Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 01-06-2011) 21-07-2011, n. 29262

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza 16.2.2011, il tribunale del riesame di Napoli ha annullato l’ordinanza 13.11.2011, applicativa della misura cautelare della custodia in carcere a G.S., di cui all’ordinanza 13.1. 2011 dei Gip del tribunale di Napoli, emessa in ordine al reato ex art. 416 bis, per partecipazione all’associazione camorristica denominata clan Mallardo; in ordine a 18 reati D.L. n. 306 del 1992, ex art. 12 quinquies, in relazione all’intestazione di beni mobili e immobili a prestanomi; in ordine al reato ex art. 374 bis c.p., aggravato L. n. 203 del 1991, ex art. 7, in relazione alla presentazione di un falso atto di donazione depositato in allegato ad un atto di appello avverso una sentenza di condanna per il delitto di corruzione.

Il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Napoli ha presentato ricorso per violazione di legge e vizio di motivazione.

Quanto al reato ex art. 416 bis c.p., il ricorrente rileva che il tribunale ha ingiustificatamente negato valenza indiziaria alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sostenendo che: sono de relato in quanto provengono da soggetti esterni all’associazione criminosa suindicata, che hanno quindi appreso da altre fonti i fatti narrati; attengono a periodi diversi e non sono coincidenti e sovrapponibili;

l’attendibilità intrinseca dei collaboratori – ad eccezione di V.G. – non è verificabile, per mancanza degli elementi sufficienti; non sono dotate di riscontri.

Al di là delle specifiche contestazioni avverso queste valutazioni del tribunale del riesame, il ricorrente, in via di fondamentale premessa, critica come erronea l’impostazione dell’analisi contenuta nell’ordinanza impugnata, laddove afferma che "la gravità degli indizi viene affermata essenzialmente sulla sola base delle dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia, V.G. e I.S.." (anche se poi da atto di dichiarazioni di altri tre collaboratori, depositate successivamente).

Secondo il ricorrente, questa analisi trascura il reale impianto accusatorio costruito con le indagini, le quali sono costituite, nella fase iniziale, dalle accuse dei due collaboratori di giustizia, V. del clan dei Casalesi, e I., del clan Nuvoletta, ma poi si sono sviluppate in indagini patrimoniali che hanno dato decisiva conferma al complessivo quadro accusatorio. Queste argomentazioni sono pienamente condivisibili.

Va rilevato che nella medesima premessa, il tribunale afferma che gli accertamenti patrimoniali invece sono stati sviluppati solo per giustificare l’applicazione del sequestro preventivo. Questa impermeabilità, questa incomunicabilità degli indizi attinenti agli aspetti patrimoniali rispetto agli altri, concernenti la dimostrazione del reato di partecipazione dell’indagato all’associazione camorristica denominata clan Mallardo, sono contraddette e smentite dall’ ineludibile e inscindibile collegamento e reciproco condizionamento di tutti i risultati delle indagini, sia pure svolte sui diversi piani dell’accusa. Questo naturale e indissolubile intreccio dei risultati delle indagini-annunciato nell’imputazione formulata dall’organo dell’accusa- è confermato e fatto proprio dall’ordinanza del Gip, che descrive un’attività partecipativa, ex art. 416 bis c.p., fondamentalmente consistente in attività imprenditoriali (compravendita immobiliare, gestione di imprese della ristorazione, speculazioni finanziari) dimostrabili solo dando il fondamentale rilievo ad accertamenti economici e patrimoniali.

G. viene infatti conclusivamente descritto nel capo sub A come "dedito allo sviluppo delle attività imprenditoriali necessarie per investimenti del sodalizio e per il reimpiego di provviste illecite, soprattutto nel settore commerciale e della ristorazione, in guisa da consentire alla stessa organizzazione criminale di trarre ingenti profitti da tali attività economiche".

Questo mestiere di imprenditore nero, all’interno e al servizio di un’associazione criminale non può non dirsi dimostrato dai risultati delle indagini patrimoniali che hanno accertato un’area di ricchezza del tutto ingiustificata, riversata nel settore immobiliare, imprenditoriale e finanziario. Queste indagini e questi accertamenti hanno infatti consentito di conoscere una ricchezza, compattamente senza fonti e senza origini di alcun tipo, che si articola in 57 quote di unità immobiliari; 32 quote societarie; 109 disponibilità finanziarie in numerosi istituti di credito.

Tutto ciò già è sufficiente, unitamente all’intestazione a amici e parenti originariamente e autonomamente non abbienti, per dar vita al complesso di indizi rilevanti ex art. 273 c.p.p., in ordine al reato di riciclaggio di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies.

La dimensione anomala di questa ricchezza, alla luce di indiscutibili rapporti con l’ambiente criminale camorristico così come denunciato dai collaboratori di giustizia, in assenza di profili storici di smentita, ha inoltre la forza dimostrativa della probabile responsabilità del G. quale preposto "allo sviluppo delle attività imprenditoriali necessarie per investimenti del sodalizio e per il reimpiego di provviste illecite".

La dimensione criminale, ex art. 416 bis c.p., di questa vastissima ricchezza dell’indagato non può essere ignorata ed è impossibile negarle, in unione con il reticolo di propalazioni dei collaboratori, la qualità di base indiziaria, avente una solida e incontrovertibile forza dimostrativa della fondatezza dell’accusa formulata nei suoi confronti.

Le carenze delle chiamate in reità denunciate dal tribunale perdono decisiva rilevanza, nella misura in cui alle dichiarazioni accusatorie siano riconosciute una funzione di spunto e una dimensione di frammenti per un complesso e multiforme quadro indiziario.

Il carattere de relato delle dichiarazioni iniziali di V. e I. su fatti esterni alle proprie. associazioni di appartenenza – che hanno costituito input alle presenti indagini – e delle successive dichiarazioni degli altri collaboratori non è stato efficacemente contestato dal ricorrente, che si è limitato a negarlo, senza fornire alcun specifico argomento contrastante, ricavabile dalle risultanze delle indagini.

Non è comunque invocabile – alla luce della pari applicabilità delle regole valutative ex art. 192 c.p.p., commi 3 e 4 anche in sede cautelare, sancita da S.U. n. 36267 del 31.10.2006, rv 234598(in Cass. pen. 2007, p. 46) – l’orientamento interpretativo secondo cui la chiamata in reità de relato non può essere riscontrata da altre dichiarazioni ugualmente indirette, in quanto, a causa della sua credibilità congenitamente carente, ha efficacia dimostrativa solo se sorretta da riscontri estrinseci di oggettivo spessore (sez. 5, n. 37239 del 19.7,2010, rv 248648; conf. sez. 5, n. 43464 del 9.5.2002, rv 223564).

Il quadro indiziario e il suo spessore dimostrativo non investono il G. quale chiamato in reità, ma quale obiettivo e punto di approdo delle indagini che lo descrivono quale responsabile della contabilità e degli investimenti delle risorse del patrimonio di un’associazione camorristica, al fine espanderne il potere nel mercato immobiliare e finanziario, funzionale al suo rafforzamento nel mondo della criminalità. Così modulata la funzione del manager G., si staglia in tutta la fondamentale importanza l’esito delle indagini patrimoniali svolte dalla polizia giudiziaria che escludono nettamente una primaria valenza dimostrativa delle convergenti dichiarazioni dei collaboratori, portandola al più corretto elemento indiziario, che conferisce e riceve forza dimostrativa, in un complessivo apparato accusatorio, formato parimenti da dichiarazioni e da oggettiva documentazione patrimoniale.

Si configura quindi la carenza motivazionale dell’ordinanza impugnata che, in maniera del tutto ingiustificata, sul piano logico e sul piano dell’adeguato esame delle risultanze processuali, non da rilievo agli accertamenti economici, nonostante l’indiscutibile dimensione economico-imprenditoriale attribuita e dimostrata dall’accusa alla partecipazione del G. nell’associazione camorristica Mallardo.

L’esclusione di rilievo ai fini del provvedimento di coercizione personale, e la sua limitazione ai soli fini della misura coercitiva reale, sono in piena contraddizione con le risultanze processuali.

Ne consegue anche la piena fondatezza dell’accusa per il reato D.L. 8 giugno 1992, n. 306, ex art. 12 quinquies. Le indagini hanno dimostrato in maniera certa l’attribuzione fittizia, operata dall’indagato, della vastissima area di beni mobili e immobili a componenti della sua famiglia e a persone comunque a lui legate, dando luogo alla dolosa determinazione della situazione di apparenza giuridica e formale della titolarità e disponibilità dei beni, così ben ricostruite dalla polizia giudiziaria.

La prospettata esigenza – indicata dal tribunale – di approfondire e completare la ricostruzione del percorso mafioso di questi beni potrà conferire certezza e non solo l’attuale alla probabilità di colpevolezza del G., in ordine al reato associativo, che legittima la misura cautelare. Quanto al reato ex art. 374 bis c.p., si rileva che il tribunale ha negato natura di atto pubblico alla donazione simulata, in quanto questo faceva fede della consegna degli assegni, ma non del fatto che sarebbero stati incassati; ha negato inoltre che un atto compiuto nel 2004 fosse destinato alla produzione, cinque anni dopo, in un processo penale. Appaiono fondate le censure proposte dal ricorrente.

Va premesso che appare convincente la tesi secondo cui è stata simulato dinanzi al notaio un trasferimento di risorse – rappresentate dai titoli di credito – da un soggetto a un altro. Il notaio ha quindi attestato questa falsa donazione, conferendo ad essa la natura di atto pubblico,anche se aveva ad oggetto titoli destinati a non essere incassati. Dalla falsità dell’esistenza della provvista discende la falsità di quanto compiuto dinanzi al notaio.

Va inoltre rilevato che questo atto falso ha avuto sin dalla sua nascita la naturale destinazione al suo impiego in sede giudiziaria, sia pure non diretta in maniera esclusiva verso uno specifico e predeterminato obiettivo fraudolento.

Alla luce della fondatezza delle argomentazioni critiche formulate nell’impugnazione, l’ordinanza va annullata con rinvio al tribunale di Napoli per nuovo esame.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al tribunale di Napoli per nuovo esame.

Così deciso in Roma, il 1 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2011

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