Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 20-04-2011) 22-07-2011, n. 29411 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

N.P.O., I.A.A., T.D. A., TA.AL., tramite i rispettivi difensori, ricorrono per Cassazione avverso la decisione 20.4.2010 con la quale la Corte d’Appello di Roma, ha così deciso, in riforma della pronuncia 8.6.2009 del Gup di Roma:

"visti gli artt. 127 e 605 c.p.p. in riforma della sentenza del Tribunale di Roma in data 8.6.2009 appellata da……..: assolve N.P.O. del reato ascritto al capo 1 (ndr. artt. 110 e 81 cpv. c.p.; D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 e art. 80, comma 2; L. n. 146 del 2006, art. 4) delle rubrica perchè il fatto non sussiste, esclusa la recidiva, riduce la pena per i rimanenti reati ad anni dodici mesi sette e giorni venti di reclusione;……..riduce la pena inflitta ad I.A.A. ad anni quattro e mesi sei di reclusione ed Euro 40.000,00 di multa……per T.D.A. determina la pena complessiva, ritenuta la continuazione con la sentenza 743/08 del Tribunale di Verona del 10.7.2008 e ritenuto più grave il fatto accertato in data (OMISSIS), in anni quattro mesi otto di reclusione e Euro 45.000,00 di multa….

Assolve TA.Al. dal reato ascritto al capo 13 (ndr. reato di cui agli artt. 110 e 81 cpv. c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e L. n. 146 del 2006, art. 4) della rubrica per non avere commesso il fatto determinando la pena per il rimanente reato ad anni quattro di reclusione e Euro 20.000,00 di multa….".

Le difese degli imputati, richiedono l’annullamento della impugnata sentenza e deducono rispettivamente quanto segue:

N.P.O.:

1.) ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), la violazione dell’art. 178 c.p.p., lett. c) e art. 127 c.p.p., comma 3, perchè, la Corte territoriale, con ordinanza ha respinto (affermandone la tardi vita) la richiesta dell’imputato (depositata in cancelleria in data 10.4.2010), detenuto presso il carcere di Lanciano, di essere presente alla udienza del 12.4.2010. 2.) ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) l’erronea applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, nonchè vizio della motivazione, attesa la inefficacia dimostrativa del contenuto delle intercettazioni telefoniche utilizzate dalla Corte territoriale per affermare il ruolo di coordinatore del ricorrente della associazione criminale dedita al traffico internazionale di stupefacente.

3) ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c), e) la erronea determinazione della pena, vuoi in ordine alla individuazione del reato più grave sulla cui base determinare gli aumenti di pena per continuazione, sia per la erronea determinazione della pena base.

Il primo motivo, assorbente rispetto agli altri è fondato e va accolto.

Dall’esame degli atti del procedimento (consumabili da questo collegio attesa la natura processuale della violazione di legge denunciata), risulta che con istanza depositata 10.4.2010 l’imputato, detenuto presso il Carcere di Lanciano aveva richiesto di partecipare all’udienza da celebrarsi in data 12.4.2010.

La Corte territoriale (in sede camerale di appello ex art. 599 c.p.p.), sollecitata dalla difesa che aveva segnalato la assenza dello imputato perchè non tradotto, non ha accolto la relativa richiesta, siccome proposta oltre il termine di cinque giorni previsto dall’art. 127 c.p.p., comma 2, disponendo comunque la traduzione dell’imputato per la successiva udienza del 20.4.2010. La difesa lamenta che in tal modo sarebbero stati frustrati i diritti di difesa dell’imputato, perchè, essendo già iniziata la fase della discussione, lo stesso non era stato posto nelle condizioni nè di essere interrogato, nè di rendere dichiarazioni spontanee.

La fattispecie in esame trova soluzione nella decisione delle Sezioni Unite della Cassazione 24.6.2010 n. 35399 (in Ced cass.Rv 247836) ove, dirimendo il contrasto giurisprudenziale formatosi sulla interpretazione dell’art. 599 c.p.p., il Supremo Collegio ha affermato che "la mancata traduzione all’udienza camerale d’appello, perchè non disposta o non eseguita, dell’imputato che abbia tempestivamente manifestato in qualsiasi modo la volontà di comparire e che si trovi detenuto o soggetto a misure limitative della libertà personale, determina nullità assoluta ed insanabile del giudizio camerale e della relativa sentenza".

Dalla motivazione della richiamata decisione possono trarsi i seguenti principi: a) in grado di appello, il rito camerale si svolge con le forme di cui all’art. 599 c.p.p., disposizione quest’ultima che è richiamata, nell’ambito della disciplina del rito abbreviato, dall’art. 443 c.p.p., comma 4.; b) il procedimento camerale previsto dall’art. 599 c.p.p., diverge parzialmente dalla più rigida disciplina prevista dall’art. 127 c.p.p.; c) secondo l’art. 127 c.p.p. il diritto dell’appellante detenuto di partecipare alla udienza, sarebbe subordinato ad una duplice condizione: – che egli sia ristretto nel medesimo distretto della Corte d’Appello (circostanza, quest’ultima non ricorrente nel caso in esame essendo il ricorrente detenuto presso il carcere di Lanciano); – che, in ogni caso, l’imputato abbia fatto alla Corte d’Appello, richiesta di essere sentito osservando il termine stabilito dall’art. 127 c.p.p., ossia fino a cinque giorni prima dell’udienza.

Rilevano le Sezioni Unite che, a fronte di un filone giurisprudenziale favorevole alla rigida applicazione del combinato disposto degli artt. 599 e 127 c.p.p. (recentemente ancora affermato da Cass. Sez. 6, 17.9.2009 n. 39675 in Ced Cass. Rv 244777), se ne contrappone un altro, in base al quale, l’imputato detenuto, se lo richiede, ha il diritto di presenziare al giudizio camerale di appello (avverso la sentenza pronunciata con il rito abbreviato) anche se non ricorrono le due condizioni prima indicate; afferma la Corte Suprema, a tal proposito, che la seconda soluzione è da preferirsi, perchè l’art. 599 c.p.p. è norma speciale rispetto all’art. 127 c.p.p. e quindi prevalente rispetto a quest’ultima; la soluzione indicata è aderente allo spirito dell’art. 111 Cost., art. 6, comma 3, lett. c), d) e) della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, prevedendo tali disposizioni, per la attuazione dei diritti in essi previsti, la necessaria presenza dell’imputato ed è conforme al dettato dell’art. 14 comma 3 lett. d), e), f) del Patto internazionale sui diritti civili e politici (adottato a Nuova York il 16,12.1966 e reso esecutivo in Italia con L. 25 ottobre 1977, n. 881) che riconosce implicitamente il diritto di ogni individuo accusato di una reato di essere presente al processo, oltre che di difendersi personalmente o mediante un difensore di sua scelta, di interrogare e fare interrogare testimoni e di farsi assistere gratuitamente da un interprete.

Va ancora osservato (sempre sulla scorta della decisione richiamata) che l’interpretazione indicata, trova conforto anche nella sentenza 45/1991 della Corte Costituzionale, la quale, con riferimento al diverso procedimento di "riesame" (che si svolge peraltro con il rito camerale), ha chiarito l’assoluta importanza dell’instaurazione del contraddittorio di fronte al giudice che dovrà assumere la decisione, ed ha riconosciuto che l’imputato detenuto è certamente titolare di un interesse ad essere presente in udienza per contrastare, se lo voglia, le risultanze probatorie ed indicare eventualmente altre circostanze a lui favorevoli, posto che il diritto-dovere del giudice di sentire personalmente l’imputato e il diritto di quest’ultimo di essere ascoltato dal giudice che dovrà giudicarlo, rientrano nei principi generali e fisiologici di immediatezza e oralità cui si informa l’attuale modello processuale.

Sulla base del richiamato dictum delle Sezioni unite si devono quindi svolgere conclusivamente le seguenti ed ulteriori considerazioni.

Nel caso in esame: a) non ha alcuna rilevanza che l’imputato fosse ristretto presso la struttura carceraria di Lanciano (come si desume dall’epigrafe della decisione impugnata), perchè non si procedesse alla sua traduzione avanti la Corte di merito; b) la richiesta dell’imputato, depositata presso la cancelleria della Corte due giorni prima della udienza, è tempestiva non trovando applicazione il termine di cinque giorni cui all’art. 127 c.p.p., comma 2; c) l’ordine di traduzione dell’imputato all’udienza del 20.4.2010, disposta dalla Corte territoriale non sana la pregressa nullità, ponendosi tra l’altro in contraddizione logica con l’ordinanza 12.4.2010 della stessa Corte. Infatti l’affermata tardività dell’istanza del detenuto non giustifica la sua traduzione per l’udienza successiva, dovendosi rilevare, tra l’altro che il momento (processuale) in cui l’imputato è comparso alla udienza camerale, ha impedito proposizione di istanze o dichiarazioni avendo l’ufficio del pubblico del ministero già rassegnato le proprie conclusioni finali.

Se da un lato è vero che, ex art. 523 c.p.p., per principio generale l’imputato può "avere la parola" per ultimo, se lo chiede, e nel caso in esame non pare che l’imputato abbia esercitato tale diritto, è tuttavia indubitabile che allo stesso imputato, ex art. 421 c.p.p. (applicabile nel rito abbreviato ex art. 441 c.p.p.) è stata preclusa la possibilità di richiedere in modo tempestivo di rendere l’esame da svolgersi a norma degli artt. 498 e 499 c.p.p..

Per le suddette ragioni limitatamente alla posizione del ricorrente, deve essere dichiarata la nullità della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma per un nuovo giudizio.

L’accoglimento del primo motivo di ricorso porta a ritenere del tutto superflua la trattazione del secondo e del terzo motivo siccome in esso assorbiti.

I.A.A. (imputato per i fatti di cui al capo 2: artt. 110 e 81 cpv. c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, e art. 80, comma 2):

1) vizio ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), di carenza ed illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) in relazione all’affermazione della penale responsabilità per i fatti di cui al citato capo 2 della rubrica della imputazione, perchè ritenuto responsabile sulla base di un dato probatorio di per sè equivoco nella sua valenza, alla luce anche della assoluta occasionalità e casualità dell’intervento dell’ I. nell’ambito della vicenda che qui interessa;

2) erronea applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2 ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b);

3) vizio di motivazione in relazione alla richiesta di riduzione degli aumenti di pena derivanti dall’applicazione della continuazione ex art. 81 cpv. c.p., ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e);

Con il primo motivo la difesa sostiene che l’imputato ha avuto un unico colloquio telefonico con il N.P., che gli avrebbe richiesto di recarsi alla fermata dell’autobus della linea (OMISSIS), per ricevere la "merce" da parte di due donne che avrebbe dovuto poi accompagnare alla fermata di un tram. In base al ricorso e alla motivazione della decisione impugnata, la vicenda è così ricostruita: a) l’imputato, a seguito di sollecitazione telefonica, si è recato nel luogo indicato dal N.P.; b) ha incontrato due donne di nazionalità nigeriana che gli hanno consegnato un grosso bagaglio a mano; c) nello stesso istante sono intervenuti agenti della polizia giudiziaria che hanno controllato il bagaglio a mano senza rinvenire nulla di sospetto, mentre indosso alle donne, celato in cinture, hanno rinvenuto più di cinque chili di cocaina; d) l’ I. è stato quindi mandato via, mentre le due donne venivano tratte in arresto. Sulla base delle suddette circostanze fattuali la difesa, fin dall’atto di impugnazione in appello ha posto in evidenza: a) la estemporaneità della richiesta dello N.P. al ricorrente che, a sua volta non compare in nessuna altra intercettazione telefonica, nè in nessuna altra vicenda attinente il commercio della droga; b) la pura occasionalità della richiesta formulata dal N.P.; c) l’ambiguità e la polivalenza semantica del temine "merce", sì da apparire del tutto aprioristico riconoscere a questa la valenza di sinonimo di "droga", quale effetto di convenzione allusiva nell’occasionale colloquio fra i soggetti Interessati; d) che le donne hanno consegnato i loro bagagli all’ I., così assolvendo dal loro punto di vista alla loro consegna di "merce".

La Corte d’appello ha riaffermato la responsabilità dell’imputato sulla scorta di due argomenti: 1) il contenuto oggettivo della conversazione telefonica n. 1293 intercorsa tra N.P. e l’ I. il 14.9.2007; 2) il valore da attribuirsi al termine "merce" adoperato nel corso della conversazione.

In ordine al secondo punto la Corte territoriale ha affermato che sia le modalità di svolgimento della conversazione, sia l’uso della parola "merce" quale termine comune al lessico adoperato dagli interlocutori, senza la necessità di ulteriori specificazioni, sono elementi indizianti sulla cui base può essere affermata la consapevolezza dell’ I. dell’antigiuridicità di quanto gli era stato richiesto. A questi due elementi la Corte territoriale ha aggiunto la regola di esperienza in forza della quale si può affermare che nel traffico degli stupefacenti, soprattutto quando vengono trattati grossi quantitativi, colui che viene incaricato del ritiro della "merce" è necessariamente al corrente della natura della merce ricevuta.

La censura per la quale la Corte territoriale non avrebbe preso in considerazione gli aspetti della "occasionalità" e della "casualità" della richiesta formulata dal N.P. all’ I., non è fondata, perchè non presenta (nè la difesa lo dimostra) caratteri di assoluta efficacia dimostrativa di una realtà diversa da quella apprezzata dalla Corte territoriale. Sul piano logico nulla vale ad escludere che l’ I., ancorchè chiamato in modo del tutto occasionale dal N.P. (come sostiene la difesa), pur non essendo partecipe della associazione per delinquere (peraltro a lui neppure contestata), fosse comunque a conoscenza della natura e dei traffici svolti dal committente che a lui si affida. La carenza di specifica motivazione sul punto,come lamentata dalla difesa non spiega quindi alcun effetto negativo incidente sulla sua completezza. Il motivo va quindi rigettato.

Con il secondo motivo la difesa pone la questione inerente ai limiti e agli ambiti definitori della circostanza aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2 che la Corte territoriale ha ritenuto sussistente sia in riferimento al quantitativo di 5,654 kg di cocaina sequestrata sia alla sua qualità perchè pura all’87%, potendo essere ricavate 32.692 dosi idonee a soddisfare le esigenze di un consistente numero di consumatori per un apprezzabile lasso di tempo.

La decisione è corretta tanto sul piano della adeguatezza della motivazione nel merito, quanto su quello dell’applicazione della norma giuridica. A tal proposito, va osservato che, in assenza di un oggettivo parametro atto ad individuare la aggravante dell’"ingente quantità", è evidente che questa vada desunta dal giudice di merito in via relativa, attraverso una valutazione che tenga conto del numero delle dosi ricavabili e della qualità (grado di purezza) dello stupefacente, secondo criteri già delineati in sede di legittimità, (v. Cass. pen., sez. 6, 5.7.2007 in ced Cass. 237636, ove: "In tema di stupefacenti, ai fini del riconoscimento dell’aggravante della detenzione di quantità ingente, il giudice deve tener conto sia della qualità della sostanza, con riferimento alla quantità di principio attivo dello stupefacente e alla sua capacità di moltiplicarsi in dosi destinate al consumo, sia del dato ponderale relativo alla quantità di droga trattata (fattispecie relativa al sequestro di kg. uno virgola novecentocinquantatre di cocaina con un principio attivo pari al sessantasei per cento").

La censura della difesa è quindi infondata e va rigettata.

Il terzo motivo di ricorso è inammissibile, poichè, non traducendosi in una specifica censura di legittimità, attiene al solo merito della decisione assunta nella determinazione del trattamento sanzionatorio, come tale non sindacabile nella presente sede; nè la sanzione irrogata per effetto dell’aumento ex art. 81 cpv. c.p., in mesi sei di reclusione, connessa alla cessione di 50 g. di stupefacente appare manifestamente illogica, non sussistendo per il giudice l’obbligo di autonoma e specifica motivazione in ordine alla quantificazione dell’aumento della pena per la continuazione, posto che i parametri al riguardo sono identici a quelli valevoli per la pena base (v. Cass. Sez. 5, n. 11945/1999; Cass. Sez. 4, n. 22824/2006).

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

T.I.D.A.:

1) violazione dell’art. 649 c.p.p., comma 2, perchè la Corte territoriale, con motivazione del tutto carente ed illogica ha respinto la richiesta di dichiarare il ne bis in idem in relazione al fatto ascritto allo imputato al capo 14.4. della rubrica della imputazione. Segnala a questo proposito la difesa, di avere depositato la sentenza n. 2255/08, passata in giudicato, dalla quale agevolmente si evince come vi sia piena coincidenza fra i fatti di cui alla presente sentenza e quelli già giudicati con la citata sentenza.

La doglianza è manifestamente infondata.

L’imputato, nel presente procedimento non è stato giudicato per i fatti di cui al capo 14.4., perchè, come si desume dalla imputazione, egli, per tale fatto, è stato sottoposto ad altro e diverso procedimento penale. Va inoltre aggiunto che la Corte territoriale ha assunto i fatti di cui alla sentenza 2255/08 prodotta dalla difesa, come elemento base per statuire della "continuazione" con gli ulteriori illeciti contestati al ricorrente nel presente procedimento.

Tale circostanza, che sicuramente non può essere sfuggita alla difesa, consente di affermare come debba ritenersi escluso che la Corte territoriale abbia violato il disposto dell’art. 649 c.p.p..

Il ricorso pertanto è manifestamente infondato e si deve affermare l’esistenza di una grave colpa nella condotta processuale del ricorrente essendo stata sollecitata la nullità di una sentenza sulla base di doglianza del tutto insussistente, essendo già state ampiamente accolte le richieste difensive.

Per tali ragioni si deve dichiarare inammissibile il ricorso e condannare il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla cassa delle ammende attesa la pretestuosità delle ragioni del gravame.

TA.Al.:

1) inosservanza del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, nonchè degli artt. 125, 192 e 526 c.p.p., art. 546 c.p.p., lett. e), ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), perchè la Corte territoriale ha fondato il giudizio penale responsabilità del prevenuto sulla sola base del contenuto delle conversazioni intercettate dalla polizia giudiziaria oggetto di travisamento nei fatti relativi al rapporto intercorrente tra l’imputato qui ricorrente e R.D..

2) inosservanza dell’art. 441 c.p.p., comma 5, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), perchè la Corte d’Appello non ha proceduto alla acquisizione dell’interrogatorio del coimputato R.D..

3) inosservanza delle norme sulla competenza per territorio ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).

Il ricorso è manifestamente infondato, perchè in riferimento a tutti i motivi, il ricorrente si è limitato a riproporre, in questa sede le medesime ragioni già dedotte con l’atto di appello, senza tenere conto della circostanziata motivazione resa dalla Corte territoriale sulle suddette ragioni di gravame.

Per le suddette ragioni il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla cassa delle Ammende attesa la pretestuosità delle ragioni di gravame.

P.Q.M.

Annulla l’impugnata sentenza nei confronti di N.P. con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma per nuovo giudizio.

Rigetta il ricorso di I. e dichiara inammissibili i ricorsi di T. e TA.. Condanna I., T. e TA. al pagamento delle spese processuali e gli ultimi due, altresì,di Euro 1.000,00 ciascuno alla Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *