Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 15-06-2011) 22-07-2011, n. 29427 Dispositivo Nullità e inesistenza

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza pronunciata in data 28/07/2008, il g.u.p. del Tribunale di Milano dichiarava, fra gli altri, F.C. responsabile dei reati di riciclaggio e contraffazione di targhe e lo condannava alla pena di anni tre di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa.

2. Avverso la suddetta sentenza, il F. proponeva appello e la Corte di Appello di Milano, con sentenza pronunciata in data 19/10/2009, confermava la sentenza del g.u.p. nei confronti dei coimputati appellanti ma, nel dispositivo (letto in udienza e, quindi anche nella sentenza), ometteva di inserire il nome del F..

3. Il Presidente della Corte di Appello di Milano, quindi, emetteva nuovo decreto di citazione a giudizio per l’udienza del 27/10/2010 nei confronti del solo F. e la Corte, nella contumacia dell’imputato, in quella stessa data, confermava la predetta sentenza del g.u.p..

4. Avverso la suddetta sentenza della Corte di Appello, il F., a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:

1. violazione dell’art. 649 c.p.p. per avere la Corte territoriale celebrato un nuovo processo, nonostante esso ricorrente fosse stato già giudicato, per gli stessi fatti, con il processo conclusosi con la sentenza emessa in data 19/10/2009. Sostiene il ricorrente che la suddetta sentenza non poteva ritenersi inesistente per il solo fatto che il suo nominativo non era stato inserito nel dispositivo. In realtà, ci si trovava di fronte ad un’ipotesi di bis in idem secondo l’ampio concetto enunciato dalle SS.UU. con la sentenza n 34655/2005.

Illegittimamente, quindi, la Corte aveva proceduto alla separazione della posizione di esso ricorrente. 2. violazione degli artt. 648 Bis e 482 c.p.: ad avviso del ricorrente non sarebbe condivisibile l’assunto della Corte territoriale secondo il quale "il concorso nel reato di riciclaggio consisterebbe nella consapevolezza in capo al F. dell’utilizzo che sarebbe stato fatto delle targhe false da lui predisposte una volta consegnate a quanti avevano avuto a commissionarle. E’ ben vero, infatti, che difettando qualsivoglia addebito a carico del F. di partecipazione preordinata al piano criminoso dei coimputati, non è possibile ravvisare sussistente l’elemento soggettivo nemmeno a titolo di dolo eventuale difettando nella fattispecie, non essendo sufficiente la sola prevedibilità astratta dell’evento, la prova che il F. si fosse rappresentato in concreto proprio l’evento di riciclaggio, e non altre fattispecie, essendo peraltro a lui sconosciuti gli autori materiali della apposizione della targhe sulle autovetture e detentori della medesime".

Motivi della decisione

1. violazione dell’art. 649 c.p.p.: la censura è infondata per le ragioni di seguito indicate.

1.1. Il problema preliminare – per la soluzione della questione dedotta dal ricorrente – consiste nello stabilire se la sentenza pronunciata in data 19/10/2009 sia nulla o inesistente. La questione è importante perchè, nell’ipotesi in cui si optasse per la nullità della sentenza, in effetti, potrebbe, in astratto, ipotizzarsi il bis in idem, differentemente dal caso cui in cui si ritenesse che la sentenza emessa il 19/10/2009 è, nei confronti del ricorrente, inesistente.

1.2. Sul punto, va osservato che la dottrina, sebbene con diverse sfumature, non ha mai avuto dubbi sul fatto che, nonostante la categoria giuridica dell’inesistenza non sia prevista espressamente da alcuna norma del codice di rito, essa è immanente al sistema servendo a coprire tutta quell’area di vizi non rientranti nelle ipotesi di nullità, vizi talmente gravi che impediscono all’atto di sorgere in quanto, mancando degli elementi costitutivi ed identificativi suoi propri, lo rendono inidoneo a produrre alcun effetto giuridico. In altri termini, la differenza fra atto nullo e atto inesistente è quasi di natura ontologica perchè, mentre il primo, pur affetto da patologia, è conforme alla tipologia voluta dal legislatore ed è ben identificabile possedendo gli elementi costitutivi previsti dalla normativa di riferimento, al contrario, l’atto inesistente è estraneo al sistema giuridico essendo affetto da patologie talmente gravi che risulta privo di una sua fisionomia.

Ed è proprio tenendo presente tale definizione, che, a livello giurisprudenziale, si è ritenuto che sia inesistente:

– la sentenza "emessa da soggetto privato o pubblico che non abbia la qualità di giudice e che si sia arrogato i relativi poteri: si deve trattare, in sostanza, di una sentenza emessa "a non judice", cioè da un soggetto estraneo all’ordinamento giudiziario": Cass. 11386/1994 riv 199375;

– la sentenza emessa nei confronti di un soggetto estraneo al processo: Cass. 1246/1981 riv 152080;

– la sentenza pronunciata nei confronti di persona che, al momento della decisione, era già deceduta: Cass. 10199/2010 riv 246541;

– la sentenza pronunciata contro un minore non imputabile perchè infraquattordicenne: Cass. 5998/2009 riv 243363;

– la sentenza pronunciata contro persona inesistente: Cass. 1471/1994, P.m. c/Farinelli.

A seconda, poi, che l’atto sia qualificato come nullo o inesistente, le conseguenze giuridiche sono molto rilevanti.

Infatti, nell’ipotesi di un atto inesistente, trovando applicazione il brocardo quod nullum est nullum producit effectum, il giudicato non è idoneo a coprire la patologia (a differenza della nullità: ex plurimis Cass. 8677/1993 riv 195995 – Cass. 5998/2009 cit. – Cass. 1246/1981 cit.), dal che conseguono i corollari secondo i quali:

– l’atto è sempre soggetto ad essere impugnato ed annullato con una mera sentenza dichiarativa;

– costituisce potere – dovere di ogni giudice accertare e dichiarare la giuridica inesistenza di qualsiasi proprio atto (ex plurimis Cass. 1471/1994 riv 198000 – Cass. 31470/2003 riv 226207 – Cass. 10199/2010 cit.).

1.3. Così precisati i termini della questione, resta, a questo punto, da verificare se la mancanza del dispositivo sia una causa di nullità o inesistenza della sentenza.

La fattispecie in esame fu presa in esame – già nel lontano 1953 – dalle SS.UU. le quali precisarono che: "la distinzione tra atti processuali nulli e atti processuali inesistenti si fonda sulla insopprimibile differenza tra la violazione o la imperfezione di forme e la mancanza di elementi o requisiti essenziali. La nozione di entenza giuridicamente inesistente si desume dal diritto positivo, muovendo dalla norma contenuta nell’art. 475 c.p.p. e considerando i casi in cui mancano quegli elementi costitutivi essenziali che, per essere tali, trascendono l’ipotesi di nullità. In relazione agli effetti, la sentenza nulla, pur con le imperfezioni che contiene, esiste come atto processuale ed ha l’attitudine a passare in cosa giudicata vincolando il giudice che l’ha pronunciata; invece la sentenza giuridicamente inesistente, pur essendo una realtà di fatto, non è realtà giuridica, non ammette sanatoria, non acquista forza di cosa giudicata, non costituisce ostacolo a nuovo esercizio dell’azione penale, non può essere messa in esecuzione. Sotto il lato formale e processuale, sono classificabili tra le sentenze inesistenti quelle rese "a non judice" e quelle pronunciate contro una persona inesistente (non già semplicemente ignota); sotto il lato sostanziale, quelle tanto incomprensibili o ambigue da non potersi desumere la decisione in modo assoluto e quelle del tutto prive di dispositivo. La irregolarità processuale, preveduta come nullità nell’ipotesi di cui all’art. 185 c.p.p., n. 3, non determina l’inesistenza giuridica della sentenza": SS.UU. n 8/1953 Rv. 097320.

Tale principio (confermato da Cass. 741/1973 riv 124552), è stato, poi, ribadito anche a seguito dell’entrata in vigore del nuovo c.p.p. (in terminis Cass. 8677/1993 cit).

Questa Corte ritiene di dover dar seguito alla suddetta giurisprudenza per le ragioni di seguito indicate.

La fattispecie in esame deve farsi rientrare fra le ipotesi di inesistenza della sentenza perchè, nella sequenza processuale, il dispositivo costituisce parte integrante ed ineludibile della sentenza essendo l’atto conclusivo del processo, ossia l’atto dichiarativo con il quale il giudice, in esplicazione della volontà sovrana dello Stato, decide, immediatamente, all’esito del dibattimento, sopra una pretesa punitiva contro una determinata persona esistente. Di conseguenza, ove nel dispositivo sia omessa la pronuncia nei confronti dell’imputato, la sentenza deve ritenersi tanquam non esset.

1.4. Diversamente sembrerebbe, però, disporre l’art. 546 c.p.p., comma 3 a norma del quale la "sentenza è nulla se manca il dispositivo".

Per la corretta comprensione della suddetta norma, il contesto normativo cui occorre far riferimento è costituito dal combinato disposto dell’art. 545 c.p.p., comma 1 e art. 546 c.p.p., lett. f).

L’art. 545 c.p.p., comma 1 dispone che "la sentenza è pubblicata in udienza dal presidente o da un giudice del collegio mediante la lettura del dispositivo": è evidente, che tale norma prevede il dispositivo nella sua duplice accezione di mero documento (a sè stante rispetto alla sentenza) e di documento contenente la decisione del giudice. L’art. 546 c.p.p., a sua volta, nel disporre quali debbano essere i requisiti (formali) della sentenza come documento, precisa, alla lettera f), che la sentenza deve contenere "il dispositivo con l’indicazione degli articoli". Non pare dubbio, quindi, che il dispositivo di cui parla l’art. 546 c.p.p., lett. f), non può che essere il dispositivo di cui all’art. 545 c.p.p. ossia il documento contenente la decisione e meramente riproduttivo di quello (separato) letto in udienza. In altri termini, il modello procedimentale che il legislatore ha preso in considerazione negli artt. 545 e 546 c.p.p. si realizza attraverso la seguente sequenza:

1) lettura del dispositivo attraverso cui il giudice estrinseca la sua decisione; 2) successiva redazione della sentenza in cui il giudice, oltre che esplicitare le ragioni della decisione (motivazione), riproduce, alla lettera, il contenuto del dispositivo già letto.

E’, pertanto, evidente che la nullità prevista dall’art. 546 c.p.p., comma 3 (e non emendabile neppure con la correzione dell’errore materiale), non può che inserirsi all’interno della suddetta sequenza e, quindi, si realizza nell’ipotesi in cui, pur essendo stata la decisione assunta (attraverso la lettura del dispositivo), il dispositivo, inteso come documento, non è più rinvenibile fra gli atti processuali e non sia neppure ricostruibile ex art. 113 c.p.p..

Al contrario, l’ipotesi dell’omessa pronuncia, non è stata neppure considerata dal legislatore perchè, collocandosi fuori dall’intero sistema processuale, non può che integrare gli estremi dell’inesistenza giuridica proprio perchè, mancando una decisione non è possibile neppure parlare dell’esistenza di una sentenza.

1.5. La suddetta interpretazione trova conferma a livello storico e giurisprudenziale.

A livello storico, deve rammentarsi che il vigente art. 546 c.p.p., comma 3 riproduce (alla lettera) il previgente art. 475 c.p.p., n. 4.

Peraltro, soggiungeva, il previgente art. 476 c.p.p., n. 3 che si provvedeva alla rettificazione, anche d’ufficio della sentenza "quando il dispositivo della sentenza è difforme da quello letto all’udienza ed esistente agli atti".

Tale norma non è stata più riprodotta nel vigente c.p.p..

Dalla lettura combinata dei previgenti artt. 475 c.p.p., n. 4 e art. 476 c.p.p., n. 3, la dottrina, aveva enucleato le seguenti ipotesi:

– dispositivo letto in udienza ed esistente agli atti e sentenza che conteneva un dispositivo incompleto o mancante: in tal caso, la difformità veniva sanata con la mera correzione ex art. 476 c.p.p., n. 3;

– dispositivo letto in udienza, non più esistente agli atti, ma di cui faceva fede il verbale o che, comunque, potesse essere ricostruito aliunde: in tale ipotesi, alcuni ritenevano che si vertesse nel caso di nullità previsto dall’art. 475 c.p.p., n. 4, altri, sostenevano che il dispositivo, di cui vi era certezza stante il verbale d’udienza, potesse essere ricostruito a norma degli artt. 162 e 163 c.p.p. (ora artt. 112 e 113 c.p.p.), sicchè facevano rientrare nell’ipotesi della suddetta nullità il caso della mancanza di entrambi i dispositivi (sia quello d’udienza che della sentenza).

Era, comunque, pacifico, al di là delle suddette differenziazioni, che la nullità prevista dall’art. 475 c.p.p., n. 4 si riferisse alla mancanza del dispositivo come documento e non del dispositivo come decisione. Al contrario, qualora il dispositivo inteso come decisione mancava, vi era concordia nel ritenere che si vertesse in un’ipotesi diversa da quella prevista dall’art. 475 c.p.p., n. 4 ed esattamente in un caso di inesistenza della sentenza proprio perchè, non solo mancava il documento, ma mancava anche la decisione (cfr sul punto SS.UU. 8/1953 cit).

Questo inquadramento sistematico è stato mantenuto sostanzialmente fermo dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità, anche a seguito dell’entrata in vigore del nuovo c.p.p., sebbene non sia stato più riprodotto il previgente art. 476 c.p.p..

Infatti, questa Corte, in un’ipotesi in cui il dispositivo della sentenza era incompleto rispetto al dispositivo letto in udienza ed esistente agli atti, ha statuito che "l’omessa o incompleta trascrizione nell’originale della sentenza del dispositivo letto in pubblica udienza non integra la nullità di cui all’art. 546 c.p.p., comma 3, trattandosi di una mera assenza grafica sanabile con la procedura di correzione degli errori materiali di cui all’art. 130 c.p.p." ed ha precisato che "sebbene l’art. 547 c.p.p. non ribadisca espressamente il possibile ricorso a tale specifica forma di correzione, al pari di quanto era previsto dall’art. 476 c.p.p. 1930, comma 1, n. 3) ("quando il dispositivo della sentenza è difforme da quello letto all’udienza ed esistente negli atti"), non sembra revocabile in dubbio l’applicabilità della procedura correttiva, che – alla luce del combinato disposto dell’art. 546 c.p.p., comma 3 e art. 547 c.p.p. – diviene non percorribile soltanto nel caso in cui la "mancanza" (o incompletezza) del dispositivo sia totale e assoluta" (Cass. 12308/2008 riv 239329 -Cass. 49485/2003 riv 227071;

contro: Cass. 25805/2002). L’ipotesi della mancanza della decisione nel dispositivo letto in udienza, è stato preso, invece, in esame, da questa Corte in tre decisioni:

nella sentenza n 8677/1993 cit. (omessa pronuncia nei confronti dell’imputato in relazione ad alcuni capi di imputazione), nell’annullare, d’ufficio, la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al giudice di primo grado, la Corte ha precisato che "l’art. 546 c.p.p., u.c., commina la nullità della sentenza ove manchi o sia incompleto il dispositivo: tuttavia nei casi di assoluta mancanza del dispositivo, la sentenza, più che nulla, deve considerarsi inesistente, anche perchè insuscettibile di passare in giudicato, talchè la lacuna decisoria può essere rilevata pur in assenza di impugnazione delle parti";

nella sentenza n 13559/2009 riv 243141 (in una fattispecie in cui era stata omessa, nel dispositivo letto in udienza, il nominativo di uno degli imputati), la Corte, essendo stato proposto tempestivo e rituale ricorso per cassazione da parte dello stesso imputato, pur annullando la sentenza impugnata, ha ritenuto di soprassedere sulla questione se la patologia fosse qualificabile come inesistenza o nullità, non avendo rilevanza nel caso di specie; nella sentenza n 745/1999 riv 212770 (in un’ipotesi in cui il pretore, avendo omesso nel dispositivo il nominativo di uno degli imputati e l’indicazione della relativa pena, aveva ritenuto di poter emettere ordinanza di correzione dell’errore materiale) la Corte si è limitata ad annullare, in quanto atto abnorme, la suddetta ordinanza.

1.6. Questa Corte, alla stregua dell’illustrata ricostruzione storica della questione, dell’attuale normativa e dell’interpretazione che di essa è stata data dalla giurisprudenza di legittimità, ritiene, pertanto, che la nullità prevista dall’art. 546 c.p.p., comma 3 si riferisca all’ipotesi della mancanza (o incompletezza) del dispositivo come documento, nel senso che, sebbene la decisione sia stata presa con il dispositivo letto in udienza, il dispositivo, inteso come documento fisico, non solo non esista più agli atti, ma non è neppure ricostruibile a norma dell’art. 113 c.p.p..

Sarebbe irrilevante, ai fini della declaratoria della nullità, che, in mancanza del dispositivo letto in udienza (art. 545 c.p.p.), la sentenza, redatta ex art. 546 c.p.p., contenesse ugualmente il dispositivo. Infatti, il dispositivo della sentenza non potrebbe avere l’effetto di sanare la nullità derivante dalla mancanza fisica del dispositivo letto in udienza essendo meramente riproduttivo di quest’ultimo. In altri termini, il dispositivo cui parametrare la nullità prevista dall’art. 546 c.p.p., comma 3, è quello letto in udienza ex art. 545 c.p.p., tant’è che ad esso, ove esista agli atti, si deve uniformare il dispositivo della sentenza (anche tramite mera correzione ove quest’ultimo sia differente, incompleto o mancante: Cass. 12308/2008 cit), operazione, invece, non consentita al contrario per l’ovvia ragione che una riproduzione non può avere l’effetto di autenticare e convalidare l’originale non più esistente nè ricostruibile.

Che questa sia l’ipotesi prevista dalla norma in esame, lo si desume, poi, dall’art. 545 c.p.p., comma 1 che prevede, appunto, che la sentenza è pubblicata in udienza "mediante la lettura del dispositivo" con il quale il giudice esplicita la decisione assunta nei confronti dell’imputato.

Se, però, della suddetta decisione non resta traccia nel dispositivo (che non viene più ritrovato negli atti e non è ricostruibile), la sentenza non può che essere nulla.

Diverso, come si è illustrato, è invece, il campo di operatività dell’inesistenza della sentenza, nell’ambito della quale va ricompressa propria la fattispecie in esame come desumibile, peraltro, anche da un dato fattuale che ammette lo stesso ricorrente e cioè che la sentenza emessa in data 19/10/2009, pur non essendo stata impugnata, non è mai passata in giudicato per il semplice motivo che non è eseguibile, ovvio essendo che non può essere eseguita una decisione che non sia mai stata resa.

1.7. Chiarito, quindi, che la sentenza del 19/10/2009, nella parte in cui ha omesso ogni decisione nei confronti dell’imputato oggi ricorrente, va ritenuta inesistente, resta da spiegare quali siano gli strumenti giuridici per porre rimedio alla suddetta situazione.

La peculiarità della fattispecie in esame (e la rilevanza della questione se la sentenza del 19/10/2009 sia affetta da nullità o inesistenza), consiste, infatti, nella circostanza che la sentenza non è stata impugnata e, nei confronti dell’imputato, la Corte territoriale ha emesso un nuovo decreto di citazione a giudizio per quegli stessi fatti per i quali era stato processato.

Sicuramente, le parti (imputato e P.m.) ben avrebbero potuto impugnare la suddetta decisione lamentando il vizio di omessa pronuncia (in terminis Cass. 13559/2009 cit): ma tale via non è stata seguita.

Altra soluzione è, però, quella seguita dalla stessa Corte di Appello il cui Presidente, accortosi dell’errore, d’ufficio, ha proceduto ad emendarlo con l’emissione di un nuovo decreto di citazione a giudizio e la celebrazione di un nuovo processo.

La suddetta soluzione deve considerarsi incensurabile, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, perchè – come si è detto – si tratta di un vizio rilevabile d’ufficio ed emendabile dallo stesso giudice che l’ha provocato: deve, infatti, ritenersi che l’emissione del nuovo decreto di citazione a giudizio abbia avuto l’effetto di un’implicita presa d’atto dell’inesistenza della sentenza con conseguente doverosa celebrazione di un nuovo processo.

E’ da escludere l’annullamento della sentenza impugnata perchè, alla fin fine, a seguito dell’autonoma iniziativa della Corte territoriale, l’imputato ha raggiunto lo stesso risultato che avrebbe ottenuto ove avesse impugnato la sentenza inesistente (ossia la celebrazione di un nuovo processo).

Sotto questo profilo, quindi, potrebbe addirittura ipotizzarsi una carenza d’interesse ad agire ad ottenere l’annullamento dell’impugnata sentenza, non essendo ammissibile che, nella carenza impugnatoria della sentenza inesistente, il processo rimanga sine die pendente con un duplice danno sia a carico dell’imputato (per violazione del diritto a vedersi processato in termini ragionevoli) sia a carico della collettività (per rischio prescrizione e, in ipotesi, anche di una condanna dello Stato per violazione della legge n. 89/2001). Infine, è appena il caso di rilevare che non è ipotizzabile alcuna violazione dell’art. 649 c.p.p. per l’ovvia ragione che, essendo la sentenza (inesistente) tamquam non esset nei confronti del ricorrente, non è configurabile, neppure in astratto, alcun contrasto di giudicato: non è, quindi, invocabile il principio enunciato dalle SS.UU. con la sentenza n 34655/2005. 1.8. In conclusione, la doglianza dev’essere respinta alla stregua del seguente principio di diritto: "la nullità prevista dall’art. 546 c.p.p., comma 3, è configurabile nell’ipotesi in cui, pur essendo stata la decisione assunta (attraverso la lettura del dispositivo), il dispositivo, inteso come documento, non è più rinvenibile fra gli atti processuali e non è neppure ricostruibile ex art. 113 c.p.p..

Pertanto, l’omissione, nel dispositivo letto in udienza e riprodotto in calce alla motivazione, del nominativo di uno degli imputati, non rientra nella predetta nullità ma rende, in parte qua, la sentenza inesistente nei confronti dell’imputato il cui nominativo sia stato omesso.

Deve ritenersi corretta la decisione del Presidente della Corte di Appello che ha emanato la sentenza inesistente, di emettere – in mancanza di impugnazione della suddetta sentenza – un nuovo decreto di citazione a giudizio per la celebrazione di un nuovo processo a carico dell’imputato". 2. violazione degli artt. 648 bis e 482 c.p.: la censura, nei termini in cui è stata dedotta, è manifestamente infondata.

Infatti, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, la Corte territoriale ha chiarito, replicando così alla specifica censura dedotti dall’appellante, che "(…) le considerazioni svolte in premessa sui contatti che in ogni singolo episodio sono risultati tra F. e C. da una parte e il V. dall’altra, sempre secondo le modalità consolidate che sono state più volte sopra descritte, con una tempistica tale da non lasciare adito a dubbi in ordine ai soggetti per cui pacificamente F. operava e con il quale era consapevole di collaborare".

In questa sede, il ricorrente non fa altro che riproporre la stessa identica doglianza ma la medesima deve ritenersi generica ed aspecifica rispetto alla citata motivazione che, puntualmente, alla stregua di ben precisi elementi fattuali, ha evidenziato che il F. era ben consapevole di collaborare all’attività di riciclaggio cui le targhe erano destinate: nel che si concretizza proprio l’elemento del concorso avendo avuto l’attività svolta dal ricorrente un’indubbia efficienza causale nella consumazione del contestato reato.

3. In conclusione, l’impugnazione deve rigettarsi con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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