Cass. civ. Sez. I, Sent., 15-12-2011, n. 27083

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La società Fiditalia s.p.a ha chiesto al giudice delegato al fallimento della società Santa Barbara s.p.a. l’ammissione allo stato passivo del credito dell’importo di Euro 3.484.462,90, equivalente alla parte di un finanziamento erogato alla società fallita con contratto del 24 dicembre 2003, e non ancora interamente rimborsato. Contestualmente, assumendo d’aver stipulato con la società Santa Barbara, in epoca coeva – il 24.12.2003 e di poco successiva – il 22.3.2004, due atti cessioni prosolvendo dei crediti di cui la debitrice era titolare verso a terzi a garanzia dell’obbligazione di restituzione, ha chiesto l’immediata consegna di ogni documento utile all’esercizio dei crediti ceduti, ed in subordine che, accertato che per effetto della cessione la società Santa Barbara aveva costituito un pegno sui crediti ceduti, quel credito venisse ammesso allo stato passivo col corrispondente rango privilegiato.

Il credito è stato ammesso allo stato passivo nell’importo richiesto in chirografo, e le ulteriori domande sono state invece respinte.

Fiditalia pertanto ha proposto opposizione allo stato passivo innanzi al Tribunale di Roma, chiedendo che le venissero restituiti i documenti afferenti i crediti ceduti, sì da poter esigerne l’adempimento nei confronti degli obbligati, ovvero che, riconosciuto il pegno sui crediti, venisse riconosciuta la relativa prelazione.

Il Tribunale, con decreto n. 18074 depositato il 9 dicembre 2008, ha respinto l’opposizione.

Avverso questo decreto la società Fiditalia ha infine proposto ricorso di fallimento in base a sette mezzi resistiti con controricorso dal curatore fallimentare intimato ed ulteriormente illustrati con memoria difensiva depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

La ricorrente col primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.p.c., per lamentare che il Tribunale non avrebbe desunto la corretta qualificazione dei negozi rappresentati dal dato letterale, avendo erroneamente svalutato il tenore delle espressioni usate nell’intero contesto delle singole clausole dei contratti. Ha escluso infatti a priori il valore del dato letterale sulla base di un solo paragrafo, che neppure ha correttamente interpretato. Il vizio si annida nella prevalenza attribuita al tenore della clausola contenuta nell’art. 1, comma 3, lett. c, dell’atto di cessione del 24.12.2003, il cui vero significato esprime l’intenzione delle parti di dar rilievo agli effettivi contenuti degli accordi, i cui termini e significati risultano precisati nelle ulteriori clausole indicate, che qualificano espressamente il negozio in termini di cessione di crediti pro-solvendo e a scopo di garanzia. Le parti insomma avevano voluto intendere che per comprendere il senso dell’accordo occorresse valutarne il contenuto unitamente al significato dei termini utilizzati.

Il quesito di diritto chiede se ai fini della ricerca della comune intenzione delle parti contraenti il giudice dell’opposizione sia incorso nel denunciato vizio per avere escluso a priori il dato letterale del nomen juris dato alle parti fondandosi su di un solo paragrafo di una clausola contrattuale, omettendo di tener conto del significato delle parole e delle espressioni utilizzate nelle restanti clausole negoziali.

Col secondo motivo la ricorrente denuncia analogo vizio lamentando che il Tribunale non ha desunto l’intenzione delle parti dal complessivo tenore delle clausole esaminate, non attribuendovi il senso ricavabile dalla complessiva articolazione dell’accordo, ma solo da due delle trenta clausole, dal cui testo emergerebbe che le contraenti intesero concludere la cessione dei crediti di cui era titolare la società Santa Barbara. Riproduce il testo delle clausole rilevando che: l’art. 1.3 lett.a) precisa che cessione vuoi dire vendita o trasferimento; l’art. 3, comma 2, subordina il finanziamento alla cessione in garanzia di crediti nonchè la delega ad operare sui c/c postale e bancario della finanziata sui quali confluivano i pagamenti dei si suoi clienti; l’art. 5, comma 2, prevede che i ratei dovuti dalla Santa Barbara; la clausola 12.5 di analogo tenore; l’art. 15, comma 14, par. 3^, prevede che in caso di apertura di procedura concorsuale Fiditalia possa trattenere le somme presenti sui conti sino ad estinzione del debito.

Dal dato letterale e dalla regolamentazione del rapporto emergerebbe dunque che la funzione di garanzia attribuita alla cessione dei crediti risulta espressamente sancita nell’atto – intestazione, lett. C), art. 2, comma 1, artt. 3, 4, art. 5, comma 1, art. 5, comma 2, art. 5, comma 3, 6 punti ii), artt. 8, 9, art. 11, comma 5, allegato 2. A conferma, l’addendum al contratto di finanziamento fa riferimento alle notifiche delle cessioni ai debitori ceduti, che venne effettivamente eseguita a mezzo lettere raccomandate, ed il contratto stipulato nel marzo 2004 ebbe ad oggetto la cessione tra l’altro della titolarità del conto corrente postale. In questo quadro organizzativo, da cui emerge palese la funzione di garanzia attribuita alle cessioni, il c.d. servicing, vale a dire la gestione crediti, rappresentò mera attività accessoria, non prevalente, prevista a scopo di tutela delle ragioni della finanziatrice- cessionaria, che, difatti, si obbligò a ritrasferire i crediti residui in seguito all’estinzione del debito contratto dalla finanziata.

Il quesito di diritto chiede se il giudice di merito ha violato o falsamente applicato gli artt. 1362 e 1363 c.c., non avendo tenuto conto oltre che del significato letterale delle parole usate e delle locuzioni presenti nel complesso impianto contrattuale intercorso, anche della comune intenzione delle parti, e per non aver interpretato le clausole l’una per mezzo delle altre, nè attribuito loro il senso che risulta dall’intero accordo contrattuale, da cui si evince chiaramente che tra le parti intervenne una cessione di crediti in garanzia.

Il terzo motivo reitera la precedente denuncia per censurare la sentenza laddove non avrebbe correttamente valutato il contegno assunto dalle parti nella fase di esecuzione del contratto. In fase di contrattazione vennero predisposti modelli di comunicazione, contenenti il riferimento alla cessione dei crediti in garanzia ed all’obbligo dei debitori ceduti di eseguire i pagamenti in favore di Fiditalia, e di relativa accettazione, cui seguì la notifica a tutti i clienti della Santa Barbara, documentata in atti – nn. 18 e 19 della produzione e dalla lettera del marzo 2004 del Dott. A. per conto di Santa Barbara. Quest’ultima inoltre in sede giudiziaria, difendendosi sia rispetto ad un’istanza cautelare che in sede d’opposizione a decreto ingiuntivo, nei propri atti difensivi riferì di una cessione e non di un mandato all’incasso, come emerge dal testo della relativa memoria difensiva riprodotta. A tutto concedere la cessione è intervenuta in relazione ai crediti per i quali è stata data notifica ai debitori – doc. nn. 18 e 19-. In conclusione, le comunicazioni, così come predisposte nel contenuto, si riferiscono evidentemente alla cessione di credito; la società Santa Barbara vi diede esecuzione e consegnò, seppur in parte, i documenti del suo portafoglio clienti; non accennò mai, seppur in altra sede, al mandato all’incasso; le modalità di retrocessione dei crediti ceduti una volta esaurita la garanzia, rappresentano tutti dati rilevanti, la cui disamina sarebbe stata omessa o quanto meno non adeguatamente valorizzata.

Il conclusivo quesito di diritto chiede se siano state violate le norme in rubrica per non aver il Tribunale tenuto conto anche del comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto.

Col quarto motivo la ricorrente denuncia vizio d’omessa motivazione in relazione all’omesso esame del contenute delle clausole n. 9 dell’atto 24.12.2003 e 8 del contratto del 24 marzo 2004 che prevedevano la retrocessione alla cedente dei crediti ceduti una volta esaurita la funzione di garanzia. Il complessivo assetto negoziale emergente dalle clausole riprodotte-subordinazione del finanziamento alla cessione, notifica della cessione ai debitori, ritrasferimento alla finanziata dei crediti ceduti- palesano il deficit di motivazione denunciato.

La sintesi conclusiva si riferisce all’omesso rilievo delle clausole di cui ai par. 8 e 9 degli atti in discussione, il cui esame avrebbe indotto il giudicante a qualificare l’accordo nei termini predicati di cessione di credito.

Il quinto motivo introduce denuncia di violazione dell’art. 1260 c.c., e, richiamando l’orientamento di legittimità che riconosce la validità della cessione di credito a fine di garanzia- Cass. n. 17162/2002-, censura l’impugnato decreto laddove afferma che l’accoglimento della domanda avrebbe comportato un indebito vantaggio in capo ad essa ricorrente che, soddisfatto il proprio credito da finanziamento in sede concorsuale, diverrebbe titolare dei crediti della fallita.

Formula quesito di diritto con cui chiede se il Tribunale ha violato il disposto dell’art. 260 c.c., che consente d’attribuire funzione di garanzia alla cessione di credito, con conseguente diritto della cessionaria sia d’insinuarsi al passivo per l’intero ammontare del suo credito sia di escutere la garanzia concessa, salvo diminuire poi la parte di credito ammesso corrispondente alle somme ottenute.

Il sesto motivo denuncia ancora vizio di motivazione in ordine alla qualificazione dell’atto, prospettata in via subordinata, di pegno di crediti con conseguente collocazione del credito in privilegio.

Il conclusivo quesito di diritto chiede se il decreto impugnato sia affetto da insufficiente e contraddittoria motivazione rispetto a precedenti affermazioni in ordine al rigetto della domanda subordinata avente ad oggetto l’esistenza del pegno di crediti.

La resistente deduce inammissibilità o comunque infondatezza delle censure osservando che l’esegesi del tenore delle clausole contrattuali che la valutazione del comportamento mantenuto dalle parti contraenti per dare esecuzione ai contratti risultano correttamente condotte e comunque ineriscono a questione di merito.

Il primo motivo è infondato.

Il Tribunale ha rilevato che il contratto controverso si articola in un coacervo di clausole la cui interpretazione, necessariamente complessiva, se basata sul mero dato letterale non risulta esaustiva, sì che occorre riferirsi alla comune intenzione delle parti desumibile anche dal loro comportamento, anche posteriore alla fase genetica. Il nomen juris utilizzato negli atti controversi non è infatti utilmente apprezzabile sia perchè l’espressa previsione dell’art. 1, comma 3, del contratto di cessione del 24.12.2003 esclude l’utilizzabilità a fini esegetici dei titoli di articoli, paragrafi e clausole dell’atto stesso, sia perchè il dato letterale è incompleto e contraddittorio. Il contratto infatti risulta qualificato indistintamente in termini di cessione – art. 2, comma 1, ovvero di cessione in garanzia art. 3, comma 2, in altre parti di mandato in rem propriam – art. 8, comma 1. Il complessivo tenore delle clausole contrattuali esclude pertanto che l’assetto negoziale sia qualificabile nei sensi indicati dall’opponente, e non abbia quindi realizzato l’ipotizzata cessione del portafoglio clienti della società Santa Barbara.

A base della qualificazione giuridica dei contratti controversi, contro cui si indirizza nella sostanza la critica agitata nel motivo in esame, che è operazione ermeneutica logicamente distinta dall’interpretazione della comune volontà delle parti contraenti, il giudicante ha dunque posto la ricostruzione di tale comune intenzione, facendo buon governo delle regole poste a presidio dell’interpretazione dei contratti. E’ evidente che detto organo non si è sottratto alla doverosa interpretazione letterale delle clausole contrattuali che, nella gradualità della gerarchia dei canoni esegetici, assume valore prioritario. Piuttosto ha ritenuto che la lettera delle espressioni usate negli atti controversi, esaminata non già in senso atomistico, ma nel contesto dell’assetto negoziale letto nella sua interezza e ponendo a confronto le locuzioni usate, non avesse un significato univoco, e per l’effetto, non potendo la sua indagine esaurirsi in quell’ambito, ha dato ingresso agli ulteriori criteri esegetici, motivando adeguatamente e logicamente le ragioni sottostanti. E’ pertanto priva di giuridico fondamento la censura che ascrive al giudice del merito d’aver escluso a priori la rilevanza del dato letterale siccome a quel dato, che nel sistema della gerarchia dei canoni ermeneutici ha effettivo rilievo dirimente se si rivela appagante, il giudice del merito, ineccepibilmente applicando le regole di ermeneutica, ha ritenuto di non poter dare assoluta rilevanza. Nel resto il motivo resto espone critica che attiene al merito del risultato di quel percorso esegetico che risulta sorretto da motivazione immune da vizi ed è perciò non sindacabile in questa sede.

Il quesito di diritto, peraltro astrattamente formulato, mira anch’esso ad un riesame della valutazione di merito desunta dalla lettera delle clausole controverse, prospettandone quella in tesi desumibile e maggiormente corretta, ed è perciò inammissibile.

Il secondo e terzo motivo, logicamente connessi e perciò meritevoli di esame congiunto, sono anch’essi infondati. Il decreto impugnato, ricorrendo ai canoni integrativi previsti dagli artt. 1362 e 1363 c.c., ha ritenuto che anche il comportamento complessivo delle parti dimostrasse che era stata loro intenzione concludere un contratto di finanziamento sorretto da un mandato in rem propriam, in forza del quale la Santa Barbara, poi fallita, si era riservata l’esercizio dei diritti afferenti i crediti oggetto degli atti di cessione. Per l’effetto Fiditalia, che le aveva concesso il finanziamento da cui scaturivano i crediti oggetto della domanda d’ammissione allo stato passivo, avrebbe incassato i pagamenti, ma non avrebbe potuto azionare le pretese relative ai crediti non riscossi. Il patto risulta così consacrato nella clausola n. 8 del menzionato contratto di cessione, secondo cui a Fiditalia era riservato l’esercizio di ogni diritto ed attività relativa all’attività, gestione o amministrazione dei finanziamenti da cui derivavano i crediti, ex se incompatibile con la loro acquisita titolarità.

Il mandato assolveva alla funzione accessoria di garanzia del credito discendente dall’accordato finanziamento, e trovava conferma nel successivo contegno mantenuto in particolare da Fiditalia, che non aveva infatti mai incassato direttamente le somme, ma aveva trattenuto quelle riscosse direttamente dalla società cedente.

Esclusa la stessa ipotizzabilità della cessione, in conclusione si trattava di un contratto di finanziamento con accessoria previsione di garanzia sugli incassi della cedente.

I motivi in esame contestano questa ricostruzione.

Esaminate le clausole le une per mezzo delle altre, cioè nella loro interazione, ricercandone logica e giuridica coerenza, il Tribunale ne ha evidentemente ricostruito il tenore nei sensi riferiti, traendone logica e ratio della volontà delle parti contraenti, attribuendo rilievo al complessivo assetto negoziale e senza trascurare la doverosa valutazione del comportamento mantenuto dalle due società in fase d’esecuzione del contratto, secondo corretta applicazione dei canoni integrativi previsti dall’art. 1363 c.c..

La lettera delle dichiarazioni, secondo quanto sancito in materia di ermeneutica contrattuale, deve essere riferita non già alla singola clausola di un contratto, laddove esso come nel caso di specie sia articolato in una pluralità di pattuizioni, ma al raffronto tra parole e frasi in esse utilizzate, rendendo necessaria la verifica del loro logico collegamento, secondo criterio cui il giudice del merito sì è ineccepibilmente attenuto. Il riscontro dell’insufficienza del mero dato letterale desumibile dal tenore della complessiva regolamentazione negoziale, come si è già rilevato, ha peraltro reso necessarie l’indagine e la conseguente valutazione della sua conseguente applicazione pratica ad opera degli stessi contraenti, nella specie ancora una volta correttamente eseguite. La sintesi ricostruttiva si è espressa nella qualificazione giuridica degli atti ora contestata, secondo cui le condizioni pattuite nelle clausole contrattuali attestano la comune volontà di dar luogo non già al trasferimento del portafoglio clienti della società che aveva goduto del finanziamento, ma della sola gestione dei relativi crediti da parte del finanziatore, confermata dai fatti successivi, ed in particolare dal fatto che l’esercizio dei diritti, fatto assolutamente dirimente, sia rimasto in capo alla società Santa Barbara.

La ricorrente in sostanza non confuta la legittimità del percorso ermeneutico condotto dal Tribunale nei sensi riferiti; piuttosto rilegge il contenuto delle clausole, collegandole secondo il senso che ritiene fondatamente loro attribuibile, e rivisita il contegno mantenuto in fase di esecuzione dei contratti per trame elementi di convincimento che avvalorerebbero la correttezza della qualificazione giuridica dei contratti in discussione da essa prospettata. Discutere in questa sede di servicing, vale a dire della mera gestione dei crediti, che, secondo quanto si afferma nei motivi in esame, rappresentava attività accessoria alla cessione, introduce rivisitazione dei fatti, inammissibile in questa sede. Analogamente inammissibile, ma perchè irrilevante, è la verifica dello scopo di garanzia che rappresentava la ragione pratica del complessivo regolamento contrattuale in quanto, seppur il contratto avesse mirato a dare certezza a Fiditalia che le somme accreditate sui conti intestati alla sua debitrice servissero effettivamente per estinguere i ratei del finanziamento, comunque tale causa concreta ben poteva accedere al mandato ad incassare le somme pagate alla mandante dai suoi clienti senza snaturarne affatto l’astratta tipicità.

Il percorso ricostruttivo esposto nel decreto impugnato che, in quanto teso ad accertare la verità storica, rappresenta un accertamento di fatto ineccepibilmente condotto sulla base dei canoni esegetici sanciti negli artt. 1362 e 1363 c.c., sorretto da adeguata motivazione non può essere sindacato in questa sede.

Il quarto motivo è infondato.

Il vizio ivi denunciato si riferisce all’omesso esame delle clausole contrattuali che prevedevano la retrocessione in favore della società pretesa cedente dei crediti residui verso i suoi clienti, che il Tribunale non ha effettivamente preso in considerazione per aver ritenuto valorizzabile la circostanza in relazione alla valutazione del contegno mantenuto dai contraenti nella fase d’esecuzione dei contratti. In tale contesto, il patto in discussione che la stessa ricorrente neppure assume aver avuto effettiva pratica attuazione, sebbene non sia stato esaminato unitamente alle ulteriori clausole che hanno determinato l’assetto negoziale, non rappresenta un fatto decisivo, sì che il deficit di motivazione, dedotto e riscontrato a suo riguardo, non ne invalida la correttezza.

Il quinto motivo è inammissibile.

Assume il Tribunale nel decreto impugnato che l’accoglimento della domanda comporterebbe l’attribuzione alla parte opponente di molto più di quanto la stessa abbia ottenuto dando attuazione ai contratti, consistente nella facilitazione degli incassi e nel rimborso delle rate del finanziamento.

La conclusione rappresenta il logico ineludibile corollario della qualificazione giuridica attribuita ai contratti in termini di mandato all’incasso, che per sua stessa natura esclude il trasferimento dei crediti che ne rappresentano l’oggetto in favore del mandatario.

La censura non coglie questa ratio decidendi ed è perciò inammissibile.

Analoghe considerazioni sottendono la declaratoria d’inammissibilità dell’ultimo motivo.

Suddetta qualificazione giuridica del contratto ha escluso la rilevanza di ogni disquisizione sul pegno di credito, assolutamente inconciliabile con lo schema del mandato.

Per tutte le ragioni illustrate il ricorso deve essere rigettato con condanna della ricorrente al pagamento delle spese della presente fase liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presene giudizio liquidandole in Euro 20.000,00 oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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