Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 20-04-2011) 22-07-2011, n. 29435 Cognizione del giudice d’appello pena

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

C.M., tramite il difensore ricorre per cassazione avverso la ordinanza 22.11.2010 con la quale il Tribunale del riesame di Milano ha confermato il provvedimento di rigetto della istanza di revoca della misura cautelare della custodia in carcere emesso il 22.9.2010 dal Giudice delle indagini preliminari.

L’odierno ricorrente con ordinanza 5.7.2010, eseguita il 13.7.2010 è stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere per i seguenti delitti.

"67) artt. 110 e 644 c.p., D.L. n. 152 del 1991, art. 7, perchè in concorso con CR.Fr., V.P., pattuivano con M.P. la restituzione di Euro 168.000,00 (consegnati parte in denaro e in parte in titoli di credito) a fronte di un prestito di Euro 70.000,00, in tal modo pattuendo e riscuotendo interessi di carattere usurario.

Con l’aggravante di avere commesso il fatto per agevolare l’associazione di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta operante sul territorio di (OMISSIS) e province limitrofe costituita da numerosi locali coordinati dall’organo denominato "La Lombardia".

In luogo imprecisato fino al (OMISSIS).

"68) artt. 110 e 81 c.p., art. 629 c.p., comma 2 in riferimento all’art. 628, comma 3, n. 3 e art. 7 D.L. n. 152/911, perchè in concorso con CR.Fr., V.P., in tempi diversi ed in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, mediante minaccia, consistita nel prospettare a M.P. di mandarlo all’ospedale, di massacrarlo, di violentargli la moglie, costringevano il M. a corrispondere interessi usurari indicati al capo che precede, ottenendo in tal modo profitto con altrui danno.

Con le aggravanti di avere commesso il fatto per agevolare il sodalizio criminoso indicato al capo che precede con modalità mafiose e del fatto commesso da appartenente al sodalizio.

In luogo imprecisato fino al (OMISSIS)".

Nel corso dell’esame di cui all’art. 294 c.p.p. il C. ha illustrato la natura dei rapporti economici intercorsi con M. P., dando una propria versione dei fatti sulla base di quanto acquisito a livello investigativo nel corso delle indagini preliminari, anche attraverso le intercettazioni telefoniche.

In data 14.9.2009 il M.P. (persona offesa), sentito a sommarie informazioni testimoniali, ha dichiarato di non avere mai ricevuto prestiti da parte del C., ma, per effetto di una complessa manovra finanziaria (in atti descritta vv. pp. 3 e 4 dell’ordinanza impugnata, di essere in debito verso lo stesso della somma di Euro 125.000,00, senza peraltro saper spiegare per quale ragione la somma dovuta ascendesse a Euro 168.000,00 come appurato attraverso le indagini.

Con istanza del 13.9.2010 i difensori dell’imputato, prospettando una ricostruzione dei fatti, alternativa a quella contenuta nel capo di imputazione, hanno richiesto al giudice delle indagini preliminari la revoca della misura cautelare attesa la insussistenza del delitto di usura e per conseguenza anche del connesso delitto di estorsione, mettendo in evidenza altresì la incensuratezza del prevenuto, la sua estraneità alla organizzazione mafiosa. A fronte della reiezione della istanza da parte del Giudice delle indagini preliminari, la difesa ha proposto appello presso il Tribunale del riesame che ha parzialmente accolto l’impugnazione della difesa; infatti il Tribunale ha annullato la misura cautelare in relazione al delitto di usura (capo 67 della imputazione), ritenendo insufficienti gli indizi, senza peraltro escludere l’esistenza dell’illecito in questione, apparendo necessaria un approfondimento delle indagini; lo stesso Tribunale, per contro, ha confermato la misura cautelare in relazione al delitto di estorsione (capo 68 della imputazione), ravvisandola comunque anche nel caso della diversa prospettazione della vicenda formulata dalla difesa dell’imputato.

Ricorre pertanto per Cassazione la difesa avverso la decisione del Tribunale del riesame deducendo: 1) il vizio di violazione di legge (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e c) in riferimento agli artt. 393 e 629 c.p. e artt. 310 e 597 c.p.p.); 2) vizio di motivazione in ordine alla giustificazione della misura cautelare; 3) vizio di motivazione ed erronea applicazione della legge avendo il Tribunale ritenuto sussistente la fattispecie di cui all’art. 629 c.p., in luogo di quella prevista dall’art. 393 c.p..

Con il primo motivo la difesa sostiene che il Tribunale del riesame, quale giudice dell’appello, ha esorbitato dai limiti della propria cognizione prospettando una ipotesi estorsiva completamente diversa ancorandola non più alla finalità del conseguimento dell’illecito profitto, ma nella modalità della minaccia perpetrata per la riscossione di somme dovute dalla persona offesa. Ad avviso della difesa, nella specie si verserebbe nella illegittima contestazione di un fatto diverso, mentre il Tribunale si sarebbe dovuto limitare a prendere in considerazione le censure mosse dalla difesa, senza poter operare alcuna modificazione della imputazione.

La doglianza è infondata, perchè se è condivisibile la premessa giuridica dalla quale parte la difesa, appare errata la sua applicazione al caso concreto.

In linea generale va qui confermato che il Tribunale del riesame, anche in funzione di giudice dell’appello, mentre può attribuire una diversa qualificazione giuridica al fatto ascritto (v. in tal senso Cass. Sez. 2, n. 4638/1999; Cass. Sez. 2, 5202/2000; Cass. Sez. 5, n. 3188/2002; Cass. Sez. 3, n. 4549/2007; Cass. SU n. 16/1996, per contro, non ha il potere di modificare la originaria contestazione mossa dal Pubblico Ministero con la richiesta della applicazione della misura (v. da ultimo Cass. Sez. 6, 24481/2009. Nel caso di specie, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa, il Tribunale Milanese non ha ecceduto i limiti suddetti, perchè non ha modificato il fatto di estorsione contestato; questo, nei suoi elementi costitutivi, è rimasto invariato rispetto alla originaria imputazione. Infatti, non sono stati modificati: il tempo, il luogo del commesso reato, gli autori dell’illecito, il soggetto passivo, l’oggetto della pretesa, le modalità di esercizio della violenza. Di qui deriva che il C. è chiamato a rispondere ad una accusa di estorsione che, sotto il profilo fattuale (quale accadimento della realtà), è identica a quella contestata, essendo stato diversamente apprezzato solo il "movente" dell’illecito. Il Tribunale del riesame, non escludendo la sussistenza del delitto di usura (mancando comunque la prova della liceità della richiesta della somma al M.), ha ritenuto comunque immutato il quadro probatorio relativo alla estorsione, alla quale (invariati gli elementi costitutivi) ha attribuito un diverso movente pur sempre ipotizzarle nella fluidità degli accertamenti in corso. Sotto questo profilo il Tribunale del riesame, ancorchè in funzione del giudice dell’appello, non ha quindi modificato l’imputazione (quale fatto naturalistico contestato), ma ha solo ravvisato un diverso movente (motivo soggettivo che spinge alla commissione del reato) che non rientra fra gli elementi costitutivi del reato (v. Cass. Sez. 1, n. 7342/2007).

Nell’assumere la decisione, il Tribunale milanese non ha superato i limiti della sua cognizione, per le ragioni già affermate in precedenti pronunce di questa Corte e che il collegio ritiene di condividere, dovendosi ribadire che "Appartiene al giudice di appello il potere di integrazione e sostituzione della motivazione del provvedimento impugnato, in quanto, investito della cognizione piena del fatto, anche se circoscritta ai punti in contestazione esso non è vincolato, ai fini della decisione, dalla motivazione del provvedimento impugnato, bensì può sostituirla, modificarla o integrarla secondo il suo convincimento. Tale principio, non trova deroga in tema di provvedimenti restrittivi della libertà personale, ove il diverso grado di cognizione del Tribunale della Libertà in sede di riesame e in sede di appello è determinato solo dal fatto che in sede di riesame la sua cognizione è piena, avendo egli gli stessi poteri del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, mentre in sede di appello la sua cognizione è circoscritta ai punti della decisione che formano oggetto di censura." (Cass. Sez. 4, n. 1491/97 e nello stesso senso da ultimo Cass. Sez. 1, n. 27677/2009).

Con il secondo motivo, la difesa lamenta che il Tribunale del riesame sarebbe venuto meno al principio devolutivo anche in punto motivazione avendo ravvisato gli estremi della esigenza cautelare richiamando quella di cui all’art. 274 c.p.p., lett. a), non ravvisata nella ordinanza cautelare e nel provvedimento impugnato che ha preso in considerazione solo quella di cui alla lettera c) della norma citata. In particolare, la difesa sostiene che il giudice dell’appello "…(forse inconsciamente consapevole dall’insussistenza, nella fattispecie in esame, del pericolo di reiterazione) ha integrato (sic) il provvedimento delle indagini prospettando ex novo una esigenza cautelare ritenuta insussistente persino nella ordinanza appellata…" (pag. 4 del ricorso). La doglianza è inammissibile ex art. 568 c.p.p., comma 4.

Il Tribunale del riesame non ha escluso la sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p., lett. c) avendo espressamente affermato, con valutazione non sindacabile nel merito, che "la condotta del C. fa presumere che potrebbe continuare a minacciare pesantemente il M. al fine di ottenere il pagamento di notevoli somme di denaro necessario a coprire esposizioni pregiudizievoli per la sua attività economica" (pag. 6 dell’ordinanza). Trattasi di valutazione non irragionevole o manifestamente illogica alla luce della pregressa descrizione della condotta criminosa dell’indagato, fatta sulla scorta degli elementi di prova (intercettazioni telefoniche) puntualmente richiamati (v. pp. 2 e 3 dell’ordinanza) e tali da svuotare di contenuto la censura di motivazione apparente prospettata dalla difesa al punto 4^ del ricorso. Dalla complessiva motivazione del provvedimento impugnato si evince infatti che il Tribunale non ha ritenuto convincente l’atteggiamento confessorio dell’indagato atteso che l’organo giudicante non è pervenuto alla conclusione che quanto dichiarato dal C., in ordine ai rapporti economici intercorsi con il M., potesse escludere in radice il movente dell’usura, non essendo stati forniti chiarimenti in merito alle causali del credito richiesto (Euro 168.000,00 che appare di importo maggiore rispetto a quanto affermato dal M. (Euro 125.000,00) (v. pag. 4 della ordinanza. La circostanza che il Tribunale milanese abbia comunque ritenuto la permanenza della originaria esigenza cautelare, già contemplata nel provvedimento impugnato, rende privo di concreto interesse giuridico la censura formulata in riferimento alla nuova esigenza cautelare ( art. 274 c.p.p., lett. a) che si aggiunge a quella già precedentemente contemplata e non la sostituisce.

Pertanto la censura è manifestamente infondata.

Con un terzo motivo la difesa lamenta il fatto che il Tribunale, senza sufficiente motivazione, abbia ritenuto estorsiva la richiesta della somma di Euro 165.000,00, ravvisando in tale condotta un’ipotesi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

La censura è manifestamente infondata perchè il tribunale, contrariamente a quanto lamentato dal ricorrente, con motivazione ancorchè sintetica, ma adeguata ha reso conto delle ragioni della propria decisione attraverso il richiamo e la applicazione di due decisioni di questa Corte (Cass. Sez. 2, n. 35610/2007 e Cass sez. 5, n. 28583/2010).

La valutazione della portata intimidatrice delle minacce (tali da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto) profferite nei confronti del M., attiene al merito del giudizio, come tale non sindacabile nella presente sede, con la conseguenza che la doglianza è inammissibile.

Il ricorso va pertanto rigettato e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.

Si manda alla cancelleria per le comunicazioni di legge ex art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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