Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 20-07-2011) 25-07-2011, n. 29670

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. M.G. ricorre per cassazione contro l’ordinanza 1 marzo 2011 con la quale il Tribunale di Catanzaro aveva rigettato la richiesta di riesame contro il provvedimento con il quale il Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale aveva adottato la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti del ricorrente quale persona gravemente indagata del delitto di cui agli artt. 110 e 210 quinquies c.p., per avere, in concorso con il figlio B.G. nonchè con Y.D. e S.T., ricevuto e anche fornito, con finalità di terrorismo, addestramento ed istruzioni sulla preparazione ed uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco, di oggetti atti ad offendere, su modalità operative per il compimento di atti di violenza e su nozioni potenzialmente utili per l’organizzazione e l’esecuzione di atti di terrorismo, anche attraverso dettagliate istruzioni su metodologie e tecniche di guerriglia, nonchè su atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, mediante la realizzazione, l’invio e la lettura di messaggi criptatì, l’accesso sistematico a siti riconducibili ad organizzazioni terroristiche di matrice islamica integralista-jihadista con scambio di informazioni e tecniche inerenti all’uso delle predette armi ed esplosivi ed alcuni programmi informatici, tra cui il c.d. "Dorrà" (un software che, utilizzato illecitamente, può procurare danni a siti web anche istituzionali compromettendone le normali funzionalità), da utilizzarsi per la distruzione di siti web israeliani, ebraici ed islamici ritenuti moderati, con potenziale pregiudizio per i servizi pubblici essenziali correlati a tali siti web, nonchè a software idonei a eludere le intercettazioni da parte delle forze dell’ordine, tutte attività direttamente riconducibili all’addestramento con finalità di terrorismo internazionale, ovvero strumentali alla ed, "Jiahd elettronica".

Più in particolare, il M.G., nella sua qualità di Iman della Moschea di Sellia Marina, condivideva, approvava e acquisiva tutte le attività svolte dal figlio B. sulla rete internet, compresa la documentazione dai contenuti fortemente integralisti e di adesione alla jihad, utilizzate per trarre le argomentazioni dei sermoni con cui intratteneva sistematicamente i frequentatori della Moschea, istigando, determinando e rafforzando il proposito del figlio, in nome della jihad anche recependo i contenuti della navigazione internet di B. pure attraverso i CD-Rom utilizzati, tra l’altro, per la diffusione agli utenti della moschea, con riferimento a vari supporti informatici contenenti diversi filmati relativi ad azioni militari di tipo kamikaze, condotti dai guerriglieri dell’ISI (Stato Islamico dell’Irak) e da gruppi jihadisti e mujahideen contro reparti USA e di altri filmati concernenti l’esecuzione di soldati e poliziotti irakeni, nonchè un file in formato pdf in lingua araba riproducente un manuale tratto dalla rivista "Il combattente moderno", contenente dettagliate spiegazioni sulla tecnica necessaria per nascondere le tracce di documenti informatici, sul come individuare gli obiettivi con l’ausilio dei satelliti, sul come utilizzare il programma di crittazione "PGP" ed altre informazioni utili alla jihad, "per dotarsi della necessaria tecnologia e seguire la jihad informatica per dare le risposte ai capi di dei crociati" (così testualmente gli autori) trovate in suo possesso.

2. Il ricorrente ha articolato una variegata serie di motivi.

2.1. Deduce, anzi tutto, violazione dell’art. 96 c.p.p., art. 24 disp. att. c.p.p., per non essere stato dato avviso al difensore di fiducia del ricorrente, avv. Carmelo Pugliese, del deposito degli atti ex art. 293 c.p.p. e per aver ritenuto che le successive nomine dei due difensori di fiducia avessero comportato la revoca dell’originario difensore.

2.2. Lamenta, ancora, violazione dell’art. 143 c.p.p. e dell’art. 111 Cost., per non essersi provveduto alla traduzione al ricorrente, che non conosce la lingua italiana, dell’ordinanza impositiva della custodia in carcere.

2.3. Deduce, ancora, la perdita di efficacia della misura perchè, come già denunciato nel corso del riesame, il fascicolo trasmesso al giudice a quo "non comprendeva la documentazione relativa ai RIT nn. 470/08, 990/08 e 941/09, contenenti le informative di polizia giudiziaria, le richieste del Pubblico Ministero, le autorizzazioni e le proroghe del Gip per la sottoposizione ad intercettazione delle utenze dei ricorrenti, nonchè la trascrizione provvisoria delle intercettazioni ritenute rilevanti".

Nè poteva aderirsi alla tesi del Tribunale secondo cui la documentazione era sicuramente inserita nei fascicoli trasmessi perchè l’indice generale dei faldoni inviati dal Pubblico ministero elenca il numero dei RIT di cui è denunciata la mancanza, non solo perchè il detto indice è quello relativo alle cartelle che compongono il fascicolo del Pubblico ministero, ma anche perchè, appositamente interpellata, la cancelleria del giudice del riesame ha comunicato l’impossibilità di attestare, sulla base degli indici, l’invio della specifica documentazione; un dato ormai irreversibile, essendo consentito verificare solo la situazione odierna non oggetto di specifica richiesta difensiva.

2.4. Lamenta, poi, nullità dei provvedimenti di perquisizione e di sequestro, in quanto, pur essendo stato il primo atto disposto ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 41 (TULPS), si era proceduto al sequestro di "documentazione cartacea e informatica" nonchè del computer rinvenuto nell’abitazione del ricorrente; di cose, cioè, che non sono armi e la cui acquisizione non poteva prescindere dall’intervento dell’autorità giudiziaria.

2.5. Si denuncia, con altro motivo, che le intercettazioni sarebbero state autorizzate sulla base di una fonte confidenziale, la stessa che aveva dato luogo alla perquisizione ex R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 41. 3. Passando all’esame dell’addebito ed ai gravi indizi di colpevolezza, il ricorrente, premesso che la fattispecie prevista dall’art. 210 quinquies c.p. richiede un doppio dolo specifico caratterizzato anche dalla finalità terroristica descritta dall’art. 210 sexies c.p., oltre che dalla volontà di addestrare e di fornire istruzioni per preparare o usare armi od esplosivi, insiste sulla qualificazione della fattispecie in esame come reato di pericolo concreto entro il quale l’addestramento o l’istruzione deve essere contrassegnata dalla reale attitudine a realizzare la finalità terroristica, tanto che il comportamento può assumere rilevanza penale solo quando sia accertata la sua oggettiva tendenza verso quella finalità, "verificando che essa non è solo il mezzo per perseguire la finalità terroristica, ma anche la sua parziale realizzazione, in quanto momento necessario al pieno verificarsi del risultato finale". Di qui l’erroneo accostamento imputabile all’ordinanza impugnata tra il reato addebitato e quello di cui all’art. 210 bis, quest’ultimo qualificabile come delitto di pericolo presunto a dolo generico, il primo qualificabile come reato di pericolo concreto a dolo specifico.

Motivi della decisione

4. I motivi di ordine processuale sono tutti privi di fondamento.

4.1. Infondata è, anzitutto, la censura incentrata sulla dedotta violazione dell’art. 96 c.p.p., art. 24 disp. att. c.p.p., per non essere stato dato avviso al difensore di fiducia del ricorrente, avv. Carmelo Pugliese del deposito degli atti ex art. 293 c.p.p. e per avere il giudice a quo ritenuto che le successive nomine dei due difensori di fiducia avessero comportato la revoca dell’originario difensore.

Risulta dagli atti che effettivamente M.G. ebbe a nominare quale difensore di fiducia, il 7 novembre 2010, l’avv. Carmelo Pugliese; risulta altresì che successivamente il ricorrente, a seguito della nomina dei due difensori nei cui confronti furono effettuati gli avvisi, revocò implicitamente il difensore precedentemente nominato. Non dolendosi, peraltro, l’avv. Galeota, che ha sottoscritto il ricorso ("anche per il codifensore avv. Vittorio Platì"), di omissioni di sorta nei suoi confronti, correttamente il Tribunale ha ritenuto che nessun avviso fosse dovuto all’avv. Pugliese, "posto, peraltro, che gli avvisi sono stati invece ritualmente effettuali nei confronti dei due attuali legali". Ciò anche considerando che neppure nella memoria prodotta davanti al giudice del riesame risulta l’assenza di revoca dell’originario difensore che – oltre tutto – non avendo assistito o compiuto alcun atto del procedimento deve ritenersi essere stato implicitamente revocato. Costituisce, infatti, ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui (cfr., ex plurimis, Sez. 1, 6 marzo 2009, Lanzino), si ha revoca implicita, per comportamento concludente, del precedente difensore se l’imputato ne nomina altri in eccedenza, che lo assistono senza soluzione di continuità in tutte le fasi del processo.

4.2. Analoga è la sorte da riservare al motivo con il quale si denuncia violazione dell’art. 143 c.p.p. e dell’art. 111 Cost., per non essersi provveduto alla traduzione al ricorrente, che non conosce la lingua italiana, dell’ordinanza impositiva della custodia in carcere. E ciò perchè l’interrogatorio ex art. 294 c.p.p. si svolse alla presenza di un interprete e non risulta che il ricorrente abbia chiesto la traduzione dell’ordinanza custodiale. Dirimente appare, infine, come ha osservato il giudice a quo, la circostanza che sia stato proposta impugnazione anche nel merito, stante l’evidente finalizzazione di quanto richiesto alla introduzione del giudizio di riesame.

4.3. Quanto alla denuncia con cui sì è dedotta la perdita di efficacia della misura perchè il fascicolo trasmesso al giudice a quo "non comprendeva la documentazione relativa ai RIT nn. 470/08, 990/08 e 941/09, il Tribunale fornisce una risposta che non compete comunque a questa Corte censurare, traducendosi la relativa doglianza in un motivo non consentito; il giudice a quo ha precisato che tutti gli atti di cui viene lamentata la mancata trasmissione risultano, invece, dall’ìndice degli atti trasmessi alla cancelleria del tribunale del riesame indicati come inviati con i faldoni dal n. 6 al n. 11, osservando che nessun attestato di cancelleria conferma il mancato invio degli atti stessi.

Ciò senza contare che, dal pur ampiamente articolato motivo di ricorso, non risulta se i detti atti siano stati già depositati a norma dell’art. 293 c.p.p., comma 3, e se, conseguentemente, la difesa – che pure, almeno quanto ai provvedimenti autorizzativi, non sembra aver denunciato vizi di natura formale in senso stretto (quelli che saranno subito dopo presi in esame attengono, infatti, al contenuto dei decreti ed ai presupposti di ordine sostanziale per la loro adozione) – sia stata già posta in grado di venire a conoscenza degli atti presupposto dell’attività intercettiva.

D’altro canto, sull’esistenza dell’intero compendio di cui si lamenta l’omessa trasmissione, la censura, traducendosi nella deduzione non di un errore di fatto o di diritto del punto scrutinato dall’ordinanza impugnata, ma nella denuncia della non corrispondenza al vero degli argomenti da questa utilizzati (sia pure, forse, con eccessiva sobrietà dimostrativa quanto agli specifici richiami) per respingere la censura, presuppone che comunque venga comprovato che il Tribunale si sia limitato, per quanto attiene al "compendio intercettivo," a misurare le sue argomentazioni sulla base del solo provvedimento di base; il che appare palesemente smentito proprio dal testo del provvedimento impugnato.

4.4. Infondato è pure l’ulteriore motivo con il quale si deduce nullità dei provvedimenti di perquisizione e di sequestro, in quanto, pur essendo stato il primo atto disposto ai sensi dell’art. 41 tulps, si era proceduto al sequestro di "documentazione cartacea e informatica" nonchè del computer rinvenuto nell’abitazione del ricorrente; di cose, cioè, che non sono armi e la cui acquisizione non poteva prescindere dall’intervento dell’autorità giudiziaria.

Stando alla costante giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex plurimis, Sez. 1, 23 ottobre 1995, Melis), il R.D. 18 giugno 1931 n. 773, art. 41, prevede l’obbligo della polizia giudiziaria di compiere perquisizioni e sequestri quando abbia ricevuto notizia, anche anonima, della presenza illecita di armi, munizioni e materie esplodenti, non denunziate, non consegnate o comunque abusivamente detenute; tale disposizione – espressamente richiamata dall’art. 225 disp. att. coor. tran. c.p.p.- è operante non ostando il disposto dell’art. 333 c.p.p., comma 3, nella misura in cui questo vieta l’utilizzazione, nel processo, di denunce o delazioni anonime in quanto tali, ma non preclude all’autorità giudiziaria ed alla polizia giudiziaria di iniziare le indagini nè, pertanto, di apprezzare quelle notizie sotto il profilo fenomenico in relazione alle successive acquisizioni.

Quel che occorre, dunque, per legittimare il compimento di tali operazioni con l’osservanza delle garanzie previste dall’art. 14 Cost., comma 2, è che il potere di iniziativa venga esercitato non sulla base delle convinzioni personali della polizia giudiziaria, ma in presenza di elementi oggettivi che rendano plausibile la perquisizione (cfr. Sez. 6, 18 ottobre 2009, Ponci).

Inoltre (cfr., fra le tante, Sez. 4, 27 febbraio 2003, Parisi), qualora, a seguito di perquisizione eseguita d’iniziativa dalla polizia giudiziaria ai sensi del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 41, venga operato il sequestro di cose o tracce pertinenti al reato, le esigenze di difesa sociale e di accertamento dei reati prevalgono sulla tutela dei diritti dei privati, che subiscono un affievolimento nel superiore interesse pubblico; con la conseguenza che l’eventuale vizio della perquisizione – in ogni caso sanzionabile con provvedimenti penali e/o disciplinari – non ha riflessi, a seguito della constatazione del reato, sul compimento del sequestro.

D’altro canto, la norma ora all’esame del Collegio è passata indenne al vaglio di legittimità costituzionale. La Corte, pur riferendosi al regime dell’abrogato codice di procedura penale, ha ritenuto tale norma non costituzionalmente illegittima, col rilevare che, pur non essendo la tutela accordata alla libertà di domicilio assoluta, trovando dei limiti stabiliti dalla legge ai fini della tutela di preminenti interessi costituzionalmente protetti, come emerge dalle stesse disposizioni dell’art. 14 Cost. e, in specie, dall’espresso riferimento del terzo comma agli accertamenti ed ispezioni per motivi di incolumità pubblica, la disposizione del tulps non viola il parametro costituzionale invocato; precisando, però, che gli ufficiali ed agenti procedenti sono tenuti, ai sensi degli artt. 224 e 227 c.p.p. del 1930 (ora artt. 352 e 355 c.p.p.), a verbalizzare tutte le operazioni compiute e a trasmettere entro le 48 ore successive i verbali di perquisizione e sequestro all’autorità giudiziaria, a cui spetta di verificare la legittimità degli atti compiuti dagli organi di polizia giudiziaria nell’esercizio delle loro funzioni (Corte costituzionale, sentenza n. 110 del 1976); una verifica, nella specie, non contestata.

Senza considerare che, attesa la natura delle indagini in corso, non era da escludere che il computer e la documentazione sequestrata potessero comprovare il possesso di armi da parte del ricorrente.

4.5. Il motivo con il quale si lamenta che le intercettazioni sarebbero state autorizzate sulla base di una fonte confidenziale, la stessa che aveva dato luogo alla perquisizione ex R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 41, pare addirittura non pertinente perchè, come ha argomentato il giudice a quo, le intercettazioni vennero disposte sulla base dell’attività investigativa svolta fino a quel momento.

Si è, in tal modo, ribadito l’itinerario interpretativo già tracciato dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema, secondo cui, allorquando la perquisizione sia stata effettuata senza l’autorizzazione del magistrato e non – ma non ne è certo il caso di specie – nei "casi" e nei "modi" stabiliti dalla legge, come prescritto dall’art. 13 Cost., si è in presenza di un mezzo di ricerca della prova che non è compatibile con la tutela del diritto di libertà del cittadino, estrinsecabile attraverso il riconoscimento dell’inviolabilità del domicilio. Ne consegue che, non potendo essere qualificato come inutilizzabile un mezzo di ricerca della prova, ma solo la prova stessa, la perquisizione è nulla e il sequestro eseguito all’esito di essa non è utilizzabile come prova nel processo, salvo che ricorra l’ipotesi prevista dall’art. 253 c.p.p., comma 1, nella quale il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, costituendo un atto dovuto, rende del tutto irrilevante il modo con cui ad esso si sia pervenuti (cfr. Sez. un., 27 marzo 1996, Sala; ma v. anche la ricordata Corte costituzionale n. 110 del 1976).

5. I motivi di ricorso concernenti, ora sotto il profilo della violazione di legge ora sotto il profilo della mancanza di motivazione, i gravi indizi di colpevolezza sono fondati.

5.1. La ratio dell’art. 210 quinquies c.p. è agevolmente individuabile nella necessità di reprimere specifici comportamenti funzionali alla preparazione di veri e propri attentati.

Si è, infatti, in presenza di un delitto a consumazione anticipata inserito dal D.L. 27 luglio 2005, n. 144, art. 15, comma 1, convertito dalla L. 31 luglio 2005, n. 155, emanato in attuazione dell’art. 7 della Convenzione di Varsavia del 16 maggio 2005 che descrive l’addestramento per il terrorismo come quella condotta consistente nel fornire istruzioni per la fabbricazione o l’uso di esplosivi, armi da fuoco od altre armi ovvero di sostanze nocive e pericolose nonchè su altri metodi o tecniche specifiche allo scopo di commettere un reato di terrorismo o di contribuire alla sua commissione, con la consapevolezza che la formazione procurata ha lo scopo di servire alla realizzazione di tale obiettivo.

L’anticipazione della punibilità rivela la sua ragion d’essere nella necessità di reprimere quei comportamenti prodromici ad un’attività terroristica che si manifesta secondo un modus operandi riferibile prevalentemente (storicizzando i reali motivi della introduzione della norma in esame, da valutare nel contesto degli accordi internazionali che ne sono alla base) all’estremismo di tipo islamico.

5.2. Sul piano oggettivo, viene perseguita un’attività di tipo conoscitivo consistente, da un lato, nell’addestramento o nella fornitura di istruzioni alla preparazione o all’uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco, di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonchè di ogni altra tecnica o metodo (e qui la condotta assume una proiezione finalistica che sintetizza le poliformi attività di addestramento e di istruzione, così da esorbitare dal dato puramente oggettivo) per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali. Già il sincretismo compositivo della fattispecie, secondo un modello davvero non impeccabile (alcune condotte sono designate, infatti, da un’autonomia strutturale che le rende autosufficienti, altre solo dal profilo finalistico ricevono valore autoprecettivo) sta ad indicare l’emergere di un primo dato finalistico coessenziale talora alla stessa condotta criminosa in esame. Al contempo il comune momento (pre)finalistico assume una significazione da orientare necessariamente verso il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali.

Una constatazione che pare di stringente rilevanza interpretativa nella verifica dell’assetto complessivo della norma in esame che, incentrando nel momento finalistico eccedente la fattispecie oggettiva ogni decisivo spazio ermeneutico, consente subito di dissentire da chi in quello che si può definire il primo momento soggettivo di un reato a duplice dolo specifico – e che, nonostante le già stigmatizzate anomalie semantiche nel definire le tipologie di condotta (forse proprio perchè in parte mutuate dall’art. 7 della Convenzione di Varsavia, che sul punto, sembra assumere un decisivo valore ermeneutico) resta incentrato sulla finalità di compiere gli atti indicati dalla seconda parte della disposizione ora al vaglio della Corte – ravvisa una modalità oggettiva di fattispecie.

Il timore di far assumere al dolo una doppia rilevanza resta, infatti, decisamente sovrastato dall’esigenza di proteggere il principio di offensività, da ricollegare ai fini corrispondenti a momenti teleologici non necessariamente interagenti ma comunque scomponibili e senza che sia individuabile tra di essi un vincolo di continenza. Una precisazione davvero indispensabile perchè, proprio dal rilievo giuridico assegnato a ciascuna delle due finalità è possibile attribuire alle condotte descritte dall’art. 210 quinquies c.p. valore designante pure per la necessità di verificare la possibilità di realizzazione dello scopo divisato. Secondo un modulo non isolato nella "novella" del 2005, la quale ha inserito anche il reato di cui all’art. 210 quater ("Arruolamento con finalità di terrorismo"), pur esso a doppio dolo specifico, richiedendo (ma sempre secondo il modello del pericolo concreto), da un lato, la finalizzazione dell’arruolamento di una o più persone al compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali e, dall’altro lato, la comune finalità di terrorismo.

Il più articolato schema descrittivo (è bene subito rimarcarlo) appare direttamente derivare dalla distanza rispetto all’evento (che pure – come si vedrà meglio tra poco – è definito come proiezione psicologica della condotta) ed alla conseguente anticipazione della punibilità. Cosicchè può subito dirsi che la prima verifica che occorre effettuare può pure prescindere dall’esame dell’altro momento soggettivo specifico, anche se esso sembra permeare la complessiva struttura della norma in esame. Il tutto utilizzando un modello corrispondente anche alla previsione del precetto del successivo art. 270 sexies c.p..

5.3. E’ giunto ora il momento di verificare le condotte indicate dalla norma in esame seguendo il modulo descrittivo che – data la specificità dei modelli contemplati – parrebbe (nonostante l’incipit) definirsi come reato proprio. Una definizione subito smentita dal contesto di fattispecie e dalla priorità logica assegnata alla soggettività intesa nel suo momento dinamico (non è punito l’"addestratore", ma "chiunque addestra"). Trascurando pure tali opzioni descrittive, non assolutamente ininfluenti -come si vedrà tra poco, a proposito della concorsualità del soggetto addestrato – sul modello di fattispecie, può subito aderirsi (nell’assenza di ogni contributo giurisprudenziale in materia) all’opinione che ravvisa l’addestramento come contrassegnato da una vera e propria interazione tra l’addestratore e l’addestrato, che presupporrebbe (almeno di norma) un contatto diretto tra il primo ed il secondo, secondo i caratteri tipici dell’attività militare o paramilitare; addestrare è, dunque, rendere abile alle attività oggetto dell’addestramento, così da rendere punibile, allorchè l’addestramento si sia compiuto e la "recluta" sia divenuta un vero e proprio "addestrato", anche quest’ultimo (art. 270 quinquies, ultimo periodo). Una soluzione, quella adesso prospettata, da ritenere addirittura costituzionalmente necessitata perchè se l’addestramento non sortisce il risultato voluto dall’addestratore che diviene correo dell’addestrato solo nel caso in cui la sua opera abbia esito positivo, la distanza anche rispetto al primo fine (oggetto del primo dolo specifico) renderebbe inipotizzabile, non soltanto l’elemento psicologico ma anche la condotta tipica descritta dall’art. 270- quinquies. L’esame del secondo momento soggettivo specifico rivelerà l’ulteriore modalità dell’opera di addestramento, talora non correttamente colto nel contesto dell’ordinanza impugnata.

L’addestramento, inteso come esercizio alla preparazione o all’uso di armi, etc, sì realizza sia attraverso dimostrazioni pratiche sia attraverso dimostrazioni teoriche, alternate – come è stato rilevato in dottrina – a letture o prediche sul valore religioso del martirio e sui vantaggi post mortem, "completando così un’opera di condizionamento mentale e di distacco dalla vita reale, che è il presupposto per compiere gli attacchi terroristici e le missioni suicide". Ciò se e semprechè venga dimostrata la concreta idoneità della condotta di addestramento (che solo in tal caso può denominarsi tale) a mettere in condizione l’addestrato di porre in essere gli atti descritti nell’art. 270 quinquies.

La sola punibilità dell’addestrato e non anche della persona "istruita" in ordine alle attività descritte dall’art. 270 quinquies c.p. pur in presenza della medesima pena comminata per le due corrispondenti condotte di addestramento e di istruzione, rende possibile una più puntuale distinzione tra le due condotte.

Esclusa, anche in base al periodo di chiusura della norma in esame, che le due attività possano identificarsi, pare corretta la tesi di quella dottrina che ravvisa nel "fornire istruzioni" (anche) una diffusione ad incertam personam, che può essere effettuata pure a distanza, attraverso mezzi telematici e, quindi, nei confronti di soggetti che non sì è in grado di stabilire se siano in grado di apprendere realmente le istruzioni impartite. Una distinzione che può dirsi valida pure nel caso (peraltro, in parte corrispondente a quello di specie) di partecipazione a veri e propri fori telematici con possibile scambio di informazioni ed in cui la persona dell’istruttore e dell’istruito finiscono talune volte per confondersi, stante l’intercambiabilità dei ruoli stessi. Tutto ciò sempre discriminando tra attività di istruzione e propaganda ideologico-religiosa pure significativa (come si è già visto) della metodologia composita che contrassegna entrambe le condotte.

D’altro canto, che il primo fine specifico debba essere presente in tutte le condotte descritte dall’art. 210 – quinques per il valore di sintesi finalistica che assume il primo fine, certo non surrogabile dal secondo fine, nel modo ora delineato dall’art. 210 sexies c.p., risulta dal rispetto del principio di tassatività della fattispecie, quale emerge, anzi tutto, dalla prima delle norme adesso ricordate.

Il che impone un ulteriore rigore ricostruttivo sulla idoneità, non soltanto diffusiva, delle istruzioni, ma anche, e soprattutto e secondo criteri di inferenza non fungibili con mere presunzioni di pericolosità – della direzione di scopo entro specifiche attività, non modulabili altrimenti se non chiamando in causa le concrete situazioni di pericolo che le informazioni stesse devono essere in grado di poter conseguire rispetto al primo scopo divisato dall’"informatore". 5.4. La finalizzazione dell’addestramento e dell’istruzione verso il compimento di atti di violenza, etc. postula, perchè la fattispecie venga realizzata, l’idoneità del contatto a realizzare il risultato perseguito.

I più accreditati orientamenti dottrinar in materia (come si vedrà più avanti, prendendo in esame la finalità di terrorismo) tendono a ravvisare sempre e comunque nei reati a dolo specifico caratterizzati dall’assenza di un evento naturalistico, delle ipotesi di reato di pericolo concreto entro il quale allo scopo perseguito deve corrispondere – proprio per l’eccesso del momento volitivo, qui per ben due volte chiamato in causa – l’oggettiva idoneità della condotta a realizzare l’evento costituente l’obiettivo della condotta. Tanto da far ritenere che tale idoneità (pur nell’immanenza della sua esclusiva base finalistica) costituisce un requisito immancabile per l’individuazione della stessa tipicità della condotta. In altri termini, la consumazione anticipata nei reati a dolo specifico presuppone, perchè il fatto non si esaurisca entro una fattispecie in cui assume un rilievo esorbitante l’elemento volontà di scopo, che sussistano atti che oggettivamente rendano la detta volontà idonea a realizzare lo scopo; un’esigenza metodologica necessitata perchè la costruzione sistematica di tali reati postula, di per sè, solo il valore quasi assorbente della finalità perseguita; cosicchè se tale finalità non sia concretamente perseguibile perchè le attività poste in essere sono inidonee al raggiungimento dello scopo, si perviene a costruire una fattispecie di pura volontà; con un’anticipazione della consumazione non riconoscibile sul piano del possibile giuridico perchè resta inipotizzabile ogni offesa, non soltanto (quel che qui interessa) sotto il profilo del pericolo concreto, ma anche sotto il profilo del pericolo presunto, costruendosi una figura di reato contrassegnata da una sorta di "pericolo del pericolo" che, per ciò solo, non può essere verificato se non utilizzando criteri di inferenza palesemente arbitrar.

Anzi, ripercorrendo anche tracciati giurisprudenziali (per ora pur estranei alle finalità qui indicate, ma ampiamente approfonditi dalla dottrina che ha esaminato ex professo la problematica del dolo specifico) riguardanti soprattutto l’assetto strutturale del reato di associazione per delinquere che è reato a dolo specifico e senza evento naturalistico, si può affermare che l’offensività che giustifica il superamento della soglia della consumazione è individuabile in quel minimum di assetto organizzativo che consente all’associazione di operare non essendo certo sufficiente perchè la fattispecie venga realizzata l’associarsi per commettere più reati;

il che significa, sotto il profilo della volontà, che la proiezione della condotta verso un certo risultato se connotata dalla concreta idoneità di raggiungerlo, permea si sè l’intera fattispecie; in tal modo eludendo sterili sezionamenti della fattispecie stessa.

Verificando le predette linee interpretative, da ritenere (nonostante talora la diversità di lessico utilizzato) ius receptum, può dirsi, dunque, che sotto il profilo rappresentativo assume valore dirimente l’oggetto dello scopo che muove l’agente verso l’azione che diviene tipica soltanto se è riferibile ad un momento esterno da individuarsi in quel risultato specifico descritto nella prima parte dell’art. 210 quinquies; nel senso che tale risultato, pur ovviamente non dovendo raggiungere le soglie del tentativo, deve comprovare la serietà dell’azione rispetto al primo fine, proiettandosi all’esterno attraverso momenti concreti di corrispondenza nei confronti della fattispecie.

La necessità di una severa tipizzazione dei singoli momenti strumentali che definiscono la condotta impone, quindi, un’altrettanto severa diagnosi sulla possibilità che quelle condotte descritte nell’art. 210 quinquies possano effettivamente realizzarsi non secondo modelli puramente didascalici (pur – almeno di norma – indispensabili nella struttura della fattispecie) ma concretamente idonei, nella loro intrinseca consistenza (da valutare ex ante, ma sulla base di elementi di fatto: spaziali, temporali, personali, etc), da divenire verificabili dal giudice di merito nella loro proiezione verso il risultato rappresentato e voluto.

Concludendo l’esame di tale aspetto strutturale della condotta descritta dall’art. 210 quinquies, può, dunque, inferirsene che se, per un verso, è il fine il momento di designazione del contegno che potrebbe altrimenti essere non punibile, per un altro verso, è l’idoneità dei mezzi che fa assumere rilevanza penale al fine, non essendo, in caso contrario, ipotizzabile alcuna offesa.

5.5. Poste tali premesse, occorre ora vagliare l’ulteriore specifico momento volitivo, vale a dire la finalità di terrorismo rispetto al quale il primo viene a configurarsi come finalità strumentale in quanto condizione stessa perchè la fattispecie possa dirsi realizzata nella sua prima parte. Una progressione necessaria anche nel caso in cui, sovvertendosi il significato letterale dell’art. 210 quinquies, prima parte, si riferisca la prima finalità esclusivamente ad "ogni tecnica o metodo".

Non pare inutile rammentare che, con la stessa "novella" con la quale è stato introdotto l’articolo in esame, il legislatore ha inserito anche l’art. 270 sexies che definisce le "condotte con finalità di terrorismo".

L’apporto della giurisprudenza formatasi sull’art. 210 bis c.p., aggiunto dal D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, art. 3, convertito dalla L. 6 febbraio 1980, n. 15, e poi sostituito dal D.L. 18 ottobre 2001, n. 374, art. 1, comma 1, convertito dalla L. 15 dicembre 2001, n. 438, secondo un modello contrassegnato anch’esso dalla finalità di terrorismo, consentirà un’interpretazione di tale momento della fattispecie di più agevole soluzione.

5.6. Sotto la rubrica "condotte con finalità di terrorismo l’art. 210 sexies considera tali "le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonchè le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia.

Pur volendo trascurare l’effettiva portata precettiva dell’art. 210 sexies e, soprattutto, il suo richiamo a fonti di diritto internazionale (una problematica, peraltro ampiamente affrontata anche dalla giurisprudenza e che trascina i suoi riverberi pure sulla nozione di terrorismo quale delineato dal vigente art. 270 bis c.p., 3 comma,), ritiene questa Corte che l’esplicita evocazione della finalità di terrorismo anche nell’art. 270 quinquies, impone, considerato il rigoroso, anche se fluttuante, contenuto della "Condotta con finalità di terrorismo" di verificare se le condotte qualificate come di addestramento (o di istruzione) siano contrassegnate da tale connotazione finalistica.

Ma, come appare chiaro, il problema rimanda, ancora una volta, al tema della idoneità degli atti (già qualificati come di addestramento o di istruzione pure sotto il profilo finalistico) a realizzare l’ulteriore finalità, riproducendosi altrimenti il medesimo deficit di offensività di quella che si è definita la finalità strumentale. Un deficit che può presentare una maggiore possibilità di essere riscontrato proprio al di fuori del fenomeno associativo entro il quale, invece, il profilo organizzativo assume di per sè un rilievo anche funzionale per la diretta proiezione della condotta verso l’unico dolo specifico richiesto dall’art. 210 bis.

5.7. Una recente sentenza di questa Sezione, chiamata a decidere relativamente ad una fattispecie incentrata sulla presunta costituzione di un’associazione terroristica operante per via telematica su tutto il territorio nazionale, ha enunciato il principio di diritto in base al quale, ai fini della configurabilità del delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico (art. 270 bis c.p.), non è necessaria la realizzazione dei reati oggetto del programma criminoso, ma occorre l’esistenza sia di un programma, attuale e concreto, di atti di violenza a fini di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, sia di una struttura organizzativa stabile e permanente che, per quanto rudimentale, presenti un grado di effettività tale da rendere possibile l’attuazione di quel programma (Sez. 6, 8 maggio 2009, Scherillo). La ratio decidendi di tale pronuncia, risulta direttamente incentrata su quel deficit di offensività che esclude la possibilità di qualificare il delitto in esame in assenza di una struttura organizzativa idonea al compimento di una serie indeterminata di reati per la cui realizzazione l’associazione risulta costituita; in più, con il chiaro riferimento al fine specifico descritto dall’art. 210 bis c.p. (nel suo implicito attuale richiamo all’art. 210 sexies), addebitando alla decisione impugnata, della quale ha, peraltro, disposto l’annullamento con rinvio, l’omessa individuazione di un deficit organizzativo e programmatico (quest’ultimo inscindibilmente connesso al profilo finalistico), ha univocamente evocato l’assenza di elementi indiziari in grado di rendere plausibile la realizzazione del fine terroristico. Un principio, quello ora ricordato, che si ricollega direttamente ad una precedente decisione di questa Corte la quale aveva fissato il principio di diritto – pure qui da interpretare nei termini sopra ricordati – stando al quale, ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 210 bis, c.p., non è necessario il compimento dei reati oggetto del programma criminoso, ma occorre comunque l’esistenza di una struttura organizzativa che presenti un grado di effettività tale da rendere almeno possibile l’attuazione di tale programma e che giustifichi la valutazione legale di pericolosità, correlata alla idoneità della struttura stessa al compimento di una serie indeterminata di reati per la cui realizzazione l’associazione si è costituita (Sez. 1, 22 aprile 2008, Fabiani).

6. Poste tali premesse, occorre ora verificare se l’ordinanza impugnata abbia argomentato secondo il modello delineato in negativo dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e c). E ciò sotto un triplice ordine di profili concernenti, l’esistenza, per un verso dell’attività di addestramento (o di istruzione) e per un altro verso, del duplice dolo specifico richiesto dall’art. 270 quinquies c.p..

Dall’esame congiunto dell’ordinanza del giudice del riesame e del provvedimento impositivo emerge come i gravi indizi del reato previsto dall’art. 210 quinques c.p. a carico di M.G. siano stati ravvisati (come è ampiamente sintetizzato nell’imputazione provvisoria) nell’opera di proselitismo e di propaganda jihadista svolta dal ricorrente nella sua qualità di iman della moschea di (OMISSIS), nella sua "vicinanza" (non meglio precisata), di questo "strenuo sostenitore della filosofia jihadista" – impegnato attivamente nella divulgazione e nel proselitismo dalla jihad – al Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, gruppo che sarebbe affiliato ad Al Queda; nell’acquisizione della documentazione informatica in funzione addestrativa (ma anche di addestrato) procuratagli dal figlio B. (si citano l’acquisizione del "Combattente moderno", una sorta di guida per nascondere documenti informatici; di files video, audio e testuali destinati alla divulgazione, riproducesti azioni di guerriglia, etc;

l’acquisizione di siti inneggianti alla jihad estrema; la partecipazione del figlio a discussioni nei fori telematici con scambio di istruzioni su armi ed esplosivi; la consultazione di un manuale di guerriglia, ove sono contenuti istruzioni sulla preparazione e l’uso di armi da fuoco, tanto da assegnare in tal caso al B. (utente (OMISSIS)) il ruolo contestuale di "addestratore" e di "addestrato"; l’acquisizione del manuale "Dorrà" contenente istruzioni volte al sabotaggio di siti istituzionali;

l’acquisizione di strumenti per il nascondimento dei files consultati, in modo da cancellare ogni traccia di navigazione telematica; l’acquisizione e la distribuzione di istruzioni per l’uso dei telefoni cellulari e per distruggere i cellulari stessi; la partecipazione ad altri forum, addestrando i partecipanti telematici circa le modalità per la trasmissione segreta di documenti jihadisti; la partecipazione a forum di sabotaggio informatico; la visualizzazione di forum contenenti istruzioni per l’uso di un’arma rudimentale per abbattere elicotteri dell’esercito americano, nell’ambito del quale B. forniva informazioni sull’uso dell’arma; la partecipazione ad altri forum sull’utilizzo di armi da fuoco; l’acquisizione della "valigia dello jihadista", contenente tecniche per la preparazione di armi da fuoco ed esplosivi nonchè per il compimento di atti di sabotaggio; l’acquisizione del "cecchino dell’Irak"; la distribuzione, nel forum jihadista di istruzioni sui mortai, sulla loro preparazione ed assemblaggio, sul collegamento dei detonatori, et e; l’acquisizione dei nominativi degli irakeni traditori, nonchè una serie di conversazioni intercettate dalle quali emergerebbe un comportamento coincidente con una sorta di proselitismo verso il martirio.

7. Ritiene il collegio, sotto il profilo di fattispecie, che la attività di addestramento o di istruzione nel senso specificato supra non sia stato affrontato se non in modo apodittico dal giudice a quo, limitandosi ad un mero richiamo alle argomentazioni contenute nell’ordinanza impositiva senza in alcun modo connotare (non solo) le singole condotte sopra riassunte (ma tutte quelle elencate dall’ordinanza impugnata) come attività corrispondenti alle condotte descritte dall’art. 210 quinquies c.p. Omettendo di argomentare – anzi implicitamente negando – che il ricorrente si stia accingendo, elaborando programmi concreti, da realizzare autonomamente o valendosi di contatti personali, con elementi o gruppi già attivi, a mettere in pratica le nozioni che va apprendendo o comunque a trasmetterle a soggetti che possano metterle in pratica. Col riconoscere che l’indagato non dispone di armi, di attrezzature per la stampa di documenti falsi in funzione di appoggio logistico ad atti di terrorismo.

E’ ravvisabile, dunque, un complessivo vistoso vizio motivazionale, che tracima nella vera e propria violazione della legge sostanziale, a proposito del duplice dolo specifico richiesto dalla norma ora ricordata, secondo il modello sopra esposto; avendo, per giunta, il giudice a quo argomentato tutto il provvedimento qui impugnato sul presupposto – espressamente dichiarato – che il delitto in esame è reato di pericolo presunto e a dolo generico e che l’acquisizione di dati, nozioni e tecniche potenzialmente idonee ed utili al compimento di azioni terroristiche prescinde dalla concreta possibilità di una loro pratica attuazione (un dato davvero inquietante, perchè rischia di individuare la fattispecie prevista dall’art. 210 quinques nell’opera di mera propaganda e proselitismo).

Il che impone l’annullamento dell’ordinanza impugnata. Il giudice del rinvio si conformerà ai principi di diritto sopra esposti.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia al Tribunale di Catanzaro per nuovo esame. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Così deciso in Roma, il 20 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2011

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