Cons. Giust. Amm. Sic., Sent., 28-07-2011, n. 508 Procedimento e punizioni disciplinari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il signor Fr.Co., che prestava servizio alle dipendenze del Comune di San Piero Patti con la qualifica di capo dipartimento dell’Ufficio comunale, era condannato con sentenza della Corte di appello di Catania n. 3990 dell’8 novembre 1990 alla pena di anni tre e mesi dieci di reclusione, nonché all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. In conseguenza della condanna, il Sindaco, con provvedimento n. 6077 del 7 aprile 1992 dichiarava la destituzione del Co. dal rapporto d’impiego "ai sensi del combinato disposto dell’art. 1, commi 4 quinquies e octies, della legge n. 16 del 1992 e dell’art. 85, lett. b), del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3".

Tale provvedimento era confermato dalla Giunta municipale con deliberazione n. 218 dell’8 aprile 1992.

Con deliberazione n. 163 del 9 gennaio 2002, la Corte d’appello di Catania, rilevato che l’interdizione perpetua dai pubblici per il reato contestato era stata introdotta con la legge n. 86/1990, successiva all’epoca di consumazione dei fatti addebitati al Co., in applicazione dell’art. 29 c.p., commutava in temporanea l’interdizione dai pubblici uffici.

Con successiva deliberazione n. 340 del 13 marzo 2002, la Corte d’appello di Catania, in applicazione del D.P.R. n. 394 del 22 dicembre 1990, condonava la pena residua precedentemente comminata al Co..

La pena accessoria era integralmente condonata dalla Corte d’appello di Catania con deliberazione n. 36 del 6 maggio 2002, in applicazione dell’art. 2 del D.P.R. n. 394 del 1990. Con ricorso depositato il 23 ottobre 2002, il Co. adiva il Tribunale di Patti, Sez. Lavoro, chiedendo la reintegrazione nell’impiego alle dipendenze del Comune.

Con sentenza n. 1597 dell’8-14 ottobre 2003, il giudice adito dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice ordinario.

Dopo l’appello alla Corte d’appello di Messina, rigettato con sentenza 24 settembre 2004, il Co. proponeva ricorso in Cassazione, che era rigettato dalle Sezioni unite con la sentenza n. 8525 del 25 aprile 2007.

Il Co. proponeva, quindi, ricorso al T.A.R. per la Sicilia, Sezione staccata di Catania.

Con sentenza n. 121 del 19 gennaio 2009, il T.A.R. respingeva il ricorso.

La sentenza è stata appellata dal ricorrente.

Resiste all’appello il Comune di San Piero Patti, il quale ha altresì proposto appello incidentale nel quale ha sostenuto che nel caso di specie non ricorrevano le condizioni per la concessione del beneficio della rimessione in termini.

Alla pubblica udienza del 12 gennaio 2011, il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Motivi della decisione

1) Con il primo motivo d’appello, il Co., dopo avere richiesto la rimessione in termini per errore scusabile, ha contestato il capo della sentenza con il quale il Tribunale ha ritenuto esente da vizi il provvedimento impugnato nella parte in cui fissa la decorrenza della decadenza al 31 gennaio 1991, stante la sua immotivata efficacia retroattiva.

Riguardo al passaggio in giudicato della sentenza di condanna pronunciata a carico del ricorrente, tale momento, a suo avviso, coincide con la data del 17 marzo 1992 e, più precisamente dalla deliberazione n. 163/01 del 9 gennaio 2002, con la quale la Corte d’appello di Catania commutava in temporanea l’interdizione e dalla deliberazione n. 36/02 del 6 maggio 2002, con la quale la pena interdittiva era integralmente condonata, in entrambi le quali si legge "vista la sentenza di questa Corte in data 8.11.1990, irrevocabile il 17.3.1992, con la quale Co.Fr. – S. Piero Patti – veniva condannato …".

Analogamente alla decisione assunta dal giudice di prime cure, il Collegio ritiene di prescindere dalla questione processuale concernente l’istanza di riammissione in termini. Ciò posto, il motivo di appello in esame è infondato, perché, come risulta dagli atti di causa (cfr. attestato del 20 marzo 1992 del Cancelliere del Casellario giudiziale di Catania) la sentenza di condanna dell’appellante è diventata irrevocabile il 31 gennaio 1992.

2) Con il secondo motivo d’appello, il Co. critica la sentenza del T.A.R. laddove ha esaminato la questione relativa alla normativa siciliana in tema di dipendenti degli enti locali.

Il Co. ripropone, pertanto, la questione dell’inapplicabilità al caso di specie delle disposizioni legislative richiamate nel provvedimento di decadenza sotto due distinti profili: da un lato, perché interferenti con la competenza legislativa esclusiva in materia di enti locali attribuita alla Regione siciliana e, dall’altro, perché, comunque, non più in vigore, stante l’incostituzionalità delle stesse.

E invero, con riferimento al primo aspetto, l’appellante ribadisce che, ai sensi dell’art. 14, lett. o) dello Statuto regionale, rientra nella potestà legislativa esclusiva della Regione Sicilia la materia relativa al regime degli enti locali e delle relative circoscrizioni, con la conseguenza che la legge n. 16/1992 (recante norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali) – il cui art. 1 era espressamente richiamato nel provvedimento di decadenza – non poteva trovare applicazione, essendo la prima materia comprensiva della seconda.

In sostanza, avendo il legislatore siciliano disciplinato con propria legge la materia degli impiegati dei comuni, con rinvio in parte al testo unico sugli impiegati civili dello Stato, la legge n. 16/1992, art. 1, commi 4 quinquies e octies, non era applicabile.

Con riferimento al secondo, profilo, ovverosia all’incostituzionalità delle disposizioni legislative in applicazione delle quali era stato adottato il provvedimento di destituzione dall’impiego, l’appellante ribadisce che l’art. 85, lett. b), del T.U. n. 3/1957, ai sensi del quale l’impiegato incorre nella destituzione di diritto dall’incarico qualora riporti una condanna penale passata in giudicato comportante l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, trovava ingresso nell’ordinamento regionale in forza dell’art. 236 dell’Ordinamento degli enti locali, il quale a sua volta, stabiliva che "sono estese ai dipendenti comunali e provinciali le disposizioni circa le dimissioni d’ufficio e la destituzione in seguito a condanna dei dipendenti civili dello Stato".

Tuttavia, ad avviso dell’appellante, quest’ultima disposizione, all’epoca in cui il Sindaco adottava il provvedimento in questione non era più vigente in quanto dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Consulta con sentenza n. 971 del 12 ottobre 1988.

In ogni caso, l’art. 9 della legge n. 19 del 1990 avrebbe provveduto ad abrogare ogni disposizione di legge che prevedeva la destituzione di diritto a seguito di condanna penale, anziché il previo svolgimento del procedimento disciplinare. Il motivo di appello è infondato in relazione ad entrambi gli aspetti trattati.

Quanto al primo aspetto, è ineccepibile la considerazione del giudice di prime cure che "la Regione siciliana vanta potestà legislativa esclusiva sull’ordinamento di comuni e province, ma non sul regime giuridico del relativo personale, al quale si applica sicuramente la legge n. 16/1992".

Altrettanto ineccepibile è, con riferimento al secondo aspetto, l’affermazione, sempre del giudice di prime cure, che la pronuncia di incostituzionalità ha riguardato "esclusivamente il disposto della lett. a) dell’art. 85 T.U. n. 3/1957 e non anche il disposto di cui alla lett. b) richiamato nel provvedimento sindacale del 1992".

Secondo un pacifico e consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, richiamato recentemente dalla Sezione lavoro della Corte di Cassazione (sentenze n. 3698 del 17.2.2010 e n. 16153 del 9.7.2009), l’applicabilità della disciplina di cui alla L. n. 19 del 1990, artt. 9 e 10 – che prevedono il previo procedimento disciplinare in ogni caso, escludendo l’applicabilità di sanzioni espulsive dal pubblico impiego in via automatica – non è possibile nei casi in cui la perdita dell’impiego consegua come effetto automatico di una sanzione penale accessoria, senza la necessità di un procedimento disciplinare (cfr., in particolare, C.d.S., Sez. V, 23 aprile 1998, n. 468 e, più di recente, 21.6.2007, n. 3324).

Siffatto indirizzo ha trovato conferma nella sentenza della Corte Costituzionale n. 286 del 1999, con la quale è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 29 c.p., comma 1, nella parte in cui statuisce che la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni importa l’interdizione perpetua dal condannato dai pubblici uffici. Secondo il giudice a quo dalla pena accessoria non poteva scaturire l’automatismo della rimozione, dovendosi comunque affermare l’ineludibilità dell’interposizione del giudizio disciplinare, ma la Corte ha ritenuto che "l’affermazione del principio della necessità del procedimento disciplinare, in luogo della destituzione di diritto dei pubblici dipendenti, non concerne le pene accessorie di carattere interdittivo, in genere, né l’interdizione dai pubblici uffici, in particolare", in quanto "la risoluzione del rapporto d’impiego costituisce, in questo caso, soltanto un effetto indiretto della pena accessoria comminata in perpetuo".

Osservazioni analoghe si rinvengono, da ultimo, nella sentenza della Corte costituzionale n. 16153 del 9 luglio 2009.

3) Infine, l’appellante ripropone la censura secondo cui la delibera di Giunta, successiva al provvedimento sindacale di decadenza, non sarebbe stata ritualmente approvata dall’organo di controllo allora esistente (commissione provinciale di controllo).

In particolare, ad avviso dell’appellante, la deliberazione adottata dalla Giunta municipale non è mai divenuta efficace ed esecutiva, difettando la prova dell’avvenuto controllo di legittimità da parte dell’organo competente. Il motivo di appello è infondato.

La circostanza che l’organo di controllo si sia limitato nel 21° giorno dopo la spedizione dell’atto ad una mera presa d’atto non inficia la legittimità dell’atto stesso, posto che i provvedimenti soggetti a controllo divenivano efficaci per il solo fatto che non era intervenuta una pronuncia di annullamento.

In sostanza, la distinzione posta dalla difesa dell’appellante tra spedizione e ricezione dell’atto è assolutamente irrilevante, senza contare che la "presa d’atto" è, comunque, una pronuncia diretta a indicare l’assenza di rilievi sulla deliberazione soggetta a controllo.

4) In conclusione, per le suesposte considerazioni, l’appello va respinto, mentre l’appello incidentale va dichiarato improcedibile.

Ritiene altresì il Collegio che ogni altro motivo od eccezione di rito e di merito possa essere assorbito in quanto ininfluente ed irrilevante ai fini della presente decisione.

Circa la spese e gli altri oneri del giudizio, si ravvisano giusti motivi per compensarli tra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando, respinge l’appello principale e dichiara improcedibile l’appello incidentale.

Compensa tra le parti le spese, le competenze e gli onorari del giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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