Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 15-12-2011, n. 27042 Disoccupazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza 13.4.10 la Corte d’Appello di Reggio Calabria rigettava il gravame proposto da C.G. contro la pronuncia con cui il Tribunale di Palmi ne aveva respinto la domanda intesa ad ottenere la condanna dell’INPS al pagamento della rivalutazione secondo gli indici ISTAT dell’indennità di disoccupazione agricola percepita per gli anni 1986 – 1992.

Mentre il giudice di prime cure aveva respinto la domanda per sopravvenuta carenza di interesse, la Corte territoriale aveva motivato il rigetto del gravame sul rilievo che L’INPS aveva tempestivamente eccepito il pagamento e il C., pur espressamente interpellato, non lo aveva specificamente contestato e, anzichè comparire a rendere l’interrogatorio libero, aveva prodotto una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà con cui affermava di avere ricevuto negli ultimi anni dall’istituto previdenziale le erogazioni relative all’indennità di disoccupazione agricola nonchè altre prestazioni previdenziali cui aveva diritto, specificando di non essere in condizione di affermare con certezza se nel contesto di tali pagamenti l’INPS avesse inserito o meno le somme relative all’adeguamento dell’indennità di disoccupazione per cui è causa, aggiungendo di non avere ricevuto alcuna liquidazione che citasse quale causale l’invocata rivalutazione.

Ne derivava ex art. 1195 c.c., ad avviso dei giudici d’appello, il passaggio della facoltà di imputazione al creditore, facoltà nella specie non efficacemente esercitata perchè a tal fine il C. avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza di crediti già scaduti diversi da quello azionato in giudizio ai quali imputare il pagamento e non limitarsi ad affermarne l’esistenza in modo generico e senza specificazione del relativo ammontare.

Per la cassazione di tale sentenza ricorrono L.C. e P., A. e C.M.C. – tutti eredi dell’originario ricorrente, deceduto nelle more – affidandosi a cinque motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c. Resiste con controricorso l’INPS.

Motivi della decisione

1- Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., difetto di contraddittorio e carenza assoluta di motivazione, avendo il giudice di appello motivato sulla base di argomenti del tutto nuovi, non dedotti o eccepiti dalle parti, violando il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e non provocando il contraddittorio sulla c.d. terza via prescelta.

Il motivo è infondato.

Nel caso di specie è inapplicabile ratione temporis il nuovo testo dell’art. 101 c.p.c. risultante dall’introduzione, nello stesso articolo, di un comma 2 (ad opera della L. 18 giugno 2009, n. 69, di riforma del processo civile), che così recita: "Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione".

Detta novella legislativa – che non ha fatto altro che recepire una diffusa anteriore giurisprudenza di questa Corte Suprema, estendendo anche ai gradi di merito il principio formalizzato, per il giudizio di cassazione, dall’art. 384 c.p.c., comma 3, come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 49, art. 12 – è successiva all’introduzione del presente giudizio. Pertanto, bisogna riferirsi allo stato della giurisprudenza formatasi sul tema della c.d. "terza via".

Un primo orientamento (cfr., ad esempio, Cass. Sez. 2^ 10.8.2009 n. 18191, Cass. Sez. 2^ 9.6.2008 n. 15194, Cass. Sez. 3^ 5.8.2005 n. 16577, Cass. Sez. 3^ 31.10.2005 n. 21108 e Cass. 21.11.2001 n. 14637) ha affermato che il giudice non può decidere la lite in base ad una questione rilevata d’ufficio senza averla previamente sottoposta alle parti, al fine di provocare sulla stessa il contraddittorio e consentire lo svolgimento delle difese in relazione al mutato quadro della materia del contendere. Infatti, ove lo stesso giudice decidesse in base a questione rilevata d’ufficio e non segnalata alle parti, si avrebbe violazione del diritto di difesa per mancata realizzazione del contraddittorio, con conseguente nullità della pronuncia emessa.

Visto il contrasto con il difforme orientamento espresso da Cass. Sez. 2^ 27.7.2005 n. 15705, la questione è stata, poi, risolta (sempre in relazione a vicende processuali anteriori alla citata novella ex L. n. 69.09), da Cass. S.U. 30.9.2009 n. 20935 (poi seguita da Cass. Sez. 3^ 27.4.2010 n. 10062), in virtù della quale, se il giudice rileva d’ufficio una questione di puro diritto, senza procedere alla sua segnalazione alle parti onde consentire che su di essa si apra la discussione, non sussiste nullità della sentenza perchè da tale omissione non deriva la consumazione di altro vizio processuale diverso dall’error iuris in iudicando ovvero all’error in iudicando de iure procedendi, la cui denuncia in sede di legittimità consente la cassazione della sentenza solo se tale errore sia in concreto consumato.

Qualora, invece, si tratti di questioni di fatto, ovvero miste di fatto e di diritto, la parte soccombente può dolersi della decisione, sostenendo che la violazione di quel dovere di indicazione ha vulnerato la facoltà di chiedere prove o, in ipotesi, di ottenere un’eventuale rimessione in termini.

Dunque, in virtù del quadro di riferimento giurisprudenziale (anteriore alla novella di cui alla cit. L. n. 69 del 2009 che, come si è già detto, è inapplicabile ratione temporis al caso in esame) i rilievi d’ufficio devono avvenire in modo da provocare il contraddittorio sulla relativa questione solo ove essa involga (anche) apprezzamenti di fatto e ciò al fine di consentire la possibilità per la parte interessata di chiedere l’espletamento di mezzi istruttori.

Non è questo il caso, essendosi l’impugnata sentenza limitata a dare una diversa qualificazione giuridica della dichiarazione sostitutiva di notorietà resa dal C. e già acquisita nel corso del primo grado di giudizio.

2- Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 228 c.c. e difetto assoluto di motivazione per essere stato indebitamente attribuito valore di confessione giudiziale alla dichiarazione del ricorrente riguardo alle somme da lui ricevute, sebbene la dichiarazione stessa non fosse stata acquisita in conseguenza del deferimento dell’interrogatorio formale, ma dovesse essere qualificata come dichiarazione resa in sede di interrogatorio non formale, in quanto resa e prodotta in considerazione dell’impossibilità di comparire all’udienza fissata per l’interrogatorio libero.

Il motivo è infondato.

In relazione alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà resa dall’attuale ricorrente e prodotta nel giudizio, l’impugnata pronuncia non ha parlato di confessione giudiziale spontanea o provocata mediante interrogatorio formale ex artt. 228 e 229 c.p.c. Deve quindi semmai ritenersi che abbia attribuito alla dichiarazione in questione natura sostanziale di confessione stragiudiziale, che può aversi anche in sede di dichiarazione sostitutiva di notorietà (cfr. Cass. S.U. n. 8587/1996) e che è liberamente valutabile dal giudice se resa a un terzo (art. 2735 c.c., comma 1), con la conseguenza che anche in questo caso il giudice nella sua discrezionalità può considerarla prova idonea.

In ogni caso (e cioè anche escludendo una qualificazione della dichiarazione nell’ambito dell’istituto della confessione), quando come nella specie si è in presenza di dichiarazioni della parte, dalla medesima prodotte in giudizio ai fini di una loro valutazione da parte del giudice, quest’ultimo, legittimamente ritiene appartenente al quadro probatorio il relativo documento e può basare sulle relative dichiarazioni la ricostruzione del quadro fattuale, tanto più se la parte stessa abbia inteso attribuire loro una particolare solennità formale (quella delle dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà L. n. 15 del 1968, ex art. 4) e di conseguenza una particolare attendibilità. 3- Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2734 c.c. e difetto assoluto di motivazione in quanto, qualificata la summenzionata dichiarazione come confessione giudiziale, avrebbe dovuto trovare applicazione la regola, di cui all’art. 2734 c.c., sul valore probatorio delle dichiarazioni aggiunte alla confessione, non contestate, in merito ai fatti estintivi o modificativi degli effetti del fatto confessato. Nella specie avrebbe dovuto darsi valore anche all’affermazione di non avere mai ricevuto dall’INPS pagamenti aventi come causale l’adeguamento del valore monetario dell’indennità di disoccupazione agricola, nonchè quella di avere ricevuto dall’istituto previdenziale prestazioni temporanee maturate in suo favore negli ultimi anni. Tali dichiarazioni non erano state contestate dall’INPS, che si era limitato a riportarsi genericamente alle sue precedenti difese.

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e vizio di motivazione, poichè la dichiarazione de qua conteneva l’ammissione del pagamento non del credito oggetto di causa, ma dell’indennità di disoccupazione agricola e di altre prestazioni temporanee annuali.

Il quinto motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 1195 c.c. e difetto di motivazione, contesta sotto vari profili erroneità e illogicità della motivazione: in sostanza si sostiene che, mancando a monte la prova del pagamento eccepito dall’INPS – che non aveva prodotto al riguardo idonea documentazione – non può trovare applicazione l’art. 1195 c.c., che pone a carico del creditore l’onere di imputare i pagamenti "provati" ai diversi crediti vantati, ove il debitore non via abbia provveduto; nella vicenda non si trattava di stabilire a quale credito andasse imputato il pagamento eccepito dall’istituto, ma se esso fosse stato mai eseguito; di conseguenza, la Corte territoriale – prosegue il ricorso – ha proceduto ad un’illegittima inversione dell’onere della prova.

Questi tre motivi, da esaminarsi congiuntamente perchè connessi, sono infondati.

Deve premettersi che il giudice di appello ha ritenuto che dalla dichiarazione in discorso si deduceva che il C. aveva ricevuto dei pagamenti dall’INPS e che, sulla base delle regole sull’imputazione dei pagamenti, gli stessi erano imputabili al credito fatto valere nella presente sede giudiziale, dato che, se era vero che non risultava l’imputazione compiuta dall’INPS, la parte stessa non aveva provato l’esistenza di altri suoi crediti ai quali i pagamenti medesimi dovessero essere imputati.

In sostanza la Corte di merito ha ritenuto applicabile l’art. 1193 c.c., comma 2, che, in presenza di più debiti, detta i criteri dell’imputazione in mancanza di dichiarazione di imputazione del pagamento da parte del debitore. Al riguardo ha rilevato che, mancando la prova di altri crediti – enunciati in maniera solo generica nella dichiarazione sostitutiva di notorietà – il credito oggetto del giudizio doveva ritenersi soddisfatto dai pagamenti pacificamente eseguiti.

Con il ricorso non viene puntualmente e in maniera pertinente censurata la violazione di principi di diritto in materia di imputazione dei pagamenti.

I rilievi al riguardo contenuti nel quinto motivo non prendono in considerazione l’effettiva impostazione logico-giuridca della decisione. Con un non pertinente riferimento all’art. 1195 c.c., che riguarda i limiti delle contestazioni che può sollevare il debitore dopo avere accettato una quietanza predisposta dal creditore e contenente una determinata imputazione – e che è stato richiamato nella sentenza solo per rilevare che neanche il creditore aveva efficacemente esercitato la facoltà di imputazione ivi presupposta – si sostiene che nella specie si doveva preliminarmente verificare se era rimasto provato lo specifico pagamento riguardante il credito oggetto del giudizio. Si tratta di censura inidonea, atteso che la sentenza, come si è visto, è basata su un procedimento logico- giuridico che perviene alla prova del pagamento specifico sulla base della imputazione di pagamenti a cui non era applicabile una diversa imputazione.

Quanto agli accertamenti di fatto alla base di tale procedimento di imputazione dei pagamenti, censurati sotto diversi profili con il terzo e il quarto motivo, deve rilevarsi che si è in presenza di valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, in quanto tali incensurabili in sede di legittimità. In particolare, esse sono puntualmente basate sull’affermazione contenuta nella stessa dichiarazione della parte secondo cui essa non era in condizione di affermare con certezza se nel contesto dei complessivi pagamenti l’INPS avesse o meno inserito le somme relative all’adeguamento dell’indennità di disoccupazione, sul rilievo circa la genericità delle indicazioni di detta dichiarazione sulle causali dei pagamenti ricevuti e, infine, sulla mancanza di prova circa l’esistenza e l’entità di crediti ulteriori oltre a quello oggetto del giudizio.

Nè è configurabile una violazione delle regole sul valore probatorio delle dichiarazioni aggiunte alla confessione, per l’assorbente ragione che esse sono state prese in considerazione e ne è stata valutata la non idonea concludenza, in ragione della loro genericità. 4- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Poichè l’atto introduttivo della lite risale al 1.3.97, si ricade sotto la disciplina del vecchio testo dell’art. 152 disp. att. c.p.c. e non sotto quella di cui alla relativa novella contenuta nel D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 42, comma 1 convertito, con modificazioni, in L. 24 novembre 2003, n. 326.

Pertanto, non è dovuta pronuncia sulle spese.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso. Nulla spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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