituzionale, per violazione
dell’art. 76 Cost., dell’art. 14, commi 14 e 14-ter, della legge n.
246 del 2005 e, per l’effetto, dell’art. 2268 del citato d.lgs. n. 66
del 2010, nella parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il
d.lgs. n. 43 del 1948, ed inoltre, sempre in via subordinata, ha
sollevato, in riferimento all’art. 76 Cost., questioni di
legittimita’ costituzionale dell’art. 14, commi 14, 14-ter e 18 della
legge n. 246 del 2005, e, per l’effetto, dell’art. 1 del d.lgs. n.
179 del 2009, nella parte in cui espunge dalle norme mantenute in
vigore il d.lgs. n. 43 del 1948.
Il giudice a quo procede nei confronti di piu’ persone imputate
del reato previsto dall’art. 1 del d.lgs. n. 43 del 1948, per la
«formazione del corpo paramilitare denominato "Polisia Veneta",
dotata di un inquadramento e ordinamento gerarchico interno in tutto
analogo a quello militare», e gli argomenti addotti a sostegno delle
questioni sono analoghi a quelli esposti nell’ordinanza del Tribunale
di Verona.
Ricorda il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di
Treviso di aver sollevato, in data 21 gennaio 2011, per l’asserito
contrasto con gli artt. 76, 18 e 25, secondo comma, Cost., questioni
di legittimita’ costituzionale dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del
2010, nella parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il
d.lgs. n. 43 del 1948, per mancanza di una valida delega e violazione
della riserva di legge, e, in via subordinata, dell’art. 14, commi 14
e 14-ter, della legge n. 246 del 2005.
Con il d.lgs. n. 213 del 2010, il Governo ha nuovamente abrogato
il d.lgs. n. 43 del 1948, espungendolo dall’elenco delle disposizioni
che lo stesso Governo, con il precedente d.lgs. n. 179 del 2009,
attuativo della legge delega n. 246 del 2005, aveva stabilito di
mantenere in vigore, e, in seguito a tale abrogazione, la Corte
costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilita’ delle
questioni di legittimita’ costituzionale sollevate, avendo il
rimettente omesso di valutare gli effetti del d.lgs. n. 213 del 2010.
Ricorda, ancora, il giudice a quo che il 27 marzo 2012 e’ entrato
in vigore il decreto legislativo 24 febbraio 2012, n. 20 (Modifiche
ed integrazioni al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, recante
codice dell’ordinamento militare, a norma dell’ articolo 14, comma
18, della legge 28 novembre 2005, n. 246), il quale, all’art. 9, ha
modificato il libro nono del d.lgs. n. 66 del 2010, disponendo alla
lettera q) che «all’articolo 2268, comma 1, il numero 297) e’
soppresso e, per l’effetto, il decreto legislativo 14 febbraio 1948,
n. 43, riprende vigore ed e’ sottratto agli effetti di cui
all’articolo 1, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 13
dicembre 2010, n. 213».
Il giudice rimettente osserva che l’art. 9 del d.lgs. n. 20 del
2012 ha espressamente abrogato le precedenti disposizioni
abrogatrici, con la conseguenza che «rivive la disposizione
originariamente abrogata, nel caso di specie il decreto legislativo
n. 43 del 1948, e l’effetto abrogativo si limita a interrompere il
flusso normativo pro futuro della disposizione abrogata,
circoscrivendone l’efficacia: rimossa la causa ostruttiva, si
determina il ripristino della precedente disposizione normativa». Il
ripristino della fattispecie abrogata non renderebbe irrilevante la
questione di legittimita’ costituzionale delle norme abrogatrici, «in
quanto l’assetto punitivo estenderebbe retroattivamente i suoi
effetti favorevoli di abolitio criminis in forza della regola della
lex intermedia favorevole di cui all’art. 2, comma 4, cod. pen.».
Diverso sarebbe l’effetto della dichiarazione di illegittimita’
costituzionale, la quale «limiterebbe l’efficacia depenalizzante
della norma abrogatrice ai "fatti concomitanti", la cui irrilevanza
penale sarebbe comunque salvaguardata dal principio di
irretroattivita’ sfavorevole, mentre per "i fatti pregressi", come
quelli oggetto del presente giudizio, si riespanderebbe l’efficacia
punitiva della norma penale illegittimamente abrogata vigente al
tempus commissi delicti».
Gli effetti retroattivi in malam partem, derivanti dalla
caducazione ex tunc della norma abrogatrice dichiarata
costituzionalmente illegittima, non potrebbero porsi in contrasto con
il principio di retroattivita’ della lex mitior, in quanto la portata
costituzionale del principio di retroattivita’ favorevole sarebbe
strettamente legata all’esistenza di una lex mitior legittima, cioe’
validamente emanata nel rispetto di tutti i vincoli costituzionali
(e’ citata la sentenza della Corte costituzionale n. 394 del 2006).
L’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948 ad opera dell’art. 2268,
comma 1, numero 297), del d.lgs. n. 66 del 2010, non sarebbe stata
possibile, in quanto il decreto legislativo abrogato era stato
espressamente fatto salvo dal d.lgs. n. 179 del 2009, che dava
attuazione all’art. 18, secondo comma, Cost., secondo cui «sono
proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche
indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere
militare». Il d.lgs. n. 66 del 2010, abrogando espressamente il
decreto che sanzionava penalmente coloro che promuovono,
costituiscono, organizzano, dirigono o aderiscono ad associazioni
paramilitari, non lo avrebbe sostituito «con altre disposizioni
facendo cosi’ mancare sul punto una disciplina costituzionalmente
necessaria a salvaguardia di valori e liberta’ costituzionali».
Cio’ posto, secondo il giudice rimettente, il controllo di
legittimita’ costituzionale non potrebbe negarsi «quando vi sia una
scelta del legislatore delegato che esuli completamente dalla delega
ricevuta», perche’ non vi osterebbe il principio della riserva di
legge in materia penale, dato che la sua violazione sarebbe avvenuta
da parte dell’esecutivo, disconoscendo «il monopolio parlamentare
nelle scelte penali».
Nel caso di specie, l’art. 76 Cost. risulterebbe violato, perche’
l’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948 e’ avvenuta in mancanza di
una espressa delega legislativa al Governo, in quanto la legge
delegante non conteneva la previsione dell’abrogazione, attribuendo
solo un compito ricognitivo delle norme esistenti. Inoltre, ad avviso
del giudice dell’udienza preliminare, con il d.lgs. n. 179 del 2009,
il Governo ha indicato le disposizioni di legge anteriori al 1970 di
cui era indispensabile la permanenza in vigore, esercitando il potere
delegatogli, sicche’ questo potere era venuto meno al momento
dell’emanazione del d.lgs. n. 66 del 2010. Infine, abrogando il reato
di costituzione di associazioni di carattere militare, il legislatore
avrebbe violato i limiti della delega, in quanto tale incriminazione
non rientrava nella materia «ordinamento militare», oggetto di
delega.
Quanto alla questione di legittimita’ costituzionale dell’art. 1,
comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 213 del 2010, osserva il giudice a
quo che il termine per l’esercizio della delega, fissato dal comma 14
dell’art. 14 in ventiquattro mesi dalla scadenza del termine di cui
al comma 12, il quale a sua volta prevedeva ventiquattro mesi dalla
data di entrata in vigore della legge n. 246 del 2005, scadeva il 16
dicembre 2009.
In attuazione del comma 14 dell’art. 14, con cui erano stati
indicati i principi e i criteri direttivi ai quali il legislatore
delegato si doveva attenere per individuare le norme da mantenere in
vigore, il Governo aveva adottato il d.lgs. n. 179 del 2009, con cui
aveva elencato le leggi dello Stato anteriori al 1970 delle quali era
indispensabile la permanenza in vigore, e tra queste, al numero 1001
dell’Allegato 1, il d.lgs. n. 43 del 1948.
Il 16 dicembre 2010 e’ entrato in vigore il d.lgs. n. 213 del
2010, che ha modificato e integrato il d.lgs. n. 179 del 2009,
disponendo l’espunzione dall’Allegato 1 al detto decreto di varie
disposizioni legislative statali, tra le quali, al numero 1001
dell’elenco, figura il d.lgs. n. 43 del 1948.
Questo provvedimento sarebbe illegittimo per la mancanza di una
delega al Governo ad abrogare leggi o provvedimenti gia’ sottratti
all’effetto abrogativo del comma 14-ter dell’art. 14 della legge n.
246 del 2005. Solo il Parlamento, con un successivo provvedimento,
avrebbe potuto disporne l’abrogazione, ma non il Governo, essendo,
peraltro, gia’ spirato il termine di quattro anni decorrente dal 16
dicembre 2005, data di entrata in vigore della legge n. 246 del 2005.
Ne’ il potere del Governo potrebbe discendere dal comma 18 dell’art.
14 della legge n. 246 del 2005, citato nel corpo dell’art. 1 del
d.lgs. n. 213 del 2010. Tale comma, infatti, si limiterebbe a
consentire interventi integrativi, di riassetto o correttivi rispetto
alle norme mantenute in vigore e alle norme adottate per ragioni di
semplificazione e di riassetto delle stesse leggi, e non
attribuirebbe al legislatore delegato il potere di individuare
nuovamente le norme «la cui permanenza in vigore sia indispensabile».
In via subordinata, il giudice rimettente solleva questione di
legittimita’ costituzionale dell’art. 14, comma 18, della legge n.
246 del 2005, per violazione dell’art. 76 Cost., con «conseguente
illegittimita’ costituzionale della disposizione abrogatrice» del
d.lgs. n. 213 del 2010, impugnata in via principale, per assenza di
delega. Il citato comma 18, limitandosi a richiamare i criteri di cui
al comma 15, non detterebbe nessun criterio effettivo per guidare il
Governo nell’intervento di selezione delle norme da mantenere in
vigore.
Sempre in via subordinata, «nel caso in cui si dovesse ritenere
che il potere di abrogazione sussista in capo al Governo in base a
dette disposizioni», il giudice a quo solleva, in riferimento
all’art. 76 Cost., questione di legittimita’ costituzionale dell’art.
14, commi 14 e 14-ter, della legge n. 246 del 2005, cosi’ come
modificata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo
sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita’ nonche’ in
materia di processo civile).
La legge delega non specificherebbe il settore nel quale il
Governo e’ delegato ad esercitare la funzione legislativa,
«limitandosi a indicare una totale abrogazione di norme anteriori a
una data, senza distinzione di materie», e non enuncerebbe principi e
criteri direttivi sufficientemente determinati.
Ugualmente, secondo il giudice a quo, non sarebbe «possibile
sostenere che il potere di abrogazione derivi dal comma 15 dell’art.
14 della legge n. 246 del 2005 in quanto si tratta di una delega alla
"semplificazione o al riassetto" delle norme mantenute in vigore,
anche al fine di armonizzarle con quelle pubblicate successivamente
alla data del primo gennaio 1970»
La questione sarebbe rilevante nel giudizio principale, perche’
se la norma impugnata fosse legittima il procedimento penale dovrebbe
concludersi con una sentenza di proscioglimento per abolitio
criminis, laddove, in caso contrario, dovrebbe proseguire per
pervenire a una pronuncia di merito.

Considerato in diritto

1.- Il Tribunale ordinario di Verona ha sollevato, in riferimento
agli artt. 76, 18 e 25, secondo comma, della Costituzione, questioni
di legittimita’ costituzionale: 1) dell’art. 1 del decreto
legislativo 13 dicembre 2010, n. 213 (Modifiche ed integrazioni al
decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179, recante disposizioni
legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene
indispensabile la permanenza in vigore), nella parte in cui modifica
il decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni
legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene
indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14
della legge 28 novembre 2005, n. 246), espungendo dalle disposizioni
mantenute in vigore il decreto legislativo 14 febbraio 1948, n. 43
(Divieto delle associazioni di carattere militare); 2)
«consequenzialmente» dell’art. 2268 del decreto legislativo 15 marzo
2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), nella parte in cui,
al numero 297) del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948. Il
medesimo Tribunale dubita, in via subordinata e in riferimento
all’art. 76 Cost., della legittimita’ costituzionale dell’art. 14,
commi 14 e 18, della legge 28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione
e riassetto normativo per l’anno 2005).
Secondo il giudice rimettente, l’art. 1 del d.lgs. n. 213 del
2010 violerebbe l’art. 76 Cost., perche’ e’ stato adottato in assenza
di una delega che autorizzasse il Governo ad abrogare leggi o
provvedimenti gia’ sottratti, ad opera del d.lgs. n. 179 del 2009,
all’effetto abrogativo previsto dal comma 14-ter dell’art. 14 della
legge n. 246 del 2005.
Il termine per l’esercizio della delega di cui al comma 14
dell’art. 14 della legge n. 246 del 2005, peraltro, era scaduto nel
dicembre 2009, ossia prima dell’adozione del decreto delegato.
Il potere esercitato dal Governo con la norma censurata non
sarebbe potuto «discendere» neanche dal comma 18 del medesimo art. 14
della legge n. 246 del 2005, in quanto la delega da esso conferita
non autorizzava ad intervenire nuovamente sulla scelta gia’ operata
nell’individuazione delle norme delle quali era indispensabile la
permanenza in vigore e da sottrarre all’effetto abrogativo, ma
avrebbe consentito solo interventi integrativi, di riassetto o
correttivi rispetto alle norme mantenute in vigore.
Alla dichiarazione di illegittimita’ costituzionale del d.lgs. n.
213 del 2010, laddove «abroga il mantenimento in vigore del reato»
oggetto del procedimento a quo, conseguirebbe, secondo il Tribunale
rimettente, «la necessita’ di confrontarsi con la permanenza in
vigore dell’ulteriore norma abrogatrice dello stesso reato, attuata
con il precedente d.lgs. n. 66 del 2010».
Anche l’art. 2268, comma 1, numero 297), del d.lgs. n. 66 del
2010 sarebbe in contrasto con l’art. 76 Cost., perche’ il Governo non
avrebbe avuto il potere di abrogare il d.lgs. n. 43 del 1948, che
peraltro era stato fatto espressamente salvo dal d.lgs. n. 179 del
2009.
Il d.lgs. n. 43 del 1948, inoltre, non rientrerebbe nella materia
dell’ordinamento militare oggetto del decreto delegato e, comunque,
non sarebbe stato obsoleto, in quanto espressione del divieto
costituzionale di associazioni che perseguono scopi politici mediante
organizzazioni di carattere militare (art. 18 Cost.).
Il giudice a quo dubita della legittimita’ costituzionale della
norma impugnata, anche in relazione all’art. 14, comma 15, della
legge n. 246 del 2005, in quanto la relativa delega sarebbe stata
conferita non gia’ per riformare le diverse materie individuate, ma
solo per realizzare testi unici delle disposizioni pubblicate
anteriormente al 1° gennaio 1970 e mantenute in vigore, con eventuale
armonizzazione delle disposizioni successive vigenti.
Ancora, il Tribunale rimettente ritiene non manifestamente
infondata la questione di legittimita’ costituzionale sollevata con
riferimento all’art. 18 Cost., in quanto l’abrogazione della norma,
che costituisce la concreta attuazione del divieto costituzionale di
associazioni che perseguono scopi politici mediante organizzazioni di
carattere militare, fa si’ che la condotta, pur vietata dalla
Costituzione, diventi «lecita per l’ordinamento penale, non essendo
sanzionata da altre norme penali».
Sarebbe violato, infine, l’art. 25, secondo comma, Cost., in
quanto la carenza assoluta del potere abrogativo in capo al Governo
determinerebbe la violazione del principio della riserva di legge in
materia penale.
In via subordinata, qualora si ritenesse la permanenza in capo al
Governo di un potere di abrogazione in virtu’ dei citati commi 14 e
15 dell’art. 14 della legge n. 246 del 2005, si dovrebbe riconoscere
l’illegittimita’ costituzionale di tali disposizioni in quanto
sarebbero in contrasto con l’art. 76 Cost., per la genericita’ dei
principi e dei criteri direttivi e per la mancata indicazione di
oggetti definiti.
2.- Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario
di Treviso dubita, del pari, in riferimento agli artt. 76, 3, 18 e
25, secondo comma, Cost., della legittimita’ costituzionale dell’art.
2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui, al numero 297)
del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948, e dell’art. 1 del
d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte in cui modifica il d.lgs. n. 179
del 2009, espungendo dalle disposizioni mantenute in vigore il d.lgs.
n. 43 del 1948.
Il giudice rimettente, con riferimento agli artt. 18, 25, secondo
comma, e 76 Cost., ha mosso censure analoghe a quelle sollevate dal
Tribunale di Verona.
A suo avviso, le norme impugnate violerebbero anche l’art. 3
Cost., in quanto il legislatore delegato ha operato scelte «che non
sono supportate e giustificate da nessuna ragione creando una
disparita’ di trattamento».
Con la medesima ordinanza il giudice a quo ha poi sollevato, in
via subordinata e in riferimento all’art. 76 Cost., questione di
legittimita’ costituzionale dell’art. 14, commi 14, 14-ter e 18,
della legge n. 246 del 2005, per la genericita’ dei principi e dei
criteri direttivi e per la mancata indicazione di oggetti definiti.
3.- Questa Corte ritiene opportuno ricostruire le vicende da cui
traggono origine le odierne ordinanze di rimessione.
Il legislatore, con l’art. 14, comma 14, della legge n. 246 del
2005, aveva delegato il Governo ad adottare, con le modalita’ di cui
all’art. 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per
il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali,
per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la
semplificazione amministrativa), e successive modificazioni, «decreti
legislativi che individuano le disposizioni legislative statali,
pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970, anche se modificate con
provvedimenti successivi, delle quali si ritiene indispensabile la
permanenza in vigore», stabilendo, al successivo comma 14-ter, che,
«decorso un anno dalla scadenza del termine di cui al comma 14,
ovvero del maggior termine previsto dall’ultimo periodo del comma 22,
tutte le disposizioni legislative statali non comprese nei decreti
legislativi di cui al comma 14, anche se modificate con provvedimenti
successivi, sono abrogate». L’esercizio della delega per
l’individuazione delle norme da mantenere in vigore sarebbe, quindi,
dovuto avvenire entro il 16 dicembre 2009.
Con il d.lgs. n. 179 del 2009 il Governo aveva esercitato la
delega, individuando le disposizioni legislative da mantenere in
vigore, tra le quali era compreso il d.lgs. n. 43 del 1948, sul
divieto delle associazioni di carattere militare che perseguono,
anche indirettamente, scopi politici, ma di questo decreto
legislativo, successivamente, con l’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del
2010 (Codice dell’ordinamento militare), era stata disposta
l’abrogazione.
Per contestare tale abrogazione, il Tribunale di Verona che, in
riferimento all’azione dell’associazione denominata "Camicie verdi",
stava giudicando varie persone imputate del reato previsto dall’art.
1 del d.lgs. n. 43 del 1948, aveva sollevato una questione di
legittimita’ costituzionale. Dopo tre giorni dalla sua proposizione,
pero’, il Governo, con il d.lgs. n. 213 del 2010, aveva replicato
l’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948, espungendolo dalle
disposizioni che, con il d.lgs. n. 179 del 2009, aveva in precedenza
stabilito di mantenere in vigore.
Questa Corte, considerato lo ius superveniens che aveva reiterato
l’effetto abrogativo, aveva disposto la restituzione degli atti al
giudice a quo, ritenendo che spettasse a questo la valutazione circa
la perdurante rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni
sollevate.
A sua volta, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di
Treviso, che stava giudicando varie persone per la «formazione del
corpo paramilitare denominato "Polisia Veneta"», aveva sollevato, in
riferimento agli artt. 76, 18 e 25, secondo comma, Cost., questioni
di legittimita’ costituzionale dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del
2010, nella parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il
d.lgs. n. 43 del 1948, e, in via subordinata, in riferimento all’art.
76 Cost., dell’art. 14, commi 14 e 14-ter, della legge n. 246 del
2005.
Di tali questioni questa Corte, con l’ordinanza n. 341 del 2011,
aveva dichiarato la manifesta inammissibilita’, perche’ il giudice a
quo non aveva valutato gli effetti dell’art. 1 del d.lgs. n. 213 del
2010, intervenuto prima dell’ordinanza di rimessione.
4.- Le ordinanze del Tribunale di Verona e del Giudice
dell’udienza preliminare del Tribunale di Treviso concernono le
stesse norme e propongono questioni analoghe, percio’ i relativi
procedimenti vanno riuniti, per essere definiti con un’unica
decisione. Infatti, entrambi i giudici hanno sollevato, oltre alle
questioni che avevano gia’ proposto, relative all’art. 2268 del
d.lgs. n. 66 del 2010, anche questioni di legittimita’ costituzionale
relative all’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte in cui ha
modificato il d.lgs. n. 179 del 2009, espungendo dalle disposizioni
mantenute in vigore il d.lgs. n. 43 del 1948.
5.- Il giorno precedente a quello della pronuncia dell’ordinanza
del Tribunale di Verona, avvenuta il 25 febbraio 2012, e’ intervenuto
il decreto legislativo 24 febbraio 2012, n. 20 (Modifiche ed
integrazioni al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, recante
codice dell’ordinamento militare, a norma dell’articolo 14, comma 18,
della legge 28 novembre 2005, n. 246), pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n. 60 del 12 marzo 2012 ed entrato in vigore il 27 marzo
2012, con cui il legislatore, in attuazione dell’art. 14, commi 14,
15 e 18 della legge n. 246 del 2005, ha reintrodotto il reato di cui
al d.lgs. n. 43 del 1948; l’art. 9, comma 1, lettera q), infatti, ha
stabilito che «all’articolo 2268, comma 1, il numero 297) e’
soppresso e, per l’effetto, il decreto legislativo 14 febbraio 1948,
n. 43, riprende vigore ed e’ sottratto agli effetti di cui
all’articolo 1, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 13
dicembre 2010, n. 213».
Il Tribunale di Verona non ha potuto prendere in considerazione
questa disposizione, perche’ l’ordinanza di rimessione e’ precedente
alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, mentre il Giudice
dell’udienza preliminare del Tribunale di Treviso ne ha tenuto conto,
affermando che il ripristino della fattispecie abrogata non e’
sufficiente a rendere irrilevanti le questioni di legittimita’
costituzionale delle leggi abrogatrici «in quanto l’assetto punitivo
estenderebbe retroattivamente i suoi effetti favorevoli di abolitio
criminis in forza della regola della lex intermedia favorevole di cui
all’art. 2, comma 4, cod. pen.».
L’affermazione del giudice rimettente e’ plausibile, perche’ puo’
ben ritenersi che il citato ius superveniens, ripristinando una
fattispecie incriminatrice precedentemente abrogata, non possa
determinare la reviviscenza di un reato raggiunto dall’effetto
abrogativo. In questo senso e’ anche la giurisprudenza della Corte di
cassazione, che, nel caso di successione di leggi penali, ritiene
debba applicarsi quella che prevede il trattamento piu’ favorevole
per il reo, anche se la legge piu’ recente ha ripristinato una legge
anteriore che quella piu’ favorevole aveva modificato (sentenze 7
luglio 2009, n. 35079 e 21 settembre 2007, n. 38548).
La nuova normativa, pertanto, non incide sull’ammissibilita’
delle questioni sollevate dal Tribunale di Verona, ne’ impone la
restituzione degli atti al Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale di Treviso.
5.1.- Questa Corte, in numerose occasioni, ha ritenuto
inammissibili questioni di legittimita’ costituzionale di norme
penali la cui caducazione avrebbe determinato un trattamento
deteriore per l’imputato.
I giudici rimettenti non ignorano le ragioni di tali decisioni ma
ritengono che nel caso in esame quelle ragioni non sussistano. Essi
infatti ricordano che secondo la giurisprudenza costituzionale il
principio della riserva di legge in materia penale, posto dall’art.
25, secondo comma, Cost., impedisce a questa Corte interventi in
malam partem, rimessi esclusivamente al potere legislativo, ma
sostengono che nel caso in esame sia proprio quel principio a
giustificare una pronuncia di illegittimita’ costituzionale, perche’
le norme impugnate sarebbero state adottate dal Governo in mancanza
della necessaria delega e quindi sarebbero state introdotte
nell’ordinamento in violazione della riserva di legge.
La tesi dei giudici rimettenti sull’ammissibilita’ delle
questioni proposte e’ condivisibile, ma occorrono in proposito alcuni
chiarimenti, perche’ la giurisprudenza di questa Corte in materia si
e’ andata nel tempo evolvendo e precisando, ed e’ alla luce di questa
evoluzione che tali questioni vanno ora considerate.
L’inammissibilita’ del sindacato sulle norme penali piu’
favorevoli era stata originariamente argomentata considerando che una
questione finalizzata a una pronuncia in malam partem sarebbe stata
priva di rilevanza, dato il principio di irretroattivita’ delle norme
penali sfavorevoli. Infatti, si era affermato, «i principi generali
vigenti in tema di non retroattivita’ delle sanzioni penali piu’
sfavorevoli al reo, desumibili dagli artt. 25, secondo comma, della
Costituzione, e 2 del codice penale, impedirebbero in ogni caso che
una eventuale sentenza, anche se di accoglimento, possa produrre un
effetto pregiudizievole per l’imputato nel processo penale pendente
innanzi al giudice a quo» (sentenza n. 85 del 1976).
Successivamente pero’ questa Corte ha riconosciuto «che la
retroattivita’ della legge piu’ favorevole non esclude
l’assoggettamento di tutte le norme giuridiche di rango primario allo
scrutinio di legittimita’ costituzionale: "Altro […] e’ la garanzia
che i principi del diritto penale-costituzionale possono offrire agli
imputati, circoscrivendo l’efficacia spettante alle dichiarazioni
d’illegittimita’ delle norme penali di favore; altro e’ il sindacato
cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire
zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all’interno
delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile"
(sentenza n. 148 del 1983 e sul punto, sostanzialmente nello stesso
senso, sentenza n. 394 del 2006)» (sentenza n. 28 del 2010).
Il mutato orientamento sulla rilevanza non ha comportato
automaticamente l’ammissibilita’ delle questioni relative alle norme
penali piu’ favorevoli, perche’ si e’ ritenuto che a una pronuncia
della Corte in malam partem fosse comunque di ostacolo il principio
sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale «demanda in via
esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e
delle sanzioni loro applicabili, impedendo alla Corte di creare nuove
fattispecie criminose o estendere quelle esistenti a casi non
previsti, ovvero anche di incidere in peius sulla risposta punitiva o
su aspetti comunque inerenti alla punibilita’ (ex plurimis, sentenza
n. 394 del 2006; ordinanze n. 204, n. 66 e n. 5 del 2009)» (ordinanza
n. 285 del 2012).
Non sono pero’ mancati casi in cui la Corte ha ritenuto che
l’ammissibilita’ di questioni di legittimita’ costituzionale in malam
partem non trovasse ostacolo nel principio dell’art. 25, secondo
comma, Cost. Particolarmente significativa in questo senso e’ la
sentenza n. 394 del 2006, che ha riconosciuto la sindacabilita’ delle
«c.d. norme penali di favore: ossia delle norme che stabiliscano, per
determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico piu’
favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme
generali o comuni». Alla nozione di "norma penale di favore" ha fatto
successivamente, in piu’ occasioni, riferimento la giurisprudenza
costituzionale (sentenze n. 273 del 2010, n. 57 del 2009 e n. 324 del
2008; ordinanze n. 103 e n. 3 del 2009), ma e’ la sentenza n. 394 del
2006 che ne ha precisato le caratteristiche e le relative
implicazioni ai fini del sindacato di legittimita’ costituzionale.
Secondo questa sentenza «il principio di legalita’ impedisce
certamente alla Corte di configurare nuove norme penali; ma non le
preclude decisioni ablative di norme che sottraggono determinati
gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma
comune o comunque piu’ generale, accordando loro un trattamento piu’
benevolo (sentenza n. 148 del 1983): e cio’ a prescindere
dall’istituto o dal mezzo tecnico tramite il quale tale trattamento
si realizza […]. In simili frangenti, difatti, la riserva al
legislatore sulle scelte di criminalizzazione resta salva: l’effetto
in malam partem non discende dall’introduzione di nuove norme o dalla
manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si
limita a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri
costituzionali; esso rappresenta, invece, una conseguenza
dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata
dallo stesso legislatore, al caso gia’ oggetto di una
incostituzionale disciplina derogatoria».
Un’altra decisione significativa e’ la n. 28 del 2010, con la
quale la Corte, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma,
Cost., ha dichiarato l’illegittimita’ costituzionale di una legge
intermedia (e piu’ esattamente di un decreto legislativo intermedio)
che, in contrasto con una direttiva comunitaria, aveva escluso la
punibilita’ di un fatto precedentemente e successivamente previsto
come reato. Secondo questa decisione, infatti, «se si stabilisse che
il possibile effetto in malam partem della sentenza di questa Corte
inibisce la verifica di conformita’ delle norme legislative interne
rispetto alle norme comunitarie – che sono cogenti e sovraordinate
alle leggi ordinarie nell’ordinamento italiano per il tramite degli
artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – non si arriverebbe soltanto alla
conclusione del carattere non autoapplicativo delle direttive
comunitarie […], ma si toglierebbe a queste ultime ogni efficacia
vincolante per il legislatore italiano».
Questa decisione puo’ costituire un utile punto di riferimento
perche’, come nel presente giudizio, anche se per una ragione
diversa, il vizio del decreto legislativo traeva origine dalla
carenza di potere del Governo che aveva adottato la normativa
impugnata.
5.2.- Il difetto di delega denunciato dai giudici rimettenti, se
esistente, comporterebbe un esercizio illegittimo da parte del
Governo della funzione legislativa. L’abrogazione della fattispecie
criminosa mediante un decreto legislativo, adottato in carenza o in
eccesso di delega, si porrebbe, infatti, in contrasto con l’art. 25,
secondo comma, Cost., che demanda in via esclusiva al Parlamento, in
quanto rappresentativo dell’intera collettivita’ nazionale, la scelta
dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili,
precludendo al Governo scelte di politica criminale autonome o
contrastanti con quelle del legislatore delegante. Se si escludesse
il sindacato costituzionale sugli atti legislativi adottati dal
Governo anche nel caso di violazione dell’art. 76 Cost., si
consentirebbe allo stesso di incidere, modificandole, sulle
valutazioni del Parlamento relative al trattamento penale di alcuni
fatti.
Deve quindi concludersi che, quando, deducendo la violazione
dell’art. 76 Cost., si propone una questione di legittimita’
costituzionale di una norma di rango legislativo adottata dal Governo
su delega del Parlamento, il sindacato di questa Corte non puo’
essere precluso invocando il principio della riserva di legge in
materia penale. Questo principio rimette al legislatore, nella figura
appunto del soggetto-Parlamento, la scelta dei fatti da sottoporre a
pena e delle sanzioni da applicare, ed e’ violato qualora quella
scelta sia invece effettuata dal Governo in assenza o fuori dai
limiti di una valida delega legislativa.
La verifica sull’esercizio da parte del Governo della funzione
legislativa delegata diviene, allora, strumento di garanzia del
rispetto del principio della riserva di legge in materia penale,
sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., e non puo’ essere
limitata in considerazione degli eventuali effetti che una sentenza
di accoglimento potrebbe produrre nel giudizio a quo. Si rischierebbe
altrimenti, come gia’ rilevato in altre occasioni da questa Corte, di
creare zone franche dell’ordinamento, sottratte al controllo di
costituzionalita’, entro le quali sarebbe di fatto consentito al
Governo di effettuare scelte politico-criminali, che la Costituzione
riserva al Parlamento, svincolate dal rispetto dei principi e criteri
direttivi fissati dal legislatore delegante, eludendo cosi’ il
disposto dell’art. 25, secondo comma, della stessa Costituzione.
Per superare il paradosso ed evitare al tempo stesso eventuali
effetti impropri di una pronuncia in malam partem, «occorre quindi
distinguere tra controllo di legittimita’ costituzionale, che non
puo’ soffrire limitazioni, se ritualmente attivato secondo le norme
vigenti, ed effetti delle sentenze di accoglimento nel processo
principale, che devono essere valutati dal giudice rimettente secondo
i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi
penali» (sentenza n. 28 del 2010).
E’ da aggiungere che, secondo il consolidato orientamento di
questa Corte, «le questioni incidentali di legittimita’ sono
ammissibili "quando la norma impugnata e’ applicabile nel processo
d’origine e, quindi, la decisione della Corte e’ idonea a determinare
effetti nel processo stesso; mentre e’ totalmente ininfluente
sull’ammissibilita’ della questione il "senso" degli ipotetici
effetti che potrebbero derivare per le parti in causa da una
pronuncia sulla costituzionalita’ della legge" (sentenza n. 98 del
1997)» (sentenza n. 294 del 2011). Compete, dunque, ai giudici
rimettenti valutare le conseguenze applicative che potranno derivare
da una eventuale pronuncia di accoglimento, mentre deve escludersi
che vi siano ostacoli all’ammissibilita’ delle proposte questioni di
legittimita’ costituzionale.
6.- Una volta riconosciutane l’ammissibilita’, deve essere
esaminata, in primo luogo, la questione relativa all’art. 2268, comma
1, numero 297), del d.lgs. n. 66 del 2010, perche’ se la norma
censurata risultasse immune da vizi di costituzionalita’, essendosi
prodotto l’effetto abrogativo del d.lgs. n. 43 del 1948 da essa
stabilito, diventerebbero prive di rilevanza le ulteriori questioni e
in particolare quella relativa all’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010,
che avrebbe ad oggetto l’ulteriore abrogazione di una norma non piu’
in vigore.
6.1.- La questione di legittimita’ costituzionale dell’art. 2268
del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui, al numero 297) del
comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948, e’ fondata.
6.2.- Il d.lgs. n. 66 del 2010 e’ stato adottato, secondo quanto
espressamente indicato nel suo preambolo, sulla base dell’art. 14,
commi 14 e 15, della legge n. 246 del 2005, e ad avviso dei giudici
rimettenti queste norme non davano al Governo il potere di abrogare
il d.lgs. n. 43 del 1948, sul divieto delle associazioni di carattere
militare, del quale, con il d.lgs. n. 179 del 2009, era stata in
precedenza stabilita la permanenza in vigore.
In effetti, il comma 14 non prevede alcun diretto potere
abrogativo, ma conferisce al Governo solo la delega ad individuare
gli atti normativi da sottrarre alla clausola "ghigliottina"
contenuta nell’art. 14, comma 14-ter, della legge n. 246 del 2005,
potere che, come si e’ detto, era stato gia’ esercitato con il d.lgs.
n. 179 del 2009.
E’ quindi fondata la tesi dei giudici a quibus, secondo cui il
Governo, al momento dell’adozione del d.lgs. n. 66 del 2010, aveva
gia’ esercitato, rispetto al d.lgs. n. 43 del 1948, il potere
normativo attribuitogli con il comma 14, ne’ poteva ritenersi
consentito, in base al comma citato, il nuovo e contrario esercizio
della delega, il quale, anziche’ in un effetto di salvaguardia
dell’efficacia, era sfociato in un’espressa abrogazione.
Anche se fosse stato riconosciuto al Governo dal comma 14 un
potere direttamente abrogativo, poi, dovrebbe ritenersi che mancavano
le condizioni per esercitarlo nei confronti del d.lgs. n. 43 del
1948, dato che, in base ai criteri indicati in tale comma, si
trattava di un testo normativo del quale era indispensabile la
permanenza in vigore.
Con il citato comma 14 il Governo era stato delegato ad
individuare le disposizioni da mantenere in vigore, che non avessero
subito un’abrogazione tacita o implicita (lettera a) e non avessero
esaurito la loro funzione, o fossero prive di effettivo contenuto
normativo, o fossero comunque obsolete (lettera b), e nessuna di
queste condizioni poteva riferirsi al d.lgs. n. 43 del 1948. In
particolare e’ certo che il decreto non aveva esaurito la sua
funzione, dato che aveva originato i procedimenti penali nel cui
ambito erano state sollevate le odierne questioni di
costituzionalita’.
Ugualmente, non puo’ ritenersi che si trattasse di disposizione
priva di un effettivo contenuto normativo od obsoleta: il d.lgs. n.
43 del 1948, infatti, e’ coevo alla Costituzione e costituisce
l’immediata attuazione dell’art. 18, secondo comma, Cost. L’atto
normativo in questione, in coerenza con la previsione della Carta
costituzionale, si prefigge di impedire attivita’ idonee a
influenzare e pregiudicare la formazione democratica delle
convinzioni politiche dei cittadini, anche se non riconducibili a
violazioni delle comuni norme penali, il che implica la sussistenza
di un effettivo contenuto normativo di rilevanza costituzionale e fa
escludere l’obsolescenza della disciplina. Del resto la perdurante
attualita’ del decreto legislativo n. 43 del 1948 e’ confermata, se
ce ne fosse bisogno, dalla sua reintroduzione ad opera del d.lgs. n.
20 del 2012.
E’ da aggiungere che se, come si ritiene, la ratio
dell’incriminazione delle associazioni di carattere militare per
scopi politici, come anche quella dell’art. 18, secondo comma, Cost.,
risiede nell’esigenza di salvaguardare la liberta’ del processo di
decisione politica, la norma impugnata risulta chiaramente in
contrasto con il criterio della lettera c) del citato comma 14, volto
ad assicurare la permanenza in vigore «delle disposizioni la cui
abrogazione comporterebbe lesione dei diritti costituzionali».
6.3.- Il preambolo del d.lgs. n. 66 del 2010, come si e’ gia’
ricordato, indica, tra le fonti della delega, oltre al comma 14,
anche il comma 15 della legge n. 246 del 2005, il quale stabilisce
che «I decreti legislativi di cui al comma 14 provvedono altresi’
alla semplificazione o al riassetto della materia che ne e’ oggetto,
nel rispetto dei principi e criteri direttivi di cui all’articolo 20
della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni, anche
al fine di armonizzare le disposizioni mantenute in vigore con quelle
pubblicate successivamente alla data del 1° gennaio 1970».
Neppure questa disposizione, pero’, avrebbe potuto giustificare
l’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948.
La delega del comma 15, infatti, era diretta alla semplificazione
e al riassetto normativo delle disposizioni legislative anteriori al
1° gennaio 1970 mantenute in vigore all’esito delle operazioni
"salva-leggi", da armonizzare, eventualmente, con la legislazione
successiva, e in questo contesto la norma abrogatrice posta dall’art.
2268, comma 1, numero 297), del d.lgs. n. 66 del 2010 non puo’
trovare alcuna legittimazione, anche perche’ il d.lgs. n. 43 del 1948
non rientra nella materia dell’ordinamento militare regolata dallo
stesso decreto legislativo n. 66 del 2010.
Dal tenore letterale dell’art. 1 di questo decreto risulta,
infatti, chiaramente che le associazioni di carattere militare per
scopi politici non rientrano nella materia oggetto del riassetto
normativo, e, quindi, anche nell’ipotesi in cui si ritenesse
consentita dal comma 15 l’espressa abrogazione di testi legislativi,
ivi compresi quelli di cui era stata gia’ disposta la permanenza in
vigore, dovrebbe concludersi che non sarebbe stata possibile
l’abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948, per l’estraneita’ della
materia regolata da questo rispetto all’ordinamento militare che
aveva formato oggetto del riassetto.
In proposito e’ importante ricordare che, in un comunicato del 22
ottobre 2010 del Ministero della difesa, il Ministro aveva reso noto
che l’inserimento del d.lgs. n. 43 del 1948 tra le norme da abrogare
elencate nell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010 era erroneo.
Conseguentemente l’Ufficio legislativo del Ministero della difesa ne
aveva «proposto la correzione con procedura di rettifica di errore
materiale da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale», ma questa
soluzione non era stata «condivisa dall’Ufficio legislativo del
Dipartimento per la Semplificazione Normativa, co-proponente del
Codice».
La norma censurata, quindi, eccede anche l’ambito della delega
conferita dal comma 15, giacche’ «la finalita’ fondamentale di
semplificazione, che costituiva la ratio propria della legge n. 246
del 2005, era quella di creare insiemi normativi coerenti, a partire
da una risistemazione delle norme vigenti, sparse e non coordinate,
apportando quelle modifiche rese necessarie dalla composizione
unitaria delle stesse» (sentenza n. 80 del 2012), mentre
l’abrogazione di norme penali incriminatrici solo apparentemente
connesse con la materia oggetto del riassetto normativo si colloca
evidentemente su un altro piano e richiede scelte di politica
legislativa, che, seppur per grandi linee, devono provenire dal
Parlamento.
Chiarito percio’ che la norma in questione non potrebbe rientrare
nell’ambito di un’operazione di semplificazione o di riassetto
dell’ordinamento militare, deve anche considerarsi che il comma 15
dell’art. 14 della legge n. 246 del 2005, riguardando i «decreti
legislativi di cui al comma 14» dello stesso articolo, in nessun caso
potrebbe giustificare l’abrogazione di una legge della quale, a norma
del comma 14, dovrebbe essere invece assicurata la permanenza in
vigore.
6.4.- Una terza delega e’ contenuta nell’art. 14, comma
14-quater, della legge n. 246 del 2005, il quale stabilisce che «Il
Governo e’ altresi’ delegato ad adottare, entro il termine di cui al
comma 14-ter, uno o piu’ decreti legislativi recanti l’abrogazione
espressa, con la medesima decorrenza prevista dal comma 14-ter, di
disposizioni legislative statali ricadenti tra quelle di cui alle
lettere a) e b) del comma 14, anche se pubblicate successivamente al
1° gennaio 1970».
Il preambolo del d.lgs. n. 66 del 2010 non richiama il comma
14-quater; tuttavia, dai lavori preparatori, emerge che il
legislatore delegato ha inteso attuare anche la delega prevista da
questo comma, individuando e abrogando espressamente le disposizioni
legislative ormai inutili, e nel parere reso sullo schema del decreto
legislativo in esame il Consiglio di Stato, per indicarne la base
normativa, ha fatto espresso riferimento anche al comma 14-quater,
oltre che ai commi 14 e 15.
Neppure questa disposizione di delega pero’, pur prevedendo
espressamente un potere abrogativo, puo’ giustificare l’abrogazione
del d.lgs. n. 43 del 1948, perche’ il comma 14-quater da’ mandato al
Governo di abrogare «le disposizioni legislative statali ricadenti
fra quelle di cui alle lettere a) e b) del comma 14», vale a dire
quelle «oggetto di abrogazione tacita o implicita» e quelle che
«abbiano esaurito la loro funzione o siano prive di effettivo
contenuto normativo o siano comunque obsolete», e in queste
categorie, come si e’ gia’ visto, non puo’ in alcun modo rientrare il
decreto legislativo che vieta le associazioni di carattere militare
per scopi politici.
6.5.- Alla luce delle considerazioni svolte nei paragrafi
precedenti, si deve concludere che, per la carenza della necessaria
delega legislativa, la questione di legittimita’ costituzionale
dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui, al
numero 297) del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948, e’ fondata.
Sono conseguentemente assorbiti gli altri profili di
illegittimita’ costituzionale prospettati dai giudici rimettenti.
7.- Resta da esaminare la questione relativa all’art. 1 del
d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte in cui modifica il d.lgs. n. 179
del 2009, espungendo, con l’Allegato B, dalle norme mantenute in
vigore dall’Allegato 1 del citato d.lgs. n. 179 del 2009, il d.lgs.
n. 43 del 1948.
Anche in questo caso le censure dei giudici rimettenti si
appuntano, innanzitutto, sulla violazione dell’art. 76 Cost., sul
presupposto che la reiterata abrogazione del d.lgs. n. 43 del 1948
sarebbe avvenuta in carenza di delega.
L’art. 1 del d.lgs n. 213 del 2010 dispone che, «Ai fini e per
gli effetti dell’articolo 14, commi 14, 14-ter e 18, della legge 28
novembre 2005, n. 246, e successive modificazioni, al decreto
legislativo 1° dicembre 2009, n. 179, sono apportate le seguenti
modificazioni: a) l’Allegato 1 e’ integrato dalle disposizioni
legislative statali, pubblicate anteriormente al 1° gennaio 1970,
inserite nell’Allegato A al presente decreto; b) dall’Allegato 1 sono
espunte le disposizioni legislative statali indicate nell’Allegato B
al presente decreto; c) le voci di cui all’Allegato C al presente
decreto sostituiscono le corrispondenti voci dell’Allegato 1».
Insomma questa disposizione, svolgendo un’opera integrativa da un
lato e riduttiva dall’altro, con l’Allegato A ha aggiunto alcune
disposizioni legislative a quelle mantenute in vigore dal d.lgs. n.
179 del 2009, mentre con l’allegato B ne ha espunte altre.
Il d.lgs. n. 213 reca la data del 13 dicembre 2010, e, poiche’ il
16 dicembre 2009 il termine della delega prevista dal comma 14
dell’art.14 della legge n. 246 del 2005 era ormai decorso, e’ al
comma 18 dello stesso articolo che occorre fare riferimento per
individuare la fonte del potere esercitato nell’occasione dal
Governo. Questo comma stabilisce che «Entro due anni dall’entrata in
vigore dei decreti legislativi di cui al comma 14, possono essere
emanate, con uno o piu’ decreti legislativi, disposizioni
integrative, di riassetto o correttive, esclusivamente nel rispetto
dei principi e criteri direttivi di cui al comma 15 e previo parere
della Commissione di cui al comma 19».
Riconducendo a questa disposizione l’art. 1 del d.lgs. n. 213 del
2010, gli si deve riconoscere un carattere "integrativo",
relativamente alla lettera a), e "correttivo", relativamente alla
lettera b), con l’avvertenza che l’integrazione e la correzione non
sarebbero potute avvenire senza osservare i criteri di delega del
comma 14.
Infatti il comma 18, che si collega ai «decreti legislativi di
cui al comma 14» e fa riferimento ai «principi e criteri direttivi di
cui al comma 15», costituisce il prolungamento nel tempo, con alcune
specificita’, delle deleghe contenute nei due commi anzidetti. In
particolare e’ il comma 14 che segna il discrimine tra le
disposizioni legislative da mantenere in vigore e quelle da abrogare,
sicche’ neppure dal comma 18 potrebbe derivare al Governo il potere
di disporre l’abrogazione di disposizioni che, come quella del d.lgs.
n. 43 del 1948, sarebbero invece, per il comma 14, dovute rimanere in
vigore.
Percio’ deve concludersi che il Governo non poteva espungere dal
d.lgs. n. 179 del 2009 la disposizione del d.lgs. n. 43 del 1948, sul
divieto delle associazioni di carattere militare per scopi politici,
di cui aveva legittimamente disposto il mantenimento in vigore.
Cio’ chiarito, si deve concludere che anche la questione di
legittimita’ costituzionale dell’art. 1 del d.lgs. n. 213 del 2010,
nella parte in cui modifica il d.lgs. n. 179 del 2009, espungendo,
con l’Allegato B, dalle norme mantenute in vigore dall’Allegato 1 del
citato d.lgs. n. 179 del 2009, il d.lgs. n. 43 del 1948, e’ fondata
per carenza di delega legislativa.
Sono conseguentemente assorbiti gli altri profili di
illegittimita’ costituzionale prospettati dai giudici rimettenti.
8.- Va pertanto dichiarata l’illegittimita’ costituzionale
dell’art. 2268 del d.lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui, al
numero 297) del comma 1, abroga il d.lgs. n. 43 del 1948 e dell’art.
1 del d.lgs. n. 213 del 2010, nella parte in cui modifica il d.lgs.
n. 179 del 2009, espungendo, con l’Allegato B, dalle norme mantenute
in vigore dall’Allegato 1 del citato d.lgs. n. 179 del 2009, il
d.lgs. n. 43 del 1948, per violazione dell’art. 76 della
Costituzione.
Sono assorbite le questioni di legittimita’ costituzionale
sollevate in via subordinata.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimita’ costituzionale dell’art. 2268 del
decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento
militare), nella parte in cui, al numero 297) del comma 1, abroga il
decreto legislativo 14 febbraio 1948, n. 43 (Divieto delle
associazioni di carattere militare);
2) dichiara l’illegittimita’ costituzionale dell’art. 1 del
decreto legislativo 13 dicembre 2010, n. 213 (Modifiche ed
integrazioni al decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179, recante
disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui
si ritiene indispensabile la permanenza in vigore), nella parte in
cui modifica il decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179
(Disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di
cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma
dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), espungendo
dalle norme mantenute in vigore il decreto legislativo 14 febbraio
1948, n. 43 (Divieto delle associazioni di carattere militare).
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 gennaio 2014.

F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 gennaio 2014.

Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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