Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 16-06-2011) 22-07-2011, n. 29574 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

C.G., E.N.L., H.R., U.M. P.A., B.F., T.A.A.A. ricorrono, a mezzo dei loro difensori (deducendo vizi e violazioni nella motivazione nella decisione impugnata, nei termini critici che verranno ora riassunti e valutati), avverso la sentenza 3 novembre 2009 della Corte di appello di Napoli che, in parziale riforma della sentenza 23 maggio 2007 del Tribunale di Napoli, per la parte che qui interessa, ha assolto B.F. dal reato di cui al capo A11) per non aver commesso il fatto, ed ha rideterminato le pene: per C.G. in anni 7 e mesi 6 di reclusione ed Euro 29.000 di multa, esclusa aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2; per U.M.P.A. in anni 5 e mesi 6 di reclusione ed Euro 23.000 di multa; per B.F. in anni 24 e mesi 4 di reclusione; confermando la sentenza impugnata per E. N.L., H.R. e T.A.A.A., nonchè in ordine a tutte le ulteriori statuizioni del primo giudice.

1.) la ricostruzione dei fatti nelle decisioni dei giudici di merito.

Secondo i giudici di merito, nella vicenda, oltre che alla consumazione di numerosi specifici reati-fine (contestazioni per cui vi è stata condanna e per i capi: A2, A5, A8, A9, A11, A15, A20, B1), sarebbe rimasta accertata l’esistenza di due distinti sodalizi criminosi (capi A e B) entrambi radicati nel napoletano, ma al tempo stesso dotati di stretti collegamenti e concrete capacità operative in altre zone del territorio nazionale ed anche all’estero.

La prima organizzazione del capo A. secondo il giudizio della corte distrettuale risultava essere di ampia dimensione, con complessi legami internazionali e con vastità d’azione in varie parti del territorio nazionale.

Tale sodalizio reperiva sul mercato internazionale la cocaina grazie all’ausilio fondamentale di due latitanti italiani stabilitisi in Spagna, B.F. e B.J.D., padre e figlio, che fungevano da mediatori tra gli acquirenti italiani (ed i vari sottogruppi criminali loro collegati) ed i fornitori colombiani di alto livello, tra i quali emergevano principalmente le figura di C.F.M. e di M.G.A., con ogni probabilità diretta espressione dei cartelli colombiani o comunque con essi strettamente collegati; in tale sodalizio A. ricopriva principalmente il ruolo di custode del deposito di cocaina del gruppo sito in Viareggio e E.N. quello di corriere/trasportatore dello stupefacente.

Il secondo dei due sodalizi criminosi individuati, e contestato al capo B, operava invece importando cocaina dall’Olanda, ove risiedeva il suo massimo esponente, Te.Pa., in stretto contatto con alcuni stranieri lì residenti, tra cui in primis T. A..

In particolare, per i giudici di merito era emerso con chiarezza l’esistenza di un canale di importazione della cocaina, alternativo a quello spagnolo – colombiano, ed incentrato su pregiudicati italiani stabilmente operanti in Olanda, a loro volta in contatto anche con cittadini colombiani e panamensi, prevalentemente attivi su quella "piazza".

La decisione della corte distrettuale, estremamente articolata, ha sul punto e nelle sue premesse precisato che per il reato associativo del "capo A" gli unici imputati condannati sono stati B. F. e E.N.; mentre per il reato associativo del "capo B" l’unico imputato condannato è stato T.; tutti gli altri imputati sono stati condannati in ordine a singoli episodi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 i quali, pur coinvolgendo anche altri soggetti delle due associazioni criminose citate, non hanno provato la loro compartecipazione ai sodalizi.

Motivi della decisione

2.) i motivi di impugnazione e le ragioni della decisione di questa Corte.

C.G., E.N.L., H.R., U.M. P.A., B.F., T.A.A.A. hanno tutti proposto ricorso per cassazione a mezzo dei loro difensori.

2.1) C.G..

Il Tribunale di Napoli, assolto C.G., dal reato a lui ascritto al capo A), per non aver commesso il fatto, lo ha invece dichiarato responsabile del reato a lui ascritto al capo A11), e lo ha condannato alla pena di anni undici di reclusione ed Euro 43.000,00 di multa.

La Corte di appello di Napoli con la sentenza impugnata ha rideterminato la pena per il C. in anni 7 e mesi 6 di reclusione ed Euro 29.000 di multa, esclusa aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2;

2.1.1) i motivi di impugnazione di C. e le ragioni della decisione della Corte di cassazione.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo del mancato accoglimento dell’eccezione di incompetenza territoriale, in favore del Tribunale di Milano, luogo di accertamento dell’illecito a carico del C. e luogo di celebrazione del processo a carico degli altri correi, non potendosi nella specie fare riferimento al luogo di operatività del sodalizio criminoso del capo A, per il quale il ricorrente è stato assolto per non aver commesso il fatto, dal giudice di primo grado e non risultando alcuna connessione tra il delitto per cui vi è stata condanna (A11) e l’associazione.

Il motivo, tra l’altro genericamente proposto nell’atto d’appello, è stato comunque diligentemente vagliato dalla corte distrettuale, confrontato con corretti parametri normativi, e con un esito di interpretazione non superato dalle odierne critiche difensive, le quali sembrano ignorare:

a) che ogni questione in ordine alla competenza territoriale è stata definitivamente risolta della 1 Sezione Penale della Corte di Cassazione la quale con decisione del 25 novembre 2003, depositata il 17 dicembre 2003 n. 48142, cui hanno fatto poi seguito analoghi provvedimenti, ha confermato la competenza del Tribunale di Napoli, in quanto reale luogo di operatività del sodalizio criminoso, dove si raggiungevano gli accordi per le singole transazioni e per le successive operazioni di consegna e di smistamento della sostanza stupefacente, e ciò a prescindere dai precari siti di deposito della droga;

b) che, quanto ai delitti concernenti l’importazione in Italia e lo spaccio di ingenti quantitativi di cocaina, pur essendo rimasto ignoto il luogo di ingresso nel territorio italiano della sostanza, risulta per tabulas, dalle intercettazioni telefoniche svolte, che gli accordi criminosi si sono conclusi in Napoli, ove peraltro veniva consumata il più delle volte la successiva attività di spaccio;

c) che tutte le precedenti considerazioni conseguono all’applicazione del principio della connessione rispetto alla competenza ex art. 16 c.p.p., a nulla pertanto rilevando la circostanza che poi il C. sia stato assolto dal reato associativo di cui al capo A e condannato solo in ordine al singolo reato di cui al capo A 11.

Il motivo quindi, al limite dell’ammissibilità, va rigettato Con un secondo motivo si lamenta violazione dell’art. 192 c.p.p., comma 2 per essere stato il giudizio di responsabilità costruito illogicamente su dati indiziari rappresentati da conversazioni telefoniche dal contenuto criptico e non riscontrate dalle dichiarazioni dei testi R. e P., svalorizzate invece dai giudici di merito.

Il motivo, per come proposto e sviluppato, risulta manifestamente infondato.

Orbene, fermo il principio secondo cui esula dai poteri del giudice di legittimità la verifica della correttezza della valutazione dell’affidabilità delle fonti di prova svolta dal giudice di merito va rilevato, con riferimento alla denunciata violazione dell’art. 192 c.p.p., che la mancata osservanza di una norma processuale in tanto ha rilevanza in quanto sia stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, come espressamente disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), ne deriva quindi che non è ammissibile il motivo di ricorso in cui si deduca appunto la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., la cui inosservanza non è in tal modo sanzionata (Cass. pen. sez. 6, 7336/2004 Rv. 229159).

Va infine aggiunto che, neppure nel caso in cui sia denunziata con il ricorso per cassazione la predetta violazione dell’art. 192 c.p.p., comma 3, può essere delibata in sede di legittimità una verità processuale diversa da quella risultante dalla sentenza impugnata, tutte le volte in cui la struttura razionale del discorso giustificativo della decisione abbia una chiara e puntuale coerenza argomentativa e sia saldamente ancorata, nel rispetto delle regole della logica e delle massime di comune esperienza e dei principi che presidiano la chiamata in correità e la sua valutazione, alle risultanze del quadro probatorio (Cass. pen. sez. 1, 9148/1999 Rv.

214014, Riina).

Pertanto l’esame critico del motivo prospettato può essere condotto esclusivamente sotto il profilo di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).

In tale prospettiva rileva la Corte che la motivazione della sentenza appare priva da vizi di contraddizione e manifesta illogicità e che le doglianze del ricorrente attengono esclusivamente ad aspetti di merito, concernenti la valutazione degli elementi di prova, tema questo che esula dalla competenza del giudice di legittimità. 2.2) E.N.L..

Il Tribunale di Napoli, assolti E.N.L. e H.R. dal reato a loro ascritto al capo A15), limitatamente all’episodio accertato il 27.9.2001, perchè il fatto non sussiste, ha dichiarato E.N.L. responsabile dei reati a lui ascritti: ai capi A), con esclusione dell’aggravante di cui al comma quarto, e A15), limitatamente all’episodio accertato il 1.8.2001, e lo ha condannato, unificati i reati per la continuazione sotto la più grave violazione di cui al capo A), alla pena di anni dodici mesi sei di reclusione.

La Corte di appello di Napoli con la sentenza impugnata ha confermato le statuizioni del primo giudice.

2.2.1) i motivi di impugnazione di E.N. e le ragioni della decisione della Corte di cassazione.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della nullità del giudizio di 1^ e 2^ grado non avendo il ricorrente ritualmente ricevuto il decreto che disponeva il giudizio nei due gradi.

Il motivo, comunque infondato attesa la ritualità della documentazione agli atti del processo, è stato oggi rinunciato dal difensore.

Con un secondo motivo si lamenta la nullità dell’udienza preliminare e del relativo rinvio a giudizio non essendo stati rispettati i termini di comparizione: l’avviso sarebbe avvenuto senza il rispetto dei "termini di comparizione", atteso che ai 10 giorni liberi si sarebbe dovuto aggiungere un giorno "per la distanza di oltre 500 km da Prato a Napoli e tenuto conto che il sabato è un giorno lavorativo".

La Corte di appello, con la chiarezza e la completezza argomentativa che ha connotato tutta la sentenza, dopo aver evidenziato che l’eccezione è stata oggetto di plurime ordinanze di rigetto (emesse sia dal GUP, in sede di udienza preliminare, sia dal Tribunale, in primo grado), ha chiarito che la questione riguarda solo ed esclusivamente un presunto omesso rispetto del termine dell’avviso per l’udienza preliminare relativo al difensore, perchè mai risulta in precedenza proposta dalla difesa alcuna questione in ordine all’avviso per gli imputati.

La questione quindi – in questa sede – va rigorosamente limitata al solo difensore, attesa la preclusione derivante dal disposto dell’art. 491 c.p.p., comma 1.

Nella specie, si tratta dell’avviso al difensore, per l’udienza di lunedì 15 marzo 2004, notificato al difensore stesso mercoledì 3 marzo 2004, essendo pertanto il giorno 14 giornata domenicale festiva.

La gravata sentenza ha in modo corretto ed ineccepibile rilevato:

a) che al difensore spettano solo dieci giorni liberi dall’avviso all’udienza, atteso che il prolungamento dei termini, previsto dall’art. 174 cod. proc. pen., nel caso di diversità del luogo di residenza da quello in cui ha sede l’autorità procedente, non trova applicazione quanto all’avviso al difensore, il quale non rientra nel novero delle persone, diverse dall’imputato, per le quali l’autorità giudiziaria procedente emette "ordine o invito" (si è citata puntualmente in proposito: Cass. pen. Sez. 4, 2202/1999 r.v. 214585);

b) che nel computo dei 10 giorni liberi va inserita anche la giornata del sabato che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, non è assolutamente "giorno festivo" (così sosteneva la difesa in primo grado, anche se nell’atto d’appello è stato poi qualificato giorno "lavorativo"), ma semmai "pre-festivo", giorno comunque "lavorativo" in cui vi è sempre quanto meno un "presidio" nelle cancellerie delle AG a disposizione delle parti.

Conclusioni queste non modificabili per effetto della dichiarazione 21 ottobre 1999 del Cancelliere dirigente del Tribunale di Prato che, una volta attestata "la chiusura delle cancellerie per il giorno di sabato", evidenziava peraltro la presenza in tale giorno di "un presidio".

Rileva infatti questa Corte, ad ulteriore conferma del corretto argomentare della gravata sentenza, che dal "Verbale di contrattazione decentrata", prodotto in atti, risulta che l’apertura del sabato attribuisce alla competenza del "presidio" tutte le attività connesse all’osservanza dei termini processuali, con la conseguenza del naturale decorso, anche per quel giorno di "una unità di tempo libero" utilmente calcolabile agli effetti dei dieci giorni liberi.

Il motivo va quindi rigettato.

Con un terzo motivo si afferma la carenza e la contraddittorietà della decisione di responsabilità in punto di reato associativo, nonchè l’illogicità dell’asserzione secondo cui il ricorrente era ad un tempo sia il corriere di una associazione ed il capo di un’altra piccolo associazione.

Il motivo è inammissibile.

Le critiche formulate si risolvono infatti in una prospettata diversa valutazione del compendio probatorio, non consentita in sede di legittimità, laddove ricorra, come nella specie, una struttura di giustificazione dell’affermata responsabilità, improntata a corretti parametri di valutazione della prova ed espressa con una motivazione congrua, adeguata e priva di incoerenze od illogicità inferenziali od espositive.

2.3) H.R.: posizione stralciata. Il Tribunale di Napoli, assolti H.R. ed E.N.L. dal reato a loro ascritto al capo A15), limitatamente all’episodio accertato il 27.9.2001, perchè il fatto non sussiste, ha dichiarato H.R. responsabile del reato a lei ascritto al capo A15), limitatamente all’episodio accertato il 1.8.2001 e l’ha condannata, concesse le attenuanti generiche, alla pena di anni quattro mesi otto di reclusione ed Euro 18.000,00 di multa; H.R. (con U. M.P.A.) è stato assolto dal reato ascritto al capo A).

La Corte di appello di Napoli con la sentenza impugnata ha confermato le statuizioni del primo giudice.

2.3.1.) i motivi di impugnazione di H. e le ragioni della decisione della Corte di cassazione.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta dallo stesso difensore del E.N., inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della nullità del giudizio di 1^ e 2^ grado non avendo la ricorrente ritualmente ricevuto il decreto che disponeva il giudizio nei due gradi.

Il motivo è stato oggi rinunciato dal difensore attesa la verificata incontestabile ritualità delle notifiche dei decreti di citazione a giudizio.

Con un secondo motivo si lamenta la nullità dell’udienza preliminare e del relativo rinvio a giudizio, non essendo stati rispettati i termini di comparizione considerato che l’avviso al difensore è avvenuto senza il rispetto dei 10 giorni liberi, avuto riguardo alla distanza tra Prato e Napoli la quale comportava un aumento di una giornata nel calcolo finale.

Con un terzo motivo si prospetta la mancata notifica dell’estratto contumaciale della sentenza d’appello, nel cui giudizio la H. era rimasta contumace.

Con un quarto motivo si evidenzia erronea affermazione di colpevolezza della ricorrente la cui responsabilità è stata desunta da frasi incomplete ed insignificanti, tratte da intercettazioni telefoniche.

Il terzo motivo è fondato ed il suo accoglimento impedisce l’esame delle altre censure.

Risulta infatti in atti – come da certificazione della cancelleria della Corte di appello di Napoli – che non vi è prova dell’avvenuta notifica dell’estratto contumaciale della sentenza d’appello, nel cui giudizio la H. era rimasta contumace.

Pertanto, sentito il Procuratore generale che non si è opposto, il difensore dell’imputata e le altre parti, va disposto lo stralcio della posizione della detta imputata mandando alla cancelleria di notificare alla Corte di appello di Napoli tale estratto, rinviando la causa a nuovo ruolo.

2.4) U.M.P.A..

Il Tribunale di Napoli ha dichiarato U.M.P.A. responsabile del reato a lei ascritto al capo A20) e riconosciute le attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, l’ha condannata alla pena di anni sei di reclusione ed Euro 25.000,00 di multa; U.M.P.A., unitamente a H.R., è stata assolta dal reato ascritto al capo A) per non aver commesso il fatto.

La Corte di appello di Napoli con la sentenza impugnata ha rideterminato la pena per U.M.P.A. in anni 5 e mesi 6 di reclusione ed Euro 23.000 di multa.

2.4.1) i motivi di impugnazione di U.M. e le ragioni della decisione della Corte di cassazione.

Con un primo motivo di impugnazione si deduce inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della conclusione di responsabilità per i reati fine di cui al capo A20).

In particolare, per la cessione di 600 grammi di cocaina a C., si lamenta che il giudizio di colpevolezza sia stato fondato sugli esiti di lettura di quattro conversazioni telefoniche ritenute riferite al traffico di stupefacenti senza considerare valida l’ipotesi alternativa che le conversazioni avessero ad oggetto feste e cene con servizio di catering. Quanto al successivo episodio di contestata cessione a C. di grammi 50 di cocaina, si lamenta ancora la mancata valorizzazione della fornita spiegazione alternativa in punto di ristorazione, senza voler considerare la mancanza di una certa identificazione vocale e personale dell’accusata, considerato che il telefono oggetto di intercettazione era in uso anche alla madre, al fratello, alla sorella ed alla zia dell’accusata e che comunque non vi sarebbe prova che la donna che si è incontrata con C. in Piazza Duomo fosse proprio la ricorrente e che l’uomo calvo sulla cinquantina che si era accompagnato all’imputata lo stesso giorno 18 gennaio 2000 fosse M.A., solo perchè tale ultima persona era calva come il M..

Con un secondo motivo si deduce carenza assoluta di motivazione e violazione di legge in ordine alla mancata richiesta di riconoscimento dell’attenuante ex art. 114 cod. pen., atteso il marginale contributo offerto in proposito dalla donna.

Con un terzo motivo si prospetta omessa motivazione sulla prospettata ipotizzabilità della ricorrenza nel caso di specie di una ipotesi di favoreggiamento reale ex art. 379 cod. pen..

I primi tre motivi sono per più profili inammissibili oppure infondati.

Nella specie esiste un’ampia, ragionevole e adeguata argomentazione dei giudici di merito i quali, con una doppia conforme pronuncia di responsabilità, hanno analiticamente affermato la colpevolezza dell’imputata, utilizzando e correlando tra loro una pluralità complessa e conforme di dati probatori, tutti convergenti e coerenti rispetto all’assunto accusatolo, corretto anche nella qualificazione del fatto-reato, trattandosi di comportamento "non post crimen patratum", ed in ogni caso caratterizzato da una condotta, per come descritta, non contenibile negli ambiti della "minima importanza" valorizzata dal disposto dell’art. 114 cod. pen..

Va inoltre precisato che nella verifica della consistenza dei rilievi mossi alla sentenza della Corte di secondo grado, tale decisione non può essere valutata isolatamente, ma deve essere esaminata in stretta ed essenziale correlazione con la sentenza di primo grado, dal momento che entrambe risultano sviluppate e condotte secondo linee logiche e giuridiche pienamente concordanti.

In buona sostanza ed in altre parole, nella specie, ci si trova di fronte a due sentenze, di primo e secondo grado, che concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che si salda perfettamente con quella precedente sì da costituire un unico complessivo corpo argomentativo, privo di lacune, considerato che la sentenza impugnata, ha dato comunque congrua e ragionevole giustificazione del finale giudizio di colpevolezza.

In conclusione l’esito del giudizio di responsabilità non può essere invalidato dalle prospettazioni alternative del ricorrente le quali si risolvono nel delineare una "mirata rilettura" di quegli elementi di fatto, che sono stati posti a fondamento della decisione, nonchè nella autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perchè illustrati come maggiormente plausibili, oppure perchè assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa, nel contesto in cui la condotta si è in concreto esplicata.

I primi tre motivi vanno pertanto rigettati.

Con un quarto motivo si evidenzia ancora violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata massima estensione delle circostanze attenuanti generiche riconosciute prevalenti.

Il motivo per come prospettato ed avuto riguardo alla motivazione dei giudici di merito, che hanno puntualmente rilevato ed argomentato, in modo logico e coerente, la necessità di una non integrale attenuazione della sanzione, è inaccoglibile.

2.5) B.F..

Il Tribunale di Napoli ha dichiarato B.F. responsabile dei reati a lui ascritti ai capi A) con esclusione dell’aggravante di cui al comma 4, A2), A5) con esclusione dell’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, A8), A9) e A11) e l’ha condannato, unificati i reati per la continuazione sotto la più grave violazione di cui al capo A), alla pena di anni venticinque di reclusione.

La Corte di appello di Napoli con la sentenza impugnata, ha invece assolto il B.F. dal reato di cui al capo A11) per non aver commesso il fatto, ed ha per lui determinato la pena finale in anni 24 e mesi 4 di reclusione.

2.5.1) i motivi di impugnazione di B. e le ragioni della decisione della Corte di cassazione.

In appello la difesa del B. aveva eccepito: la nullità della ordinanza di ammissione della contestazione suppletiva effettuata dal PM all’udienza del 5 dicembre 2006 per violazione dell’art. 517 c.p.p.; la illegittimità della condanna ai sensi dell’art. 346 cpp perchè basata su fonti di prova raccolte nel periodo in cui l’azione penale era improcedibile.

Con un unico articolato motivo dell’odierna impugnazione viene nuovamente dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo dell’inammissibilità delle contestazioni suppletive effettuate dal P.M. all’udienza del 6 dicembre 2006, trattandosi non di "fatto nuovo" ma di fatto già emerso nel corso di formali contestazioni nella fase delle indagini preliminari e contenuto in ben quattro ordinanze di custodia cautelare in carcere. Il motivo non ha pregio e va rigettato.

In tema di istruzione dibattimentale, la contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante è consentita sulla base anche dei soli elementi già acquisiti in fase di indagini preliminari, non soltanto perchè non vi è alcun limite temporale all’esercizio del potere di modificare l’imputazione in dibattimento, ma anche perchè, da un lato, nel caso di reato concorrente, il procedimento dovrebbe retrocedere alla fase delle indagini preliminari e, dall’altro, nel caso di circostanza aggravante, la mancata contestazione nell’imputazione originaria risulterebbe irreparabile, essendo la medesima insuscettibile di formare oggetto di un autonomo giudizio penale (Cass. pen. sez. 2, 3192/2009 Rv.

242672).

In conclusione è legittima la contestazione suppletiva di un reato concorrente ancorchè lo stesso non sia emerso per la prima volta dall’istruzione dibattimentale, ma risulti dagli atti fin dall’udienza preliminare (Cass. pen. sez. 6, 44501/2009 Rv. 245006.

Massime precedenti Conformi: N. 21085 del 2004 Rv. 229807, N. 21085 del 2004 Rv. 229807, N. 24537 del 2004 Rv. 229028, N. 36842 del 2004 Rv. 229729, N. 49017 del 2004 Rv. 231271, N. 10524 del 2006 Rv.

233802, N. 32797 del 2006 Rv. 235071, N. 3192 del 2009 Rv. 242672).

Va quindi ribadita la regola che in tema di nuove contestazioni, la modifica dell’imputazione di cui all’art. 516 cod. proc. pen. e la contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante di cui all’art. 517 cod. proc. pen. ben possono essere effettuate dopo l’apertura del dibattimento e prima dell’espletamento dell’istruttoria dibattimentale, sulla sola base degli atti già acquisiti dal P.M. nel corso delle indagini preliminari (Cass. pen. sez. 6, 44980/2009 Rv. 245284. Massime precedenti Conformi: N. 21085 del 2004 Rv. 229807, N. 24537 del 2004 Rv. 229028, N. 36842 del 2004 Rv. 229729, N. 49017 del 2004 Rv. 231271, N. 10524 del 2006 Rv.

233802, N. 32797 del 2006 Rv. 235071, N. 3192 del 2009 Rv. 242672, N. 24050 del 2009 Rv. 243802).

Inoltre la difesa del B. ha lamentato in appello – e ripropone nel ricorso – l’illegittimità della condanna, per violazione dell’art. 346 cod. proc. pen., essendo stata la stessa basata su fonti di prova raccolte nel periodo in cui l’azione penale era improcedibile.

In buona sostanza ed in altre parole si contesta l’utilizzo, ai fini della responsabilità del B., di tutte le risultanze istruttorie dibattimentali acquisite prima della contestazione suppletiva del 6 dicembre 2006, quando l’unico reato per cui si procedeva a carico di tale imputato era quello di cui al capo A, limitatamente al periodo temporale successivo al 18 marzo 2002.

La gravata sentenza ha evidenziato l’infondatezza della doglianza partendo dalla scansione dell’iter processuale.

Osserva in termini la corte distrettuale, con una motivazione incensurabile per la sua correttezza logica e giuridica, che, se risponde al vero che la contestazione suppletiva sia del 6 dicembre 2006 e che sia del pari vero che la maggior parte dell’istruttoria dibattimentale sia stata svolta in precedenza, è anche però indiscutibilmente vero che in data 24 gennaio del 2007 si è proceduto alla rinnovazione totale del dibattimento, per diversa composizione del collegio, con corretta ripetizione della prevista sequenza procedimentale costituita dalla dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 492), dall’esposizione introduttiva e dalle richieste di ammissione delle prove (art. 495), dall’assunzione delle prove secondo le regole stabilite negli artt. 45 e ss. c.p.p. e soprattutto, nella fattispecie, dalla dichiarazione di utilizzabilità di tutti gli atti assunti in precedenza ex art. 190 bis c.p.p., senza richiesta alcuna ai sensi dell’ultima parte di tale norma da parte della difesa del B. e senza contestazione alcuna da parte della difesa del B..

E’ quindi evidente per la gravata sentenza – e la Corte di legittimità non può che convenire sulla adeguatezza dell’argomentazione sul punto – che il materiale probatorio utilizzato come fonte di prova a carico del B. in ordine ai reati contestatigli ex art. 517 cod. proc. pen. in data 6 dicembre 2006 è stato legittimamente acquisito in atti in data successiva e cioè all’udienza del 24 gennaio 2007, quando si è rinnovato ex novo il dibattimento (senza richiesta o contestazione alcuna da parte della difesa del B.), e quando ancora l’estradizione concessa per procedere a carico del B. era piena e totale per tutti i capi d’imputazione di cui in epigrafe.

Valutazioni queste ulteriormente rafforzate dal giudice dell’appello con il richiamo, altrettanto corretto in diritto, ad ulteriori tre considerazioni fatte proprie anche dal primo giudice e concernenti:

a) il fatto che l’art. 346 cod. proc. pen. disciplina esclusivamente gli atti di indagine preliminare, i quali possono essere compiuti anche in assenza di una condizione di procedibilità, essendo prevista la possibilità del compimento degli atti necessari per assicurare le fonti di prova, nonchè quella di assumere le prove nelle forme dell’incidente probatorio, quando vi sia pericolo nel ritardo;

b) il fatto che le prove assunte invece in dibattimento (quand’anche assunte in assenza della condizione di procedibilità relativa ai reati poi contestati, fatto peraltro non verificatosi) sono state comunque legittimamente acquisite nel contraddittorio delle parti in quanto rilevanti ai fini della prova della parte residua del capo A) ascritto al B. e di tutti i reati contestati agli altri imputati;

c) la circostanza che le stesse prove possano essere utilizzate anche al fine di dimostrare i fatti oggetto della contestazione suppletiva viene a costituire una naturale conseguenza del sistema processuale, il quale consente tale modalità di esercizio dell’azione penale, a fronte della quale il diritto di difesa dell’imputato è adeguatamente tutelato mediante la facoltà di chiedere l’ammissione di nuove prove, espressamente prevista dall’art. 519 c.p.p., comma 2 e non utilizzata nel caso concreto dal B..

Trattasi di un compendio motivazionale, diffuso, più che adeguato per dare contezza delle scelte in diritto ed in fatto effettuate, e non suscettibile di modifiche interpretative e/o di lettura, nei termini proposti nel gravame che, in alcuni punti, sembra ignorare l’ampia e ragionevole risposta data dalla corte distrettuale a tutte le argomentazioni contrarie al pieno utilizzo della totalità del materiale probatorio versato in atti.

Da ciò l’inaccoglibilità di questa parte della doglianza.

Quanto alle altre censure, sulla fondatezza delle accuse anche di quelle concernenti alla contestazione suppletiva, esse non superano la soglia dell’ammissibilità, in quanto esse sono sostanzialmente finalizzate ad una diversa e più favorevole riconsiderazione dei dati probatori.

Risultano quindi destituite di palese fondamento le doglianze difensive concernenti la ricostruzione del fatto, compiuta dai giudici di merito, mediante la prospettazione di vizi logici della motivazione.

La corte distrettuale ha infatti affermato la certa ascrivibilità degli episodi criminosi all’imputato B.F., argomentando in modo ampio ed esteso, sul tema della identificazione del F., padre, e la sua chiara differenziazione dal rispetto al figlio J. C., pur nella verificata interscambiabilità dei ruoli, il tutto accompagnato dalla ricerca ed evidenziazione dei riscontri di colpevolezza per ogni singolo episodio (capi: A11, A2, A5, A8, e A9).

Ebbene tali dati, riscontrati consistenti e attendibili, sono stati analiticamente verificati e valutati nel loro insieme dalla corte territoriale con rigore e correttezza, confluendo essi in una ricostruzione logica e unitaria del fatto e nell’affermazione di responsabilità dell’imputato. E, poichè la motivazione risulta rispondente ai principi dettati dall’art. 192 c.p.p., il procedimento probatorio su cui poggia l’affermazione di responsabilità resiste alle censure di merito inammissibili formulate dal ricorrente.

Da ultimo quanto alla doglianza concernente il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, che si afferma dovute per la veneranda età dell’accusato e le sue precarie condizioni di salute, va rilevato che trattasi di censura priva di fondamento avuto riguardo alla giustificazione in concreto offerta dalla corte distrettuale, la quale (pag. 166), non solo ha valorizzato la negativa personalità dell’imputato, ma ne ha evidenziato la capacità criminale, segnalando altresì la presenza di una pregressa condanna per reati in tema di stupefacenti.

Il motivo va pertanto rigettato.

2.6) T.A.A.A..

II Tribunale di Napoli, assolto: T.A.A.A. dal reato a lui ascritto al capo Bl), limitatamente alla cessione della sostanza stupefacente di tipo ecstasy, per non aver commesso il fatto e dal reato a lui ascritto al capo B9) perchè il fatto non sussiste; ha dichiarato lo stesso T. responsabile dei reati a lui ascritti ai capi B), con esclusione dell’aggravante di cui al comma 4, B1), limitatamente alla cessione di 1 Kg di cocaina e con esclusione dell’aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, B5), B8) e B10), ed unificati i reati per la continuazione, sotto la più grave violazione di cui al capo B), lo ha condannato alla pena di anni ventidue mesi sei di reclusione.

La Corte di appello di Napoli con la sentenza impugnata ha confermato le statuizioni del primo giudice.

2.6.1) i motivi di impugnazione di T. e le ragioni della decisione della Corte di cassazione.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della mancanza di giurisdizione del giudice italiano e comunque sulla incompetenza del Tribunale di Napoli competente essendo il Tribunale di Verona, dovendosi in quel territorio individuarsi i reati più gravi.

Il motivo quanto alla competenza territoriale del Tribunale di Verona è inammissibile.

Trattasi invero di deduzione intempestiva – nei termini correttamente argomentati dai giudici di merito di primo e secondo grado, in quanto l’eccezione, a pena di decadenza, andava proposta ex art. 21 c.p.p., comma 2 prima della conclusione dell’udienza preliminare, e ciò invece non risulta essere stato fatto.

In ogni caso e comunque, bene stata affermata la competenza del Tribunale di Napoli, sulla base del luogo di accertata consumazione del reato più grave a ascritto al T., quello di cui al capo B) della rubrica, il quale risulta essere stato realizzato in Napoli, Verona ed altre località del territorio nazionale, trovando qui inoltre puntuale applicazione il principio della connessione rispetto alla competenza ex art. 16 c.p.p..

Quanto all’ulteriore dedotto profilo della carenza di giurisdizione italiana, il difensore, nell’atto d’appello e nuovamente nel ricorso, ha rilevato che non sarebbero state operate le dovute distinzioni tra i capi A e ss e B e ss delle imputazioni e che, nel caso specifico dei reati di cui ai capi B e ss, sarebbe evidente che non si sarebbe potuta configurare l’ipotesi del giudicato in Italia in quanto "non può trovare applicazione il principio dell’art. 6 cod. proc. pen. capoverso all’ipotesi di reato concorsuale" e che "nel caso di specie nessuno dei consociati è stato coinvolto direttamente in Italia, potendosi al massimo riconoscere per qualcuno una mera esecuzione in Italia di ordini ricevuti dall’estero.

Orbene, ritiene il Collegio, a parte la prospettata genericità dell’assunto – segnalata ma non conseguentemente valutata dalla Corte di appello che non ha dichiarato l’inammissibilità del motivo – che la gravata sentenza abbia spiegato con dovizia di argomentazioni, in fatto e in diritto, la fallacia della interpretazione sostenuta nell’impugnazione ed oggi nuovamente ripresa in modo pedissequo nell’odierno ricorso.

Da ciò il rigetto della corrispondente doglianza.

La corte distrettuale ha invero nella specie fatto applicazione di una corretta regula juris secondo cui, una volta individuata la commissione di "parte del reato concorsuale in Italia" e la punibilità dell’agente che ha operato in Italia, anche i correi che hanno agito all’estero sono punibili per la legge italiana per una sorta di ampliamento della sfera di giurisdizione dovuta alle regole in materia di concorso, con applicazione del disposto dell’art. 6 cod. pen., in considerazione pure del principio della cd.

"territorialità temperata", posto dal comma 2 di tale norma, secondo il quale un reato si considera commesso in Italia anche se l’azione o l’omissione che lo costituisce è avvenuta solo in parte nel nostro Paese ovvero quivi si è verificato il mero evento che è la conseguenza dell’azione od omissione "contra legem" (Cass. pen. sez. Sez. 3, 519/1997 Rv. 2072889).

In aderenza a tale consolidato principio, la Corte di appello ha ribadito i criteri di competenza per il T. con riferimento ai capi:

– B1: sequestro in Verona di 1 kg di cocaina, venduta dall’imputato ai correi italiani V. e Z.;

– B5: i circa 5 kg di cocaina, venduta dal ricorrente ai correi italiani Z. e F., arrivano in Pagani;

– B8: i circa 2 kg di cocaina, venduti dal T. al correo italiano Z., arrivano a Milano;

– B10: la cocaina, venduta dal ricorrente a correi italiani P., Te. e F., arriva in Boscoreale).

Fatti tutti, tra l’altro desumibili dalle conversazioni telefoniche e dall’arresto in Verona di V. e Z. in flagrante possesso del kg di cocaina, di cui al capo B1), e che smentiscono in modo radicale la tesi difensiva in virtù della quale "nel caso di specie nessuno dei consociati è stato coinvolto direttamente in Italia".

Quanto al reato associativo, la Corte di appello ha assunto motivatamente le stesse conclusioni.

Sotto tale aspetto la circostanza che i promotori ed organizzatori si siano trovati fuori dell’Italia risulta priva di rilievo, dal momento che parte dell’azione risulta svolta in Italia ad opera di italiani;

in tal modo bene si è ritenuto che la legge italiana abbia investito l’intera azione, dovunque questa si sia esaurita, considerato che parte del processo causale del reato si è concretizzato in Italia ad opera dei correi e con esso si è violato il diritto Italiano (Cass. 30.10.72, Radici).

Questa Corte infatti, per risalente giurisprudenza, in tema di reati associativi, ed al fine di determinare la sussistenza della giurisdizione italiana, ha stabilito che occorre verifica re soprattutto il luogo dove si è realizzata, in tutto o in parte, l’operatività della struttura organizzativa, mentre va attribuita importanza secondaria al luogo in cui sono stati realizzati i singoli delitti commessi in attuazione del programma criminoso, a meno che questi, per il numero e la consistenza, rivelino il luogo di operatività del disegno.

Ne deriva che la partecipazione di una persona, ad un sodalizio criminoso che ha diramazioni e centri operativi in varie parti del mondo, acquista rilevanza ai fini della giurisdizione se uno o più centri sia operante in Italia, perchè in caso positivo il reato dovrà ritenersi interamente punibile secondo la legge italiana e ad opera dell’autorità giudiziaria dello Stato.

Tanto va desunto dall’art. 6 cod. pen., una norma che interpreta e definisce l’interesse dello Stato a punire coloro che, in qualche modo, abbiano posto in essere una attività illecita, che abbia violato le norme penali, attribuendo cosi valenza espansiva ad una frazione di attività commessa nel territorio dello Stato, anche da taluno che partecipi al sodalizio, in modo che l’applicazione della norma penale si estenda a tutti i compartecipi ed a tutta l’attività criminosa dovunque realizzata (cfr.: cass. pen. sez. 2, 993/1999 Rv.

212974 Cohan; Cass. pen. sez. 6, 4378/1998 Rv. 210812 Cao Len Huot).

Per concludere: in tema di reati associativi, ed in fattispecie di associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, agli effetti della sussistenza della giurisdizione italiana, va verificato in quale luogo è divenuta concretamente operativa la struttura dell’associazione, potendosi attribuire importanza anche al luogo in cui sono stati realizzati i singoli delitti commessi in attuazione del programma criminoso, soltanto quando essi stessi rivelino, per il numero e la consistenza, il luogo di operatività della predetta struttura (Cass. pen. sez. 6, 10088/2011 Rv. 249636).

Va ancora in sintesi rammentato, in termini adesivi all’argomentare della corte distrettuale:

a) che laddove l’organizzazione criminale abbia sede all’estero per radicare la giurisdizione in Italia è necessario che l’organizzazione operi in territorio nazionale (Cass. 13.2.97, Scalfari);

b) che nel caso in cui il sodalizio criminoso si sia formato in Italia ed ivi operi, e il promotore o aderente rimanga materialmente all’estero la S.C., l’adesione è idonea e sufficiente ad integrare la partecipazione ad un reato commesso nel territorio dello stato (tra le altre Cass. 4.10.88, Barozzi).

In definitiva: si tratta di un complesso di regole tutte applicabili ed applicate dai giudici di merito alla posizione del T., con riferimento al reato associativo contestatogli al capo B, avuto riguardo al ruolo di promotore/organizzatore residente all’estero da lui rivestito nell’associazione, ed in particolare considerata la sua funzione di fornitore estero di stupefacente, pienamente inserito nel sodalizio criminoso costituitosi in Italia e che vedeva come primari componenti Te., P. e poi Z., F., V. ed il gruppo di acquirenti di Boscoreale.

Da ultimo, per ciò che attiene alla concreta operatività in Italia della struttura associativa in esame, la gravata sentenza ha opportunamente evidenziato in fatto, in termini in questa sede non censurabili, che, quanto meno in un’occasione, il T. venne anche fisica mente nel nostro territorio ad incontrare i correi (in data 3 giugno 2000, quando giunse a Milano in compagnia di Te.

S., per incontrarsi anche con Z., a bordo di un aereo proveniente da Amsterdam: vedansi le telefonate intercettate sulle utenze in suo uso e gli accertamenti di PG sulla lista passeggeri del volo, ove risulta proprio il suo nome.

Il motivo va quindi rigettato.

Con un secondo motivo si lamenta nullità del decreto che dispone il giudizio per indeterminatezza del capo di imputazione trattandosi nella specie di condotte vaghe, indeterminate, prive di riferimenti temporali che rendevano impossibile una seria attività difensiva.

La critica è inammissibile per genericità, posto che i motivi del ricorso per cassazione si sono limitati a enunciare ragioni ed argomenti già illustrati in atti o memorie presentate al giudice a quo, in modo disancorato dalla motivazione del provvedimento impugnato (Cass. pen. sez. 6, 22445 dell’8 maggio 2009 – depositata il 28 maggio 2009).

Inoltre, ed in ogni caso, la gravata sentenza aveva rilevato preliminarmente la tardività della prospettata questione di nullità, atteso che non si era in presenza di una presunta ipotesi di nullità assoluta ex art. 179 cod. proc. pen. (in quanto non attinente all’omessa citazione dell’imputato o all’assenza del suo difensore quando ne sia obbligatoria la presenza), bensì di una presunta ipotesi di nullità relativa riguardante la contestazione che, a norma dell’art. 181 c.p.p., doveva essere dedotta nel termine di cui all’art. 491 c.p.p., comma 1, ossia subito dopo il compimento delle formalità relative alla costituzione delle parti: nella fattispecie la presunta nullità dell’imputazione è stata intempestivamente dedotta per la prima volta davanti alla Corte e mai davanti al Tribunale in primo grado (cfr. in termini: Sez. 6, 12620/2010 Rv. 246740).

La Corte di appello poi, e nel merito, aveva puntualmente ed ineccepibilmente rilevato che: a) le imputazioni appaiono più che congruamente ed esaurientemente esposte, contenendo precisi riferimenti sia spaziali che temporali per ogni singolo fatto/reato contestato, sia analitiche indicazioni dei singoli correi, di volta in volta coinvolti nei singoli illeciti (e per altro nel reato associativo vi è anche una precisa collocazione del T. in un ruolo ben specificato); b) in concreto non si è comunque verificata alcuna lesione del diritto di difesa (e di conseguenza nessuna nullità) in quanto dagli altri elementi specificatoci enunciati nell’imputazione e soprattutto dal complesso delle informazioni portate a conoscenza dell’imputato (tutti gli altri provvedimenti ed atti depositati alla parte fin dall’esecuzione della ordinanza di custodia cautelare) risultavano chiaramente in tutti i loro termini i "fatti" per i quali il giudizio era stato disposto, escludendosi pertanto l’insufficienza della contestazione, non potendo sorgere dubbio alcuno sugli episodi oggetto delle imputazioni.

Conclusione questa perfettamente in linea anche con i più recenti orientamenti di questa Corte (cfr.: Sez. 5, 21269/2010 Rv. 247474) secondo cui deve ritenersi sufficiente l’enunciazione, nel decreto che dispone il giudizio, dell’ambito spaziale e temporale delle condotte e degli elementi specificatori dell’oggetto materiale del reato, quando sia possibile – come nell’odierna vicenda – collocare nel tempo e nello spazio l’episodio criminoso contestato.

Con un terzo motivo si prospetta nullità della sentenza di 1^ grado per mancata traduzione degli atti introduttivi del giudizio, fondata su un insostenibile affermazione di conoscenza della lingua italiana da parte del T., desunta: da uno scritto in lingua italiana con richiesta di colloquio; dalla circostanza che l’imputato aveva moglie oriunda italiana con cognome italiano.

Situazione questa tanto più grave – a detta del ricorrente – in quanto al momento dell’arresto il processo era già nella fase dell’udienza preliminare con la conseguenza che dopo una decina di giorni il ricorrente ha avuto notificati: l’avviso ex art. 415 bis cod. proc. pen., l’avviso di udienza preliminare; la richiesta di rinvio a giudizio e gli atti relativi alla richiesta stessa con indicazioni di prova.

Il motivo non può essere accolto.

Il ricorso contesta in particolare il giudizio di "conoscenza linguistica" sostenuto dai giudici di merito, ma tale critica viene svolta senza il necessario confronto puntuale con la ineccepibile ed articolata motivazione del giudice d’appello.

Infatti, in proposito, la corte distrettuale nell’affermare l’infondatezza della tesi difensiva, ha evidenziato con un giudizio di merito, coerentemente e logicamente argomentato, che il T. ben comprendeva (conosceva e parlava) la lingua italiana, e ciò ben prima del dibattimento e dunque, a prescindere dalle sue risposte in italiano rese nel suo interrogatorio dibattimentale.

In termini, la gravata sentenza ha infatti valorizzato, con una valutazione insindacabile in sede di legittimità, una pluralità di convergenti circostanze, tra le quali le circostanze:

a) che nel verbale di notifica dell’ordinanza di custodia cautelare si è dato atto che il T. rispondeva in lingua italiana, nominando il proprio difensore di fiducia;

b) che in una missiva resa alla casa circondariale di Rebibbia, nei primi momenti del suo arresto, il T. dichiarava di capire e parlare un po’ l’italiano;

c) che l’imputato aveva redatto, in carcere, più richieste in lingua italiana per ottenere l’autorizzazione alle telefonate ed ai colloqui con la moglie B.S., di nazionalità italiana;

d) che soprattutto nelle trascrizioni di alcune telefonate intercettate compiute in lingua italiana, telefonate nel corso delle quali colui che parlava – appunto in italiano – era proprio il T..

Da ciò la palese inammissibilità della doglianza.

Con un quarto motivo si evidenzia l’inutilizzabilità delle conversazioni telefoniche oggetto di perizia in sede di incidente probatorio in quanto di esse "non si è parlato nella richiesta di rinvio a giudizio", non potendo a contrario bastare la mancata opposizione dei difensori interpretata come "consenso" e tenuto conto che le trascrizioni e le relative perizie non erano in allora pervenute al Tribunale di Napoli.

Il motivo per come formulato è in questa sede inaccoglibile.

La difesa del T. ha eccepito in appello, ed ha oggi ripreso nel ricorso per cassazione, l’inutilizzabilità nei confronti del proprio assistito delle intercettazioni telefoniche, in quanto le stesse sarebbero state oggetto di perizia di trascrizione conferita dal Tribunale in un primo momento processuale, quando il T. non era ancora tra gli imputati a giudizio innanzi al primo giudice (l’incarico peritale venne conferito all’udienza del 19.5.2004 dinanzi alla 5 sezione penale, in assenza dell’imputato T., il quale veniva tratto a giudizio con decreto emesso in data successiva, risultando poi la sua posizione riunita al processo principale soltanto all’udienza del 20.12.2004).

Dalla decisione impugnata consta che all’udienza dibattimentale del 28.9.2005 il Pubblico Ministero aveva richiesto espressamente l’utilizzazione dei risultati della perizia trascrittiva già svolta nella fase predibattimentale e, preso atto del consenso di tutti i difensori (tra i quali anche quelli del T., presenti) che, espressamente e formalmente tutti interpellati sul punto dal Presidente, non si opponevano alla richiesta del PM, il Tribunale dichiarava l’utilizzabilità della relazione peritale medesima.

Bene pertanto i giudici di merito, in presenza di un consenso delle parti alla piena utilizzazione della relazione peritale ed in assenza di richieste difensive ulteriori formulate in quella sede, hanno ritenuto di non attribuire rilevanza alcuna alla circostanza che tale relazione costituisse il risultato di un’attività compiuta in un momento in cui alcuni imputati non erano ancora presenti nel processo: è proprio l’intervenuto accordo tra le parti che consente invero la piena utilizzabilità di tale perizia, trattandosi con tutta evidenza di atto non affetto da inutilizzabilità cd.

"patologica", quale derivante da una sua assunzione "contra legem".

Trattasi di interpretazione conforme a plurime decisioni di legittimità con conseguente rigetto della doglianza sul punto (cfr. ex plurimis: Sez. 6, Sentenza n. 25456/2009 Rv. 244589; Sez. 3, 35372/2007, Sez. 1, 8739/2003).

Pertanto la correttezza giuridica dell’assunto, validata da conformi decisioni di questa Corte, rende infondata la deduzione difensiva.

Con un quinto motivo si sostiene l’inutilizzabilità delle intercettazioni provenienti da flusso olandese per violazione delle norme di diritto internazionale che le disciplinano, versandosi nella specie a fronte di intercettazioni "estero su estero", e per di più acquisite in assenza di validi decreti autorizzativi attestanti la mera generica indisponibilità dei mezzi nella Procura della Repubblica e in difetto di urgenza.

La difesa del T. eccepisce l’inutilizzabilità nei confronti del proprio assistito delle intercettazioni telefoniche "per violazione delle norme di diritto internazionale" in quanto le stesse hanno riguardato il "flusso olandese": secondo la difesa sarebbe stata necessaria una rogatoria internazionale.

Anche questa deduzione è inaccoglibile. Invero è noto che qualora venga eccepita in sede di legittimità l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, va qui richiamato l’autorevole insegnamento delle S.U. che, in tema di ricorso, ha appunto stabilito essere onere della parte, che eccepisce l’inutilizzabilità di tali atti processuali, di indicare, pena l’inammissibilità del ricorso per genericità del motivo, non solo gli atti specificamente affetti dal vizio (onere questo non specificamente adempiuto nella specie) ma di chiarirne altresì la incidenza sul complessivo compendio processuale già valutato, sì da potersene inferire la decisività in riferimento al provvedimento impugnato (Sez. U, 23868/2009 Rv.

243416).

In applicazione di tale regola vanno pertanto considerate inammissibili, in tali sensi, per genericità del motivo, le doglianze concernenti i decreti in questione, posto che per essi il ricorrente ne ha sì eccepito l’inutilizzabilità, ma ha omesso radicalmente di indicare, neppure per cenni ed in modo sommario e per sintesi, quali sarebbero stati gli elementi probatori ricavati dai giudici di merito, da tali atti – dedotti come inutilizzabili ed effettivamente utilizzati – per deliberare i capi ed i punti della sentenza impugnata (cfr. in termini: Cass. pen. sez. 6, 35149/2010 Rv. 249367).

Nella specie infatti il ricorso si è limitato a "rielencare" una serie di pretese invalidità, per le quali comunque esiste una precisa e condivisibile risposta – in fatto e in diritto – da parte della Corte d’appello, la quale ha dato su ogni punto, oggi riprospettato in sede di legittimità, una corretta ed incensurabile risposta che ha avuto riguardo alle telefonate in uscita dall’Italia verso l’estero sia in entrata dall’estero in Italia, chiarendo con precisi richiami alle decisioni di legittimità (Cass. Sez. 4, 13206/2008; sez. 6, 10051/2007; sezione. 4, 35229/2005) come non sia necessario promuovere una apposita rogatoria internazionale allorquando, proprio come nel caso in esame, l’intera attività di captazione e registrazione si sia svolta sul territorio dello Stato Italiano. Il motivo va quindi rigettato.

Con un sesto motivo si illustra un ulteriore deduzione di nullità della sentenza (di 1 grado) posto che a fronte di domande inammissibili, formulate dal P.M., e a seguito delle opposizioni dei difensori, il Tribunale si è limitato ad affermare che non si sarebbe tenuto conto di quanto dichiarato dal teste S., le cui affermazioni peraltro hanno fondato il giudizio di responsabilità del T..

Il motivo non supera la soglia dell’ammissibilità in quanto è privo della sufficiente specificità e, per di più, non indica la concreta ricaduta, in termini di nesso causale delle affermazioni del S., utilizzate e frutto della pretesa condotta non rituale del P.M., sulla decisione di colpevolezza del T..

Con un settimo motivo si contestano le motivazioni che hanno sostenuto la colpevolezza del T. per i reati dei capi B1, B5, B9, B10, e per il reato associativo del capo B per il quale si contesta anche l’identificazione del T. con il colombiano.

Il motivo è palesemente infondato.

Si tratta infatti di una sequela di critiche alla decisione della Corte d’appello, le quali, in sostanza, attraverso una censura a singoli punti ed affermazioni dell’atto impugnato, tenta di screditare le considerazioni e le valutazioni probatorie, formulate dai giudici di merito, le quali risultano peraltro condotte ed ottenute, non solo nel rigoroso rispetto delle regole, stabilite in punto di formazione e peso del materiale probatorio d’accusa, ma soprattutto con una globale e complessiva disamina di tutti i singoli apporti probatori che sono stati tra loro correlati, con un conseguente esito di incensurabile sinergia, in punto di affermazione di colpevolezza.

La giustificazione offerta dalla corte distrettuale, in perfetta conformità con le statuizioni ed argomentazioni del giudice di primo grado, risulta infatti sui punti lamentati priva di incoerenze o salti logici, "apprezzabili ed idonei ad invalidare il costrutto delle argomentazioni di responsabilità", tali non potendosi considerare le diverse conclusioni e considerazioni più volte prospettate nel ricorso le quali finiscono con delineare una diversa e più favorevole interpretazione dei dati probatori, notoriamente non praticabile in sede di legittimità e tanto meno con esiti di annullamento della pronuncia gravata.

Con un ultimo ottavo motivo si rileva difetto di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

Il motivo è radicalmente privo di fondamento.

La corte distrettuale ha negato le circostanze attenuanti generiche correlando il suo giudizio (pag. 171) ad un insindacabile apprezzamento di una pluralità di dati di merito, in questa sede non contestabili per il loro finale e conclusivo esito negativo, quali:

la personalità pericolosa e trasgressiva dell’imputato, nonchè l’oggettiva rilevantissima gravità dei singoli fatti D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73.

Tutti i ricorsi pertanto devono essere respinti.

Pertanto, disposto lo stralcio della posizione di M.R., i ricorsi, nella verificata tenuta logica e coerenza strutturale del provvedimento impugnato, risultano infondati e le parti proponenti vanno condannate ex art. 616 c.p.p. al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Dispone lo stralcio della posizione di H.R.. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti a pagare le spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *