Cass. civ. Sez. II, Sent., 14-12-2011, n. 26829 Responsabilità aggravata

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

All’esito del doppio grado di un giudizio introdotto nel 1989 da B.G. per la convalida di un sequestro conservativo (dell’importo di L. 200 milioni) eseguito a carico di L.C. E., e per il merito (avente ad oggetto la risoluzione di un contratto preliminare e la restituzione di L. 150 milioni, oltre al risarcimento dei danni), la Corte d’appello dell’Aquila, adita in via principale dal L.C. e in via incidentale dal B., confermava le statuizioni della sentenza emessa dal Tribunale di Sulmona, ossia il rigetto della domanda di merito e la reiezione della richiesta condanna del B. al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c..

Per quanto ancora rileva in questa sede di legittimità, la Corte d’appello osservava che quand’anche si fosse ipotizzato il difetto di normale prudenza da parte del B. nel chiedere la misura cautelare, non vi sarebbe stata prova in ordine ai danni lamentati e al nesso di causalità fra gli stessi e il sequestro conservativo eseguito. Anche la liquidazione in via equitativa dei danni, rilevava la Corte territoriale, presupponeva la dimostrazione dell’an debeatur, mentre nella specie nulla era stato provato in ordine alle diminuite facoltà connesse alla proprietà dell’immobile assoggettato al sequestro, e riguardo all’esclusione del L.C. dalla carica di amministratore unico della Ceic s.r.l., in quanto il verbale di assemblea di quest’ultima società in data 13.7.1989 sembrava ricollegare l’evento ad una valutazione di opportunità e non di necessità cogente.

Per la cassazione di quest’ultima sentenza ricorre L.C.E., che si affida a due motivi.

L’intimato non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

1. – Col primo motivo è dedotta la violazione e/o erronea applicazione degli artt. 88 e 96 c.p.c. e dell’art. 2043 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Premesso che la sentenza impugnata ha ritenuto che E.L.C. nulla avesse provato in merito alla verificazione dei danni lamentati e al nesso di causalità tra questi e la misura cautelare chiesta ed eseguita da B.G., parte ricorrente sostiene che in forza dell’ordinario nesso di causalità si deve ritenere che la causa del danno si debba ascrivere alla condotta colposa del B., il quale ha chiesto, ottenuto e posto in esecuzione un sequestro conservativo sulle quote possedute dal L.C. nella società Ceic s.r.l., di cui questi era socio ed amministratore. La sentenza impugnata violerebbe, pertanto, l’art. 2043 c.c. e l’art. 96 c.p.c., che costituisce un’applicazione dell’art. 88 c.p.c..

La giurisprudenza della S.C., prosegue il ricorrente, afferma che l’ingiustizia del danno, ai sensi dell’art. 2043 c.c., può aver riguardo ad una combinazione della teoria della condicio sine qua non con la teoria della causalità adeguata.

Nella specie, al B. era noto che il L.C. rivestiva la carica di amministratore della Ceic s.r.l., per cui ben poteva prevedere quali fossero le implicazioni del sequestro conservativo della quota di lui nella società; nè si può negare che la perdita della carica di amministratore sia avvenuta a causa della ridetta misura cautelare, esistendone espresso riferimento nel medesimo verbale del 13.7.1989, di pochi mesi successivo all’esecuzione del sequestro.

Quanto ai danni conseguiti al sequestro conservativo dell’immobile, casa d’abitazione del L.C., i giudici d’appello avrebbero potuto attingere al fatto notorio, che li avrebbe guidati ad affermare che di certo si era verificato un danno sotto il profilo del "vincolo alla alienabilità" (così, testualmente) del bene.

1.1. – Il motivo è infondato, perchè non è coerente alla ratio decidendi della sentenza impugnata.

La Corte aquilana, avendo dapprima correttamente individuato nel danno e nel nesso causale tra questo e l’esecuzione della misura cautelare, i themata probanda che gravano sulla parte che chiede il risarcimento per responsabilità aggravata, e poi espresso il proprio convincimento secondo cui, nella specie, tale onere non fosse stato assolto, non ha operato – nè così motivando avrebbe potuto operare – alcun malgoverno delle norme denunciate. Nella sentenza impugnata, infatti, non vi è alcuna affermazione relativa alle regole che presiedono al nesso causale, o al significato da attribuire alla nozione di ingiustizia del danno contenuta nella Generalklausel dell’art. 2043 c.c., o all’utilizzabilità o meno del "notorio" (rectius, delle nozioni di comune esperienza) nel valutare il fatto.

La sentenza impugnata si è limitata a registrare l’assenza di prove idonee a fondare la domanda; con la duplice conseguenza che tale affermazione non può essere censurata in relazione al motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 e che la censura in esame elude il senso, tutt’altro che ermetico, della decisione.

2. – Con il secondo motivo è dedotta, in rapporto all’art. 360 c.p.c., n. 5 l’omessa o quanto meno insufficiente motivazione in ordine al punto decisivo della controversia costituito dalla causa dell’allontanamento del L.C. dalla carica di amministratore della società Ceic s.r.l..

Sostiene parte ricorrente che, al contrario di quanto ritenuto dalla Corte d’appello, la decisione della predetta società di allontanare il L.C. dalla carica di amministratore era dettata da esigenze ben cogenti, come quella di evitare che questi, esposto personalmente per le operazioni della società nei rapporti con le banche, fosse a sua volta esecutato proprio a motivo della quota di capitale sociale posseduta. E’ chiaro, conclude parte ricorrente, che la Corte d’appello, se avesse considerato proprio la circostanza che il L. C. era esposto personalmente per tali operazioni, avrebbe dovuto convenire che il sequestro, rappresentando una privazione della disponibilità della quota e un indice della stessa insolvenza dell’amministratore, è stato la causa della diminuzione patrimoniale subita da lui per effetto della ridetta misura cautelare.

2.1. – Anche tale motivo è infondato.

Com’è noto, il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico- formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (v. per tutte e tra le più recenti, Cass. n. 6288/11); e il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti (Cass. n. 1754/07).

Nel caso di specie, i giudici di secondo grado hanno ritenuto che l’esclusione del L.C. dalla carica di amministratore fosse dipesa, stando al contenuto del verbale d’assemblea del 13.7.1989, da "una valutazione di opportunità e non di necessità cogente". Per quanto, sintetica, tale motivazione appare sufficiente e logica ove rapportata al contenuto del ridetto verbale, lì dove in esso si afferma (come si legge nel ricorso) che, pur essendo l’iniziativa del B. palesemente strumentale ed infondata, la sostituzione dell’amministratore si rendeva necessaria per evitare alla società ogni rischio di intralci all’operatività della stessa. Non vi è, dunque, discrasia logica tra il fatto accertato e la sua valutazione, e tanto basta ad escludere il vizio motivazionale dedotto.

3. – In conclusione il ricorso è infondato e va respinto.

4. – Nulla per le spese, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva in questa sede.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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