Cons. Giust. Amm. Sic., Sent., 28-07-2011, n. 526 Giustizia amministrativa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – Giungono in decisione i distinti appelli, indicati nelle premesse, proposti contro la sentenza, di estremi specificati in epigrafe, con la quale il T.A.R. per la Sicilia, sezione staccata di Catania, ha accolto l’impugnativa, promossa in primo grado dal Comune di Acireale e, per l’effetto, ha dichiarato la nullità di un accordo, tra amministrazioni e privati, concluso il 30 dicembre 2006 (su cui infra) e ha annullato gli ulteriori provvedimenti impugnati con i motivi aggiunti.

2. – Si è costituito, per resistere alle due impugnazioni, il Comune di Acireale, contestando tutto quanto ex adverso dedotto e chiedendo il rigetto degli appelli.

3. – All’udienza pubblica dell’8 giugno 2011 le cause sono state trattenute in decisione.

4. – Giova ricostruire succintamente la vicenda, fattuale e processuale, sulla quale si è innestata la presente controversia. A tal fine può attingersi alla compiuta narrativa contenuta nella sentenza appellata. 5. – Occorre innanzitutto premettere che questo Consiglio, con la decisione n. 589/2006, pubblicata il 27 ottobre 2006, annullò la procedura, indetta dal Consorzio ambito territoriale ottimale 2 di Catania (d’ora in poi: "Consorzio"), volta all’affidamento in via diretta, alla società mista, S.I.E. – Servizi Idrici Etnei S.p.A. (di seguito: "SIE"), del servizio idrico integrato.

Più in dettaglio va riferito che i Comuni di Caltagirone, Mazzarrone, Mineo, San Michele di Ganzaria, Scordia e Vizzini impugnarono avanti al T.A.R. per la Sicilia la presa d’atto dell’avvenuta costituzione della società mista SIE per la gestione del servizio idrico integrato, l’indizione della gara per la scelta del socio privato di minoranza della anzidetta società e il relativo bando, sostenendo che la costituzione della SIE e l’indizione della gara per la scelta del partner privato fossero illegittime per contrasto con i principi comunitari in materia di appalti, servizi e concessioni: ciò in quanto la società mista pubblico-privata, sebbene costituita secondo il modello tracciato dalla lettera b) del quinto comma dell’art. 113 del D.Lgs. n. 267/2000 (ossia con un socio privato selezionato mediante procedura di evidenza pubblica), non avrebbe potuto svolgere il servizio in house data la presenza di un socio privato e, pertanto, sarebbe stata necessaria la c.d. "doppia gara", vale a dire l’indizione, dopo la prima gara per la selezione del socio privato, di una seconda procedura per l’affidamento del servizio a un diverso concessionario. Il ricorso fu respinto dal Tribunale con sentenza n. 670/2005.

Detta sentenza fu appellata dai ricorrenti e il relativo ricorso fu definito con la citata decisione n. 589/2006 con la quale questo Consiglio, ravvisate talune violazioni procedimentali relative all’indizione della procedura e condivisa la fondatezza della censura riguardante la necessità della doppia gara annullò, tra l’altro:

1) la deliberazione n. 37 del 2004, con la quale il Consiglio provinciale di Catania aveva approvato lo statuto e l’atto costitutivo della SIE (poi costituita con atto notarile nel mese di settembre 2004), precisando che la società inizialmente sarebbe stata costituita con socio unico (ossia la Provincia regionale di Catania) e che la stessa sarebbe stata aperta alla partecipazione sia dei Comuni associati nel Consorzio (mediante cessione al valore nominale di parte delle azioni sottoscritte dalla Provincia nei limiti massimi delle rispettive quote di partecipazione al Consorzio) sia di un socio privato da individuarsi mediante gara pubblica;

2) le deliberazioni n. 7, 8 e 9 dell’Assemblea del Consorzio inerenti rispettivamente: a) la conferma della pregressa delibera n. 4/2004, relativa all’affidamento diretto del servizio idrico a una società mista a prevalente capitale pubblico con socio privato da scegliere con procedura di evidenza pubblica e alla presa d’atto della costituzione della SIE; b) l’autorizzazione a indire la gara per la scelta del socio privato di minoranza della anzidetta società e l’affidamento del servizio medesimo e della esecuzione dei lavori connessi alla SIE, con effetto a decorrere dalla data in cui il soggetto privato fosse diventato a tutti gli effetti socio della società medesima; c) la delega al Consiglio di Amministrazione per la predisposizione degli atti e l’avvio della gara;

3) le delibere n. 1 del 2005 del Consiglio di amministrazione e n. 2 del 2005 dell’Assemblea del Consorzio, di conferma della scelta di affidare il servizio idrico integrato a una società mista;

4) la delibera n. 2 del Consiglio di Amministrazione di nuova indizione della gara.

In sintesi, il C.G.A. annullò gli atti amministrativi inerenti: a) la scelta della società mista quale modello di gestione del servizio idrico integrato nella provincia di Catania; b) la presa d’atto della costituzione della società mista SIE e c) l’indizione della procedura di gara per l’individuazione del socio di minoranza della SIE. Va infine dato atto che:

– nelle more della suddetta decisione d’appello si svolse la gara per la selezione del socio di minoranza di SIE, della quale risultò vincitore il R.T.I. con capogruppo la Acoset S.p.A. (d’ora in poi: "Acoset");

– alla fine del 2005 furono sottoscritti gli atti di carattere societario relativi all’acquisizione, da parte del socio industriale, del 49% delle azioni della SIE, nonché la convenzione tra il Consorzio e la SIE per la gestione del servizio idrico integrato nell’ambito territoriale ottimale e per la realizzazione delle opere infrastrutturali necessarie al servizio medesimo;

– avverso la decisione n. 589/2006, la Acoset propose opposizione di terzo, poi respinta (v. infra). In data 30 dicembre 2006, ossia poco tempo dopo la pubblicazione della suddetta decisione, l’allora Presidente della Provincia di Catania, il Presidente del Consorzio, la SIE, il raggruppamento d’imprese rappresentato dalla Acoset e i Sindaci dei Comuni di Caltagirone, Scordia, S. Michele di Ganzaria, Vizzini e Mazzarrone stipularono un accordo, con cui si convenne "… con valore di accordo tra i soci, presenti e futuri, di SIE, ai sensi dell’art. 2341-bis c.c. quanto segue:

A) le parti riconoscono la specificità territoriale e amministrativa del comprensorio Calatino, con le connesse esigenze di adeguata organizzazione, rappresentanza e tutela degli interessi della collettività di riferimento; (…)

C) ai fini di quanto sopra, le Parti convengono che dovrà essere garantito adeguato ed immediato rilievo negli organi amministrativi dell’ATO alla rappresentanza istituzionale del territorio Calatino, attraverso l’ingresso di un rappresentante dei C.S. (ossia dei Comuni sottoscrittori dell’accordo) a completamento dell’attuale composizione del Consiglio di Amministrazione dell’ATO, amministratore cui assegnare particolari incarichi, anche per garantire il raccordo e il monitoraggio dei servizi da erogare in tale territorio (…);

D) i soci pubblici e privati di SIE, sottoscrittori del presente Accordo, si impegnano a nominare tre rappresentanti dei C.S. nel Consiglio di Sorveglianza, nonché un rappresentante dei medesimi C.S. nel Consiglio di Gestione della SIE, a quest’ultimo saranno affidate speciali deleghe per sovrintendere a quanto previsto alle lettere J) e L) del presente Accordo; i soci si impegnano, inoltre, a elevare da cinque a sette i componenti del Consiglio di Gestione; (…);

E) (…) la Provincia, e Acoset per l’ATI Hydro si impegnano al rinnovo degli organi della SIE (…); (…)

H) le Parti procedono alla costituzione di un gruppo di lavoro ai fini dell’elaborazione di proposte di modifica dell’attuale statuto SIE (…); dell’elaborazione di proposte circa la migliore, corrispondente al dettato legislativo e più organica definizione dei rapporti fra i vari soggetti implicati nella titolarità e nella gestione del S.I.I.; nonché ai fini della proposta degli interventi da adottare al fine d conformare le attuali modalità di gestione del S.I.I. alle eventuali innovazioni normative e/o alle evoluzioni giurisprudenziali (…);

J) la SIE potrà creare una serie di uffici decentrati, specificatamente dedicati ai singoli comprensori territoriali. A tali uffici sarà affidata la speciale cura del servizio e delle opere da realizzare nei singoli territori. In particolare, in vista della auspicata istituzione della nuova Provincia Regionale del Calatino, con creazione di un corrispondente ATO per il Servizio Idrico, l’ufficio decentrato del Calatino, con sede in Caltagirone, sarà istituito entro e non oltre 90 giorni dal provvedimento di trasferimento del personale di cui all’art. 36, l. r. 20/03 (…);(…)

M) i C.S. riconoscono che, al puntuale adempimento degli impegni tutti assunti dalle Parti, saranno cessate la ragioni del contendere, con rinunzia agli effetti del decisum del giudice amministrativo d’appello, rilasciando espressa separata dichiarazione. In particolare, al puntuale verificarsi degli eventi indicati nelle lettere C), D), E), H), J) (ultimo periodo), che costituiscono condizioni sospensive delle rinunce dei C.S., i C.S. medesimi procederanno all’ingresso nella compagine sociale della SIE, mediante l’acquisto, entro il 30 giugno 2007 delle relative azioni, nella proporzione a ciascuno spettante, e la separata dichiarazione di rinunzia sarà consegnata alle controparti contestualmente alla consegna delle altre rinunzie di cui alle lettere N e O" (…).".

Il Comune di Acireale, socio del Consorzio, impugnò l’accordo avanti al T.A.R. per la Sicilia. Successivamente, con due distinti atti per motivi aggiunti, il medesimo Comune avversò altri atti conosciuti a seguito di accesso. Inoltre, con un terzo ricorso per motivi aggiunti, il Comune di Acireale si tutelò contro la delibera del 27 luglio 2009, congiuntamente al relativo verbale d’assemblea, con la quale fu respinta la proposta del Presidente del Consorzio di:

– recepire le conclusioni di un parere pro veritate reso dalla commissione consultiva, incaricata dal C.d.A. del medesimo Consorzio;

– adottare gli atti consequenziali inerenti l’illegittimo affidamento del servizio idrico integrato alla SIE.

In dettaglio, il Comune di Acireale si lamentò del fatto che, attraverso l’accordo impugnato, si fosse in sostanza realizzato l’obiettivo di proseguire illecitamente – ossia in contrasto con la richiamata decisione n. 589/2006 – l’affidamento del servizio idrico integrato in favore della SIE. Soggiunse, ancora, l’ente civico ricorrente che:

– il C.d.A. del Consorzio, con deliberazione n. 21 del 30 dicembre 2008, aveva conferito a una commissione consultiva l’incarico di redigere un parere pro veritate concernente, tra l’altro, la portata dell’obbligo di conformazione al giudicato amministrativo in presenza di una rinuncia al decisum da parte dei comuni appellanti e vittoriosi in giudizio;

– siffatta commissione aveva suggerito di adottare una delibera assembleare con la quale si prendesse atto dell’inidoneità di detta rinuncia a determinare l’eliminazione degli effetti demolitori spiegati dalla pronuncia n. 589/2006 e la reviviscenza dei provvedimenti annullati dal C.G.A., attesa l’avvenuta caducazione automatica degli atti amministrativi e negoziali adottati o conclusi a valle dei provvedimenti annullati e, in particolare, del contratto di gestione del servizio idrico integrato stipulato tra il Consorzio e la SIE, nonché degli eventuali atti di acquisizione, da parte di quest’ultima, delle gestioni dei singoli Comuni;

– nonostante le chiare conclusioni del riferito parere, illegittimamente il C.d.A. del Consorzio aveva deciso di non adeguarsi.

La resistente Acoset, dal canto suo, sostenne che:

– l’accordo impugnato avesse ad oggetto unicamente il regolamento delle pretese risarcitorie avanzate dai Comuni a seguito della decisione n. 589/2006 e che, pertanto, esso esulasse dall’ambito della giurisdizione amministrativa;

– il ricorso introduttivo e il primo e il secondo atto per motivi aggiunti fossero divenuti improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse;

– il terzo ricorso per motivi aggiunti fosse infondato;

– il T.A.R. avrebbe dovuto disporre un rinvio della trattazione, come richiesto dalla stessa Acoset, onde consentire a quest’ultima di proporre un ricorso incidentale contro, tra l’altro, la delibera con la quale la predetta commissione consultiva era stata incaricata di redigere il parere sunnominato. 6. – Il T.A.R. si riconvocò, in una seconda camera di consiglio, tenuta nell’intervallo tra il passaggio in decisione della causa (id est, prima della deliberazione definitiva) e la pubblicazione della sentenza impugnata, per valutare anche il ricorso incidentale nel frattempo depositato. 7. – Nel merito il Tribunale ha osservato in via preliminare che l’oggetto della controversia concerne esclusivamente l’accordo del 30 dicembre 2006, giudicato riconducibile agli accordi ex art. 11 della L. n. 241/1990, e che la questione al centro del contendere investe la liceità della rinuncia, da parte dei Comuni vittoriosi in un giudizio, agli effetti del decisum espresso dalla decisione del C.G.A. n. 589/2006; ha, quindi, soggiunto che esulano dal petitum sia il profilo concernente la legittimità dell’affidamento del servizio idrico integrato sia le problematiche di carattere risarcitorio. Il T.A.R. ha poi:

– riconosciuto l’appartenenza della lite alla giurisdizione amministrativa, trattandosi, comunque, di esaminare la liceità di un accordo nei confronti del quale era stata dedotta la nullità per violazione del giudicato ex art. 21-septies della L. n. 241/1990; – negato che fosse applicabile alla fattispecie l’art. 23-bis della L. n. 1034/1971 e, pertanto, ha dichiarato tardive, per inosservanza degli ordinari termini processuali, le memorie difensive depositate rispettivamente dal Comune ricorrente, dalla Acoset e dalla SIE il 16 ottobre 2009; – respinto l’istanza di sospensione del processo formulata dal difensore della Acoset, escludendo l’esistenza di qualsiasi vincolo di pregiudizialità tra il presente giudizio, ora transitato in grado di appello, e quello di opposizione di terzo contro la decisione n. 589/2006;

– statuito che le delibere impugnate con il terzo ricorso per motivi aggiunti consistono in un segmento di azione amministrativa, svoltosi a valle del diverso procedimento di conferimento del predetto incarico di consulenza, e che detto segmento procedimentale, non essendo finalizzato alla riforma o alla modifica dell’accordo in parola, nemmeno poteva rifluire sullo stesso, con la conseguenza di mantenere integro in capo al Comune di Acireale l’interesse alla decisione del ricorso introduttivo;

– per l’effetto, dichiarato inammissibile il ricorso incidentale per carenza di interesse processuale;

– disatteso l’eccezione di difetto di legittimazione del Comune di Acireale, sollevata dalla Acoset sull’assunto che il Comune avrebbe ratificato l’accordo, ritenendo che non si fosse offerta la prova di alcun atto di assenso esplicito o implicito da parte del Comune (che, anzi, risultava documentato dal verbale della seduta dell’Assemblea dell’ATO 2 del 29 marzo 2007 che, a seguito delle contestazioni mosse dal Sindaco di Acireale, si era deliberato di non approvare il verbale della seduta del 30 dicembre 2006);

– accolto il ricorso originario proposto dal Comune di Acireale, dichiarando la nullità dell’oggetto dell’accordo per indisponibilità degli effetti della sentenza e per mancanza di causa, dal momento che tramite la stipula del suddetto accordo, comunque non fondato sul presupposto dell’esistenza di una res litigiosa, si sarebbero integralmente confermati gli atti annullati dalla decisione n. 589/2006, passata in giudicato;

– rilevato che l’accordo, giacché sottoscritto successivamente al deposito della sentenza di annullamento del C.G.A., si colloca al di fuori dei meccanismi della rinuncia al ricorso;

– evidenziato che, in ogni caso, la predetta sentenza, analogamente al suo contenuto e agli effetti del giudicato, non rientra nella disponibilità delle parti e che, di conseguenza, non può essere rimossa da successive pattuizioni;

– escluso che i Comuni, appellanti vittoriosi, potessero transigere su pretese ormai assistite dal giudicato, atteso che la causa del contratto di transazione, disciplinato dagli artt. 1965 ss. del codice civile, si fonda sul presupposto che la lite sia imminente, ma non ancora pendente o, se pendente, che non sia stata ancora decisa con sentenza passata in giudicato;

– osservato, in conclusione, che le parti del precedente giudizio d’appello, definito con una decisione passata in giudicato, avevano cercato di porre nel nulla, attraverso la stipula dell’accordo succitato, le statuizioni recate dalla pronuncia n. 589/2006, al precipuo fine di consolidare per questa via situazioni giuridiche e atti già eliminati dalla pronunzia di annullamento;

– ravvisato la violazione dell’art. 21-septies della L. n. 241/1990, poiché l’accordo in discorso era chiaramente teso a paralizzare illecitamente l’automatico prodursi, in via retroattiva, degli effetti, caducatorio e conformativo, promananti dalla decisione di questo Consiglio.

8. – Avverso la sentenza del T.A.R., sopra riferita nei suoi contenuti essenziali, hanno interposto distinti appelli la Acoset e la Hydro Catania S.p.A. (società costituita dai componenti del raggruppamento Acoset ai fini della partecipazione come socio privato della SIE) e pure la SIE.

Le impugnazioni sono affidate a plurime censure.

Per quanto riguarda l’appello della Acoset e della Hydro Catania sono stati dedotti i seguenti mezzi di gravame:

– difetto di giurisdizione;

– errores in procedendo;

– inammissibilità per difetto di legittimazione e interesse;

– improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse.

L’impugnazione della SIE poggia su doglianze, così rubricate:

– erronea attribuzione della controversia alla giurisdizione amministrativa;

– errori in procedendo e conseguente nullità della decisione, con necessità di rimettere la controversia al primo Giudice ai sensi dell’art. 35 della L. n. 1034/1971;

– errori di merito della decisione appellata; – inesistenza della dichiarata nullità ex art. 21-septies della L. n. 241/1990.

Nell’imminenza dell’udienza di discussione le appellanti Hydro Catania e SIE hanno proposto identiche istanze di ricusazione di uno dei Consiglieri di Stato in servizio presso questo Consiglio, del consigliere relatore (nonché estensore della presente decisione), di un altro componente del Collegio della provvista regionale e, finanche, di un quarto magistrato, designato dalla Regione siciliana, per l’ipotesi della possibile sostituzione dello stesso in luogo dell’altro omologo componente ricusato.

9. – In via assolutamente prioritaria si impone l’esame delle istanze di ricusazione. Si è accennato alla circostanza che le predette istanze sono state indirizzate contro quattro magistrati, ossia nei confronti di due Consiglieri di Stato assegnati al C.G.A. e di due magistrati di nomina regionale, cc.dd. "membri laici". Prescindendo per il momento dal riferire il contenuto delle motivazioni poste a sostegno di siffatte istanze (motivazioni che saranno esaminate diffusamente nel prosieguo), va subito rilevato che, stante l’attuale, parziale copertura dell’organico magistratuale del C.G.A., non è possibile provvedere, con una pronuncia di carattere definitivo, sulle domande di ricusazione.

Ed invero, l’art. 18, comma 5, del codice del processo amministrativo (d’ora in poi: "c.p.a.") prevede che: "(i)n ogni caso la decisione definitiva sull’istanza è adottata, entro trenta giorni dalla sua proposizione, dal collegio previa sostituzione del magistrato ricusato, che deve essere sentito". La legge processuale stabilisce pertanto una precisa e ragionevole regola di composizione del collegio chiamato a decidere sull’istanza di ricusazione. Calata nel caso di specie, la suddetta regola comporta che del collegio tenuto a pronunciarsi sulla ricusazione non potranno far parte i due Consiglieri di Stato sopra indicati e nemmeno i due "membri laici" (uno dei quali ricusato "in prevenzione", ossia in vista del suo eventuale subentro in luogo del membro laico, del pari ricusato, componente il collegio indicato in calce alla presente sentenza).

Tanto premesso, occorre ricordare che il D.Lgs. 24 dicembre 2003, n. 373 (Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana concernenti l’esercizio nella regione delle funzioni spettanti al Consiglio di Stato) contiene norme in tema di composizione dei collegi giudicanti della sezione giurisdizionale del C.G.A. In dettaglio, l’art. 4, comma 1, prescrive che: "La Sezione giurisdizionale del Consiglio di giustizia amministrativa è composta da: a) il presidente del Consiglio di giustizia amministrativa, che la presiede; b) il presidente assegnato alla Sezione giurisdizionale; c) quattro consiglieri di Stato; d) quattro componenti in possesso dei requisiti di cui all’articolo 106, terzo comma, della Costituzione per la nomina a consigliere di Cassazione ovvero di cui all’articolo 19, primo comma, numero 2), della legge 27 aprile 1982, n. 186.

2. Il collegio giudicante è composto da uno dei due presidenti della Sezione, da due consiglieri di Stato e da due dei membri indicati nella lettera d) del comma 1.".

Per completare il quadro normativo va riferito altresì che l’art. 6 del succitato decreto legislativo, con riferimento al procedimento di nomina dei c.d. "membri laici", prevede quanto segue: "1. Il prefetto è designato dal Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro per gli affari regionali.

2. Alla designazione dei componenti di cui all’articolo 3, comma 1, lettera d), e all’articolo 4, comma 1, lettera d), provvede il Presidente della Regione siciliana.

3. I componenti del Consiglio di giustizia amministrativa di cui ai commi 1 e 2 sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, cui partecipa il Presidente delle Regione siciliana ai sensi dell’articolo 21, terzo comma, dello Statuto.

4. I componenti designati dalla Regione e il prefetto durano in carica sei anni, decorrenti per ciascuno di essi dalla data del rispettivo giuramento, e non possono essere confermati.

5. Alla scadenza del sessennio i componenti del Consiglio di giustizia amministrativa designati dal Presidente della Regione e il prefetto cessano dalla carica e dall’esercizio delle funzioni.". Dal combinato disposto degli artt. 18 c.p.a. e 4, comma 2, del D.Lgs. n. 373/2003 discende, quindi, che l’ipotetico collegio chiamato a pronunciarsi sulla istanza di ricusazione proposta dalle società appellanti dovrebbe essere composto da tre Consiglieri di Stato e da due membri laici, di designazione regionale, differenti da quelli ricusati.

Il disegno normativo tratteggiato dal D.Lgs. n. 373/2003 consentirebbe di costituire un collegio ritualmente formato a norma dell’art. 18 c.p.a.; sennonché il Presidente della Regione siciliana – per quanto consta – non ha ancora provveduto alla designazione del quarto componente laico della sezione giurisdizionale del C.G.A. e, quindi, non è stato avviato il relativo procedimento di nomina.

All’attualità, dunque, è assolutamente impossibile costituire un collegio idoneo. Onde superare tale impasse nemmeno si può ricorrere all’art. 2, comma 4, secondo periodo, del D.Lgs. n. 373/2003, secondo cui: "(o)ve manchi in una Sezione il numero di consiglieri necessario per deliberare, il presidente del Consiglio di giustizia amministrativa provvede ai sensi dell’articolo 12, secondo comma, del regio decreto n. 26 giugno 1924, n. 1054." (a sua volta l’art. 12, secondo comma, del R.D. n. 1054/1924 stabilisce: "Ove manchi in qualche sezione il numero dei consiglieri necessario per deliberare, il Presidente del Consiglio supplisce con consiglieri appartenenti ad altre sezioni".). Le ragioni dell’inapplicabilità dell’art. 2 riposano sulle seguenti considerazioni:

– la disposizione si riferisce espressamente ai soli "consiglieri" e non genericamente ai "componenti";

– inoltre i decreti di nomina dei membri laici indicano recano anche la destinazione del componente alla sezione giurisdizionale o a quella consultiva. Sebbene tale indicazione in effetti sia erronea, giacché non giustificata alla luce del D.Lgs. n. 373/2003 – che, a differenza degli abrogati D.Lgs. 6 maggio 1948, n. 654, e D.P.R. 5 aprile 1978, n. 204, non contempla più la distinzione, nell’ambito dei componenti di designazione regionale, tra "giuristi" (destinati alla sezione giurisdizionali) ed "esperti" (destinati alla sezione consultiva) – nondimeno il Presidente del C.G.A. non può prescindere dal preciso contenuto dei suddetti provvedimenti di nomina.

In conclusione, la mancata designazione di tutti i componenti laici del C.G.A. si risolve, con esclusivo riferimento al territorio siciliano, in un serio ostacolo all’esercizio della funzione giurisdizionale amministrativa di secondo grado, posto che il pieno dispiegarsi della stessa, in conformità alle norme del D.Lgs. n. 3737/2003 e del codice del processo amministrativo, è nei fatti impedito per le ragioni testé esposte.

Stante la gravità della situazione sopra descritta, il Collegio ritiene necessario comunicare, in via ufficiale e ad ogni effetto di legge, la presente decisione al Presidente della Regione siciliana per quanto di competenza.

Nonostante tutto quanto considerato il Collegio ritiene di non potersi sottrarre all’immanente dovere di rendere giustizia, come invece si verificherebbe se la trattazione delle cause fosse rinviata e, quindi, di fatto, sospeso il giudizio sine die in attesa del superamento dell’inerzia regionale; una soluzione del genere non sarebbe aderente al principio di effettività della tutela giurisdizionale, dovendosi evitare che attraverso infondate o inammissibili istanze di ricusazione venga paralizzata l’attività giudiziaria.

In questo senso del resto è anche l’orientamento della Corte costituzionale "secondo la quale esiste un potere delibatorio del giudice della causa in ordine all’istanza di ricusazione, onde evitare che atti di ricusazione pretestuosi comportino effetti di ritardo o paralisi del giudizio (Corte cost., 18 marzo 2005 n. 115 e 23 luglio 2002 n. 388)" (Cons. Stato, sez. IV, 6 giugno 2011 n. 3406, ord.).

Il Collegio, pertanto, reputa che l’unica via attualmente percorribile per giungere comunque a una pronuncia sulla vicenda dedotta in contenzioso sia quella di applicare il comma 4 dell’art. 18 c.p.a. in base al quale: "Proposta la ricusazione, il collegio investito della controversia può disporre la prosecuzione del giudizio, se ad un sommario esame ritiene l’istanza inammissibile o manifestamente infondata."; tanto anche in ragione del fatto che il termine di trenta giorni previsto dal comma 5 è evidentemente di natura meramente ordinatoria.

Sussistono difatti tutti i presupposti per l’applicazione del comma 4 dell’art. 18 c.p.a., attesa la patente infondatezza dei motivi di ricusazione, come si dimostrerà subito infra.

Ovviamente la presente sentenza è assoggettata al regime stabilito dall’ultimo periodo del comma 8 dell’art. 18 c.p.a. ("L’accoglimento dell’istanza di ricusazione rende nulli gli atti compiuti ai sensi del comma 4 con la partecipazione del giudice ricusato") con la conseguenza che:

– se e quando potrà costituirsi il collegio che dovrà pronunciarsi in via definitiva sull’istanza di ricusazione;

– se, in caso di costituzione del collegio di cui al precedente punto 1), dovessero essere accolte le istanze di ricusazione,

allora la presente sentenza sarà automaticamente privata di qualunque effetto a causa della nullità prodottasi.

Fino a quel momento – in cui cioè si dovesse verificare la caducazione retroattiva del decisum – la sentenza sarà pienamente efficace, esecutiva e vincolante per le parti del giudizio. 10. – È pertanto possibile scrutinare i motivi che sorreggono le istanze di ricusazione.

Ebbene, secondo le istanti, i quattro membri del Collegio ricusati non potrebbero far parte del Collegio per aver già deciso la controversia definita con la sentenza di questo Consiglio n. 371/2011.

Giova premettere che detta pronuncia fu resa sugli appelli interposti, rispettivamente, dal Dipartimento regionale dell’acqua e dei rifiuti e dalla SIE avverso la sentenza con la quale il T.A.R. per la Sicilia, sezione staccata di Catania, aveva accolto l’impugnativa, articolatasi in un ricorso e in successivi motivi aggiunti, promossa in primo grado dal comune di Calatabiano onde ottenere l’annullamento dei seguenti atti:

– il decreto dell’Agenzia regionale per i rifiuti e le acque del 4 febbraio 2009, n. 33, recante la nomina di un commissario ad acta presso il comune di Calatabiano, al fine di "porre in essere per conto degli organi del predetto Comune, gli atti necessari per la consegna degli impianti al Soggetto Gestore della Provincia di Catania – Servizi Idrici Etnei s.p.a.";

– il successivo decreto di proroga del 12 marzo 2009, n. 132;

– la deliberazione n. 1 del 26 marzo 2009, adottata dal commissario ad acta presso il comune di Calatabiano con i poteri della Giunta comunale, e della relativa proposta del Responsabile dell’Area tecnica ecologica ambiente, in pari data;

– le note dell’Autorità d’ambito del servizio idrico integrato, Consorzio d’ambito territoriale ottimale Catania Acque, del 27 novembre 2008, n. 1544 e n. 1549; del 3 dicembre 2008, n. 1601; del 15 dicembre 2008, n. 1806; del 18 dicembre 2008, n. 1961; del 14 gennaio 2009, n. 255; del 21 gennaio 2009, n. 394 e del 3 febbraio 2009, n. 638, nonché le note dell’Arra del 19 dicembre 2008, n. 49530; del 15 gennaio 2009, n. 4/RIS/1°; e pure i verbali redatti dal commissario ad acta nelle sedute del 18 febbraio 2009, del 26 febbraio 2009, del 26 marzo 2009, nelle parti aventi contenuto provvedimentale;

– la deliberazione della Giunta regionale n. 497 del 30 novembre 2007 con la quale, su proposta dell’Assessorato regionale alla famiglia ed alle autonomie locali, fu attribuito all’Agenzia regionale per i rifiuti e le acque il compito di svolgere gli interventi ispettivi e sostitutivi in materia di gestione dei rifiuti e delle acque.

Con tale decisione fu, tra l’altro, giudicata inammissibile l’impugnazione proposta dalla SIE, avendo il C.G.A. rilevato, in accoglimento di una specifica eccezione di parte, "un evidente difetto di legittimazione attiva, dal momento che questo Consiglio, con la decisione n. 589/2006 ebbe ad annullare tutti gli atti che condussero sia alla costituzione della Sie, ovverosia della società mista che avrebbe dovuto gestire il servizio idrico integrato (SII) nell’ambito della provincia di Catania, sia al diretto affidamento alla stessa del servizio. Non si vede, pertanto, come una società ormai priva di qualunque titolo a gestire il predetto servizio e quindi anche sprovvista dell’interesse a ricevere in consegna gli impianti del comune di Calatabiano possa validamente impugnare la sentenza indicata nelle premesse. In realtà, la Sie ha perso, per effetto della citata pronuncia di questo Consiglio e, dunque, già da cinque anni, ogni legittimazione processuale rispetto all’oggetto della presente controversia".

In sintesi, la tesi patrocinata dai ricusanti è che la riferita statuizione, per la sua radicalità, si riverbererebbe sul presente giudizio rendendo suspectus il Collegio decidente, qualora formato anche dai magistrati che concorsero alla decisione della lite definita con la sentenza n. 371/2011. In particolare, risulterebbero applicabili gli artt. 51, primo comma, n. 4), e 52 c.p.c.; inoltre le istanti hanno citato anche le sentenze della Corte europea dei diritti dell’Uomo, sez. V, 24 giugno 2010, n. 22439, "Branquart" e sez. III, 24 marzo 2009, che, ad avviso delle appellanti, confermerebbero la loro posizione.

Le istanze, come preannunciato, sono manifestamente infondate. Ed invero, l’art. 51, primo comma, n. 4), c.p.c. impone al giudice di astenersi (e, quindi, nell’ipotesi di omessa astensione, è giustificata la proposizione dell’istanza di ricusazione ai sensi del successivo art. 52), "se ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha deposto in essa come testimone, oppure ne ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo o come arbitro o vi ha prestato assistenza come consulente tecnico; (…)".

Nello specifico il rischio di prevenzione del giudice sarebbe correlato, secondo le prospettazioni di parte, alla pregressa cognizione dell’altra controversia e, più in particolare, alla enunciazione della statuizione sul difetto di legittimazione processuale della SIE.

È agevole obiettare che non ricorrono i presupposti dell’obbligo di astensione ai sensi delle disposizioni sopra citate.

In primo luogo è evidente la radicale diversità oggettiva (e parzialmente anche soggettiva) tra la presente controversia e quella decisa con la sentenza n. 371/2011. Nel primo caso si è scrutinata la legittimità dei provvedimenti di un commissario ad acta chiamato dall’Agenzia regionale per i rifiuti e le acque ad agire in sostituzione di organi comunali (nonché della legittimità della stessa nomina del commissario); nel caso che occupa il Collegio invece occorre verificare la liceità dell’accordo sopra descritto; rispetto a tale verifica la questione della perdurante legittimazione della SIE a gestire il servizio idrico integrato è del tutto secondaria, investendo un profilo che si colloca "a valle" del contenzioso (ossia la possibilità giuridica di eseguire l’accordo in questione, qualora – in riforma della sentenza impugnata – ne fosse riconosciuta la validità; ma così non è, come si spiegherà infra). Difetta anche l’ulteriore requisito della diversità del grado di giudizio, posto che la sentenza n. 371/2011, al pari della presente, è una decisione di appello.

Viepiù, e la considerazione rivela la pretestuosità delle istanze in esame, l’eccezione relativa al possibile difetto di interesse o di legittimazione della SIE non ha trovato ingresso nel presente giudizio né è stata rilevata d’ufficio dal giudice, ma ad essa hanno accennato (contra se) le stesse istanti al solo fine – deve ritenersi – di poter corroborare la domanda di ricusazione.

Diversamente, considerato lo specifico oggetto della presente controversia, sopra descritto, il Collegio è dell’opinione che la SIE abbia piena legittimazione a difendersi dalla domanda di nullità di un accordo dalla medesima concluso, mentre potrebbe rilevare soltanto in un secondo tempo ed è dunque priva di immediata rilevanza nell’ambito della presente controversia, la differente problematica relativa alla legittimazione della SIE a gestire il servizio idrico integrato. Tale difetto di legittimazione potrebbe in ipotesi dar luogo a conseguenze risarcitorie per responsabilità contrattuale ed extracontrattuale (laddove fosse ritenuto invalido l’accordo e dimostrata la conoscenza, da parte di alcuni dei paciscenti, della causa di invalidità), ma non incide direttamente sul tema della liceità di quanto convenuto.

A seguire la tesi estrema sostenuta dalle ricusanti e diffusamente illustrata in sede di discussione pubblica, un magistrato amministrativo dovrebbe astenersi ogniqualvolta abbia precedentemente deciso una controversia relativa a una medesima parte e per il semplice fatto che nell’ambito del diverso e antecedente contenzioso abbia concorso a deliberare in ordine alla sussistenza di cause di inammissibilità della costituzione della stessa parte e, perfino – si noti bene -, quando le due controversie abbiano oggetto differente e siano state conosciute nello stesso grado. Premesso che adducere inconvenientes non est solvere argumentum, non vale soffermarsi a considerare le immaginabili, gravi conseguenze che una simile impostazione, laddove accolta, produrrebbe sulla funzionalità dell’intero sistema giudiziario, posto che, soltanto per fare alcuni esempi, un magistrato dovrebbe astenersi in tutte le cause sequenziali (o, meglio, in tutte quelle successive alla prima di un c.d. "filone") che coinvolgano una medesima parte e pure nei giudizi di ottemperanza di precedenti provvedimenti giurisdizionali alla cui deliberazione abbia concorso il medesimo magistrato. Fortunatamente la tesi in esame è priva di qualunque supporto normativo, atteso che le ipotesi di astensione obbligatoria (e di conseguente ricusazione) sono tipiche e tassative e, nella fattispecie, non ricorrono. Difatti, anche seguendo l’interpretazione data dalla Corte costituzionale (sentenze n. 387 del 15 ottobre 1999 e 23 dicembre 2005, n. 460) all’espressione "altro grado" ("la espressione "altro grado" non può avere un ambito ristretto al solo diverso grado del processo, secondo l’ordine degli uffici giudiziari, come previsto dall’ordinamento giudiziario, ma deve ricomprendere – con una interpretazione conforme a Costituzione – anche la fase che, in un processo civile, si succede con carattere di autonomia, avente contenuto impugnatorio, caratterizzata (per la peculiarità del giudizio di opposizione di cui si discute) da pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorché avanti allo stesso organo giudiziario"), sicuramente nel caso in esame non si ravvisano gli estremi di una fase impugnatoria rispetto al decisum recato dalla sentenza n. 371/2011.

Né vale richiamare il precedente "Branquart" della Corte europea dei diritti dell’Uomo, in cui il Giudice dei diritti umani ritenne violata la disposizione di cui all’art. 6, Par. 1, della Convenzione in relazione ad un caso in cui la Corte di cassazione francese aveva rigettato un ricorso proposto avverso una decisione di condanna emessa da un giudice d’appello che, in sede di rinvio, si era pronunciato sulle questioni prospettate dai ricorrenti in una composizione collegiale quasi identica a quella che in precedenza aveva statuito sul ricorso del Pubblico ministero contro una decisione assolutoria adottata da un’altra Corte d’appello. Nell’ambito di detto giudizio la Corte di Strasburgo ha osservato che la Corte francese aveva accertato, nel corso del primo appello, i medesimi fatti accertati nel secondo e che, quindi, sussisteva una obiettiva ragione di temere che la stessa Corte nel secondo caso avrebbe potuto essere prevenuta e quindi non imparziale.

È del tutto evidente la diversità di fattispecie tra il caso in esame e quello deciso dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo: in quest’ultima ipotesi si trattava di un giudizio penale (che anche nel nostro ordinamento segue, in tema di disciplina dell’imparzialità del giudice, regole diverse da quelle vigenti nei processi amministrativi e civile; diversità che il Giudice delle leggi, in più occasioni ha ritenuto pienamente legittima sul piano costituzionale); inoltre nel caso Branquart, diversamente da quanto si è verificato nelle vicende oggetto delle domande di ricusazione in esame, il medesimo (in gran parte) collegio aveva conosciuto degli stessi fatti.

Le appellanti, insomma, hanno completamente travisato il senso e il contenuto delle chiarissime pronunce rese dalla Corte europea.

In conclusione, le istanze si rivelano prima facie manifestamente infondate e il Collegio ritiene pertanto, fatta comunque salva la futura successiva decisione definitiva sulle ricusazioni, di poter tranquillamente procedere nello scrutinio delle altre questioni sottoposte al vaglio giurisdizionale. 11. – Una volta dato atto dell’obbligatoria riunione degli appelli in quanto diretti contro la medesima sentenza, va esaminata in via prioritaria, seguendo l’ordine logico-giuridico di esame delle eccezioni, quella relativa al preteso difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.

Sul punto le appellanti, con argomenti pressoché sovrapponibili, contestano l’applicabilità alla fattispecie sia dell’art. 11 sia dell’art. 21-septies della L. n. 241/1990. In relazione alla prima disposizione negano che l’accordo in questione sia riconducibile al novero di quelli previsti dal suddetto art. 11, trattandosi invece di un normale negozio plurilaterale di diritto privato, di natura transattiva. Sul secondo aspetto, con riferimento all’art. 21-septies, le appellanti deducono la carenza dei presupposti per l’applicabilità della previsione non potendo assimilarsi l’accordo sunnominato a un provvedimento amministrativo. L’eccezione è infondata. Occorre muovere dalla considerazione che, per vagliare correttamente il profilo della iuris dictio nel caso che occupa il Collegio, si impone una lettura congiunta degli artt. 11 e 21-septies della L. n. 241/1990. Difatti è indiscutibile che il secondo comma dell’art. 21-septies si riferisca letteralmente ai "provvedimenti amministrativi", ma nell’ambito della nozione estesa e attuale di provvedimento amministrativo notoriamente rientrano anche gli atti di amministrazione cc.dd. "consensuale" e, tra questi, innanzitutto gli accordi di cui all’art. 11 i quali, anche nel caso in cui si configurino come "sostitutivi" di un provvedimento, possono essere conclusi soltanto in presenza di una chiara attribuzione ex lege di un preciso potere autoritativo all’amministrazione che ne promuova la stipulazione o che comunque concorra alla convenzione: in questo senso è nitida la motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 204/2004, nella parte in cui ha precisato che: "(l)a materia … può essere oggetto di giurisdizione … del giudice amministrativo se in essa la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo ovvero, attesa la facoltà, riconosciutale dalla legge, di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo, se si vale di tale facoltà (la quale, tuttavia, presuppone l’esistenza del potere autoritativo: art. 11 della legge n. 241 del 1990)").

La stessa L. n. 241/1990, all’art. 21-octies, comma 2, ha d’altronde chiarito che, nel concetto di provvedimento, rientrano anche gli atti amministrativi di natura autoritativa, ma "vincolati".

Tanto premesso, devono essere valorizzate le considerazioni svolte dal T.A.R. in ordine agli effetti del giudicato amministrativo. Ebbene il primo Giudice ha condivisibilmente statuito che da qualunque sentenza di annullamento del Giudice amministrativo, oltre al c.d. "effetto caducatorio" o "demolitorio" (consistente nella eliminazione dell’atto impugnato) e al c.d. "effetto ripristinatorio" (concretantesi nella cancellazione delle modificazioni della realtà giuridica e fattuale intervenute per effetto dell’atto annullato e cioè nell’adeguamento dell’assetto di interessi esistente prima della pronuncia giurisdizionale), scaturisce anche un "effetto conformativo", ossia un vincolo alle scelte amministrative in sede di riedizione del potere rappresentato dall’enunciazione di una regola giurisdizionale alla quale la pubblica Amministrazione si deve attenere nella sua attività futura. "Ora, mentre l’effetto ripristinatorio viene di fatto rimesso al potere dispositivo della parte vittoriosa che lo fa valere attraverso il giudizio di ottemperanza, l’effetto caducatorio e l’effetto conformativo operano automaticamente per ricondurre a legittimità l’azione amministrativa ed eliminare gli effetti prodotti dal provvedimento prima del suo annullamento; effetti questi che non possono mantenersi, perché sarebbe contraddetta, altrimenti, l’efficacia ex tunc dell’eliminazione del provvedimento annullato. Ciò comporta che le decisioni giurisdizionali sono vincolanti per l’amministrazione non solo per quanto concerne gli effetti demolitori statuiti e nei confronti delle parti coinvolte, ma anche per quanto riguarda l’adozione degli atti conformativi, che devono essere adottati nell’assoluto rispetto del contenuto formale e sostanziale delle decisioni medesime; di conseguenza, qualsiasi nuovo atto dell’amministrazione che si ponga in contrasto con la statuizione contenuta nella sentenza esecutiva, o che trovi fondamento o giustificazione o che si basi sul presupposto dell’esistenza di un atto annullato con la medesima sentenza, ovvero dia ulteriore seguito a provvedimenti eliminati dal mondo giuridico con annullamento disposto con sentenza esecutiva, è affetto da antigiuridicità per violazione dell’obbligo a carico dell’amministrazione di conformarsi alla pronuncia giurisdizionale. (cfr. in tal senso Consiglio Stato, Sez. VI, 23 dicembre 2008, n. 6524 e 22 settembre 2008, n. 4563; T.A.R. Puglia Lecce, Sez. I, 25 marzo 2009, n. 538; T.A.R. Lazio Roma, Sez. III, 09 novembre 2005, n. 10875)" (così la sentenza impugnata).

In altri termini la sentenza di natura demolitoria genera in capo all’amministrazione, che sia stata parte in causa, una potestà ad esercizio obbligatorio e sempre vincolata nell’an (e talora anche nel quid, nel quomodo e nel quantum) che si estrinseca in un nuovo esercizio del medesimo potere di amministrazione attiva che abbia condotto in precedenza all’adozione dell’atto viziato.

In base alla legge, la riedizione di detto potere può anche risolversi, in esito al procedimento, nell’adozione di un accordo di cui all’art. 11 della L. n. 241/1990. Il limite insuperabile alla riedizione del potere, mediato nel suo esercizio dalla pronuncia giurisdizionale, è tuttavia costituito dal divieto, per l’amministrazione, di adottare provvedimenti o di concludere accordi affetti dai medesimi vizi che abbiano dato luogo alla decisione caducatoria del giudice amministrativo.

Trapiantati i suesposti principi nel caso di specie, emerge in tutta evidenza come, al di là della irrilevante qualificazione giuridica dell’accordo (peraltro errata non potendo darsi "transazione" su una res litigiosa già definita in sede giurisdizionale; sul punto v. infra), il nucleo centrale della convenzione in esame consista a ben vedere nella illegittima riedizione del potere che condusse alla procedura di affidamento del servizio idrico integrato. L’illegittimità risulta in maniera palese dalla circostanza che, attraverso l’accordo in questione, le parti stipulanti hanno tentato di realizzare un effetto – ossia la protrazione dell’affidamento del servizio pubblico integrato – in radice precluso dalla decisione di questo Consiglio n. 589/2006.

12. – I precedenti rilievi confermano, per un verso, la sussistenza della giurisdizione amministrativa e, per altro verso, risolvono, in piena adesione all’impostazione seguita dal T.A.R., la principale questione controversa, in ordine cioè alla liceità, o meno, dell’accordo del 30 giugno 2006.

13. – Nonostante l’anticipazione del giudizio sul merito della controversia (aspetto sul quale si tornerà nel prosieguo), si impone comunque la disamina degli altri motivi di impugnazione dedotti dalle appellanti.

14. – In primo luogo va respinta la censura secondo la quale il T.A.R. avrebbe erroneamente ritenuto inapplicabile l’art. 23-bis, comma 1, lett. c) ed e), della L. n. 1034/1971. Le superiori premesse dimostrano come il Tribunale abbia ben deciso anche su questo aspetto della lite. Con riferimento alla lett. c) del sunnominato art. 23-bis, vale osservare che l’oggetto della presente controversia non è l’affidamento di un servizio pubblico: questa semmai era la materia sulla quale si è formato il giudicato sulla decisione n. 589/2006. La lite verte invece sulla liceità dell’accordo con il quale le amministrazioni hanno ritenuto di poter ottemperare al decisum del C.G.A. Il giudizio dunque esorbita dal novero di quelli assoggettati al regime abbreviato in costanza del precedente regime processuale. Riguardo la lett. e) della medesima disposizione, occorre rilevare che con l’accordo non si è modificata direttamente l’organizzazione della società mista, ma le parti hanno solamente assunto impegni in tal senso. In questa parte, dunque, il contenuto provvedimentale dell’accordo non è immediatamente riconducibile all’invocata previsione e, pertanto, non si è né si era in presenza di una deroga alle regole dettate per il rito ordinario, incluse quelle sui termini. D’altronde l’art. 23-bis era una tipica norma eccezionale e, quindi, di stretta interpretazione, non suscettibile di esegesi estensive.

15. – Non va incontro a miglior sorte la doglianza con la quale si è lamentata la mancata sospensione del giudizio di primo grado ai sensi dell’art. 295 c.p.c. Va rilevato, in via dirimente, che le parti appellanti hanno perso qualunque interesse a tale mezzo di gravame, dal momento che l’opposizione di terzo, pendente all’epoca della decisione da parte del T.A.R., è stata poi esaminata da questo Consiglio e dichiarata inammissibile (con decisione n. 555 del 21 aprile 2010). Da ciò discende che, quand’anche fosse stato ipoteticamente fondato il motivo (ma non è così), comunque il Collegio non avrebbe potuto annullare la sentenza impugnata e rinviare la controversia al T.A.R. una volta venuta meno la pretesa causa di sospensione. Una soluzione processuale del genere descritto, oltre a cozzare con plurimi parametri costituzionali (in primis, la ragionevole durata del giudizio), sarebbe stata in contrasto con qualunque criterio di ragionevole esercizio del potere giurisdizionale e manifestamente inconciliabile con le preminenti esigenze del buon andamento e della sana amministrazione della giustizia.

Soltanto per mera completezza motivazionale, si deve soggiungere che nemmeno sussisteva, nella fattispecie, quel nesso di stretta pregiudizialità-dipendenza tra l’oggetto dell’opposizione di terzo e quello del processo deciso in primo grado con la sentenza appellata che unicamente può giustificare una sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c.. Si rinvia, sul punto, alle puntuali e precise spiegazioni offerte dal Tribunale, non inficiate dalle critiche formulate con le impugnazioni e dalle quali, pertanto, il Collegio ritiene di non doversi discostare.

16. – Con altra lagnanza si sostiene che il Comune di Acireale fosse privo di qualunque interesse alla coltivazione dell’articolata impugnativa promossa in prime cure per aver sostanzialmente concorso agli atti di approvazione dell’accordo, avendo espresso il proprio voto favorevole nella seduta d’assemblea del 30 dicembre 2006. Al di là di ogni altra considerazione circa la prova di tale partecipazione all’accordo, è dirimente osservare che la nullità di un accordo amministrativo può essere dedotta anche dai paciscenti, come prevede l’art. 1421 c.c., norma che, in quanto espressione di un principio generale nella materia dei contratti (v. l’art. 11, comma 2, della L. n. 241/1990) si applica pacificamente anche agli accordi amministrativi.

17. – Nemmeno ha pregio la censura volta a far valere un preteso error in procedendo consistito nella mancata concessione di un rinvio per consentire la proposizione di un ricorso incidentale a fronte della notifica dei terzi motivi aggiunti. Ed invero, il T.A.R. ha comunque esaminato il ricorso incidentale proposto e lo ha rettamente dichiarato inammissibile perché non sorretto da alcun interesse (per le ragioni indicate nella motivazione della sentenza appellata). La correttezza in parte qua della pronuncia impugnata, non scalfita dalle contrarie deduzioni svolte dalle appellanti in secondo grado, supera e assorbe le questioni processuali sottoposte al vaglio del Collegio, giacché anche l’annullamento di una sentenza per una ragione che, a questo punto, risulterebbe meramente formale, collide con i su richiamati principi in materia di buon andamento dell’amministrazione della giustizia.

18. – Nel merito non può essere accolta, stante quanto sopra considerato (v. il precedente Par. 11), la tesi secondo cui alla fattispecie non sarebbe applicabile l’art. 1974 c.c. (in cui si prevede l’annullabilità di una transazione fatta su una lite già decisa con sentenza passata in giudicato) poiché le parti erano pienamente consapevoli dell’esistenza del giudicato. In effetti, non si può dubitare di tale consapevolezza, dal momento che la causa (illecita) dell’accordo, come sopra rilevato, è proprio quella di aggirare il vincolo del giudicato. In ogni caso la giurisprudenza civile ha chiarito che, onde poter considerare validamente conclusa una transazione, è necessario, da un lato, che essa abbia ad oggetto una res dubia, e cioè che cada sopra un rapporto giuridico avente, almeno nell’opinione delle parti, carattere d’incertezza e, dall’altro lato, che, nell’intento di far cessare la situazione di dubbio venutasi a creare tra loro, i contraenti si facciano delle concessioni reciproche. Tale situazione di incertezza, però, non può ritenersi sussistente quando la contesa delle parti sia stata risolta da una sentenza passata in giudicato (tra le altre, Cass. civ., sez. lavoro, 18.11.1997, n. 11471).

Nella prospettiva qualificatoria dell’accordo in questione nemmeno rileva la circostanza che, nel punto 6 della citata decisione di questo Consiglio n. 555/2010 (in tema di opposizione di terzo), il predetto accordo sia stato definito come transattivo, perché l’indagine sulla natura di detto negozio non costituì l’oggetto precipuo di quel giudizio e, soprattutto, perché le considerazioni svolte dal Consiglio nel suddetto punto 6 devono considerarsi, a tutti gli effetti, un non vincolante obiter dictum, poiché relative alla valutazione della possibile improcedibilità di un ricorso che tuttavia il Consiglio ha ritenuto inammissibile (in questo senso sono infatti la motivazione e il dispositivo della sunnominata decisione n. 555/2010).

19. – Fallace è l’argomento secondo cui l’accordo del 30 dicembre 2006 avrebbe avuto unicamente ad oggetto la rinuncia, da parte dei comuni del Calatino, all’azione di ottemperanza e comunque avrebbe investito diritti disponibili (in particolare, risarcitori) delle parti.

Tale difesa poggia su una parziale considerazione degli effetti dell’annullamento giurisdizionale di un provvedimento che, come sopra esposto, non sono riducibili al mero effetto ripristinatorio (al quale potrebbe in effetti attagliarsi l’argomento speso dalle appellanti). L’eliminazione di un provvedimento dal mondo giuridico, una volta passata in giudicato la sentenza di annullamento, costituisce un fatto, direttamente conseguente all’effetto caducatorio, sicuramente non disponibile dalle parti (le quali, per l’appunto, possono disporre solo delle situazioni giuridiche che trovino titolo e causa in un atto amministrativo esistente ed efficace). Analogamente alle parti è preclusa, per carenza del relativo oggetto, la possibilità di disporre di situazioni giuridiche soggettive che debbano ritenersi ab imis, retroattivamente ed automaticamente, travolte per effetto della rimozione del provvedimento costituente la fonte e il titolo delle stesse posizioni. L’effetto caducatorio, che si impone alle parti in causa e, talora, erga omnes, è poi strettamente embricato a quello conformativo che vincola invece le sole parti pubbliche, soggettivamente o oggettivamente intese. Non occorre pertanto immorare sul punto, essendo sufficiente rinviare ai rilievi già svolti circa la necessaria correlazione tra il potere di riedizione dell’amministrazione, a seguito dell’intervento di un giudicato di annullamento, e il vincolo conformativo su di essa gravante, quantomeno nei limiti del divieto di non riprodurre o di conservare – anche attraverso atti, provvedimenti o accordi amministrativi che presuppongano l’inesistenza o il travisamento del contenuto del decisum – le medesime illegittimità stigmatizzate in via definitiva dal giudice amministrativo.

In questo nitido quadro di principi l’insistente richiamo delle appellanti all’interesse pubblico (individuato nella esigenza di scongiurare il rischio di perdere ingenti finanziamenti comunitari) che avrebbe ispirato l’accordo in contestazione è privo di pregio, posto che l’interesse pubblico deve essere perseguito dalle amministrazioni, ma pur sempre nel rispetto dei pronunciati giurisdizionali, pena altrimenti la violazione del fondamentale canone di legalità che permea e plasma l’intero diritto amministrativo, interno e sovranazionale. Icasticamente può affermarsi che l’interesse pubblico, qualora si collochi al di fuori della cornice della legalità (legalità che, nel nostro modello di Stato di diritto, implica la soggezione dell’amministrazione alla giurisdizione), non è meritevole di alcuna tutela giudiziaria, risolvendosi in arbitrio.

Conclusivamente il Collegio ritiene che le amministrazioni pubbliche le quali parteciparono all’accordo in contestazione, invece di tentare in tal modo di protrarre surrettiziamente l’affidamento del servizio idrico integrato, avrebbero dovuto agire in coerenza con l’avvenuta eliminazione retroattiva a monte, per effetto del giudicato amministrativo, di tutti gli atti prodromici alla procedura di selezione del socio privato e, in corretta ottemperanza della decisione n. 589/2006, avrebbero dovuto provvedere a rimuovere, in via amministrativa o giurisdizionale (avanti al giudice ordinario), gli atti negoziali "a valle", già automaticamente cadutati. Del resto, che quella appena descritta fosse l’unica soluzione legittimamente percorribile risulta dimostrato anche dalla successiva deliberazione dell’Assemblea del Consorzio n. 8 del 2010, con la quale si è preso atto sia della nullità dell’accordo del 30 dicembre 2006 sia della caducazione automatica, per effetto della pronuncia di questo Consiglio n. 589/2006, di tutti gli atti, inclusi quelli negoziali, posti in essere a valle dei provvedimenti annullati in sede giurisdizionale. 20. – Del tutto inconferenti sono poi le deduzioni in ordine alle sopravvenienze normative (art. 15 del D.L. n. 135 del 25 settembre 2009) e giurisprudenziali (Corte di Giustizia dell’Unione europea, 15 ottobre 2009, in causa C-196/08), giacché posteriori alla formazione del giudicato sulla decisione n. 589/2006.

Nemmeno occorre poi addentrarsi nella complessa valutazione della ipotetica possibilità di "disapplicare" il giudicato formatosi sulla decisione n. 589/2006 (come, in astratto, consentirebbe il diritto dell’Unione, secondo i noti principi enunciati dalla Corte di Giustizia nella sentenza 18 luglio 2007, in causa C-119/05, caso "Lucchini", in materia di recupero di aiuti di Stato).

E’ vero che il Giudice europeo ha affermato che il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione dell’ordinamento nazionale volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata nei casi in cui l’applicazione di detta norma condurrebbe alla conservazione di un aiuto di Stato la cui incompatibilità con il mercato comune sia stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva, ma – anche a voler generalizzare il principio in questione – è del tutto evidente come nella vicenda in esame non sussista alcun contrasto tra il diritto interno e l’ordinamento sovranazionale.

Un conflitto del genere è difatti ravvisabile unicamente nei casi in cui la regola ritraibile dal giudicato interno dia luogo ad una situazione di incompatibilità tra l’assetto di interessi definito con il giudizio nazionale e il diritto dell’Unione, ossia ogniqualvolta il decisum dei giudici di un singolo Stato membro consenta di perpetuare una situazione di contrasto con i principi europei.

Non è questa tuttavia la fattispecie devoluta alla cognizione del Collegio, giacché con la decisione n. 589/2006 non si è mantenuto un affidamento di un servizio pubblico in contrasto con il diritto dell’Unione, ma si sono solamente annullati gli atti di una procedura di gara che, all’epoca del giudizio, non era chiaramente in linea con il diritto interno e sovranazionale. L’esito eliminatorio (e non conservativo) della decisione n. 589/2006 rimane, pertanto, in tutto disciplinato dall’art. 2909 c.c.

21. – Alla stregua di tutto quanto sopra considerato e osservato, il Collegio ritiene di poter assorbire ogni altro motivo o eccezione, ivi incluse le ulteriori questioni assorbite in primo grado e riproposte in appello, in quanto ininfluenti e irrilevanti ai fini della presente decisione.

22. – Il regolamento delle spese processuali del secondo grado del giudizio, liquidate come da dispositivo, segue la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, riuniti i ricorsi emarginati,

1) respinge in via provvisoria le istanze di ricusazione, fatti salvi gli effetti di cui all’art. 18, comma 8, del codice del processo amministrativo;

2) respinge gli appelli.

Condanna le appellanti, in solido, alla rifusione, in favore del Comune di Acireale, delle spese processuali del secondo grado del giudizio, liquidate in Euro 4.000,00 (quattromila/00) a carico di ciascuna soccombente per complessivi Euro 8.000,00 (ottomila/00).

Dispone che la presente sentenza sia comunicata al Presidente della Regione siciliana per quanto di competenza. Ordina che la decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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