Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 05-07-2011) 25-07-2011, n. 29689

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza del 11 maggio 2010, la Corte di appello di Roma, ha, per quel che qui interessa, confermato la sentenza emessa il 3 luglio 2009 dal Tribunale della medesima città, con la quale G.I. e G.S.R. erano stati condannati alla pena di anni quattro e mesi cinque di reclusione ed Euro 1.050 di multa ciascuno, quali imputati dei delitti di rapina, tentata estorsione, lesioni e tentata violenza privata.

Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati suddetti. Nel ricorso proposto nell’interesse di G.S.R. si lamenta nel primo motivo violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto i giudici dell’appello si sarebbero fondati sulle dichiarazioni delle persone offese, senza tenere conto delle contraddizioni emergenti dal relativo narrato e delle contrarie emergenze scaturite dagli accertamenti processuali.

In particolare, avrebbero omesso di valutare il contrasto tra la ricostruzione dei fatti descritti dalle vittime ed il referto medico, giacchè questo avrebbe dovuto mettere in risalto un quadro ecchimotico e contusivo, invece assente nella documentazione clinica;

la inverosimiglianza di taluni particolari della narrazione; la sussistenza di motivi di attrito fra le parti; la erroneità nel ritenere il denaro rinvenuto come frutto della rapina; la condotta serbata il giorno successivo alla aggressione; la neutralità delle dichiarazioni rese dal teste S.; la atomizzazione delle versioni favorevoli agli imputati. Risulterebbero poi del tutto carenti gli elementi atti a suffragare la responsabilità in ordine ai reati di tentata violenza privata e tentata estorsione. Anche nel ricorso proposto da G.I. si formulano censure analoghe, riportandosi ampi stralci delle dichiarazioni dalle quali emergerebbero contraddizioni ed aporie nella versione resa dalle parti offese e dai testi di accusa, anche in riferimento all’ammontare della somma che sarebbe stata richiesta dagli aggressori, la cui versione doveva dunque reputarsi inattendibile.

Non congruenti sarebbero, poi, gli elementi desunti dalle dichiarazioni del teste S., così come il referto sanitario non sarebbe riconducibile all’episodio in contestazione, mentre gli altri elementi evocati in sentenza a corredo del quadro accusatorio sarebbero privi di valenza indiziante. Si lamenta, poi, rinnovando censura già dedotta e disattesa dai giudici dell’appello, che la denuncia sarebbe stata tradotta da persona della quale non risultava la qualifica di traduttore, e si censura la dosimetria della pena, anche con riferimento alla continuazione, e la mancata concessione delle attenuanti con criterio di prevalenza.

I ricorsi sono entrambi palesemente inammissibili, in quanto le censure poste a fondamento degli atti di impugnativa, oltre che essere in larga misura sterilmente reiterative di quelle già poste a fondamento degli atti di appello e motivatamente disattese dai giudici del grado, si rivelano orientate verso una non consentita rielaborazione dei dati di fatto raccolti nel corso del giudizio di merito. I motivi proposti a corredi dei ricorsi risultano, dunque, solo formalmente evocativi dei prospettati vizi di legittimità, ma in concreto sono articolati, come si è accennato, esclusivamente sulla base di rilievi di merito, tendenti ad una rivalutazione delle relative statuizioni adottate dalla Corte territoriale. Statuizioni, per di più, sviluppate sulla base di un esauriente corredo argomentativo, proprio sui punti – ricostruzione della dinamica della vicenda; disamina delle dichiarazioni rese dalle parti offese;

puntualizzazione degli elementi soggettivi ed oggettivi di riscontro, scrutinio della relativa attendibilità; apprezzamento critico delle altre dichiarazioni testimoniali acquisite agli atti; ricomposizione coerente del quadro accusatorio; correttezza della qualificazione giuridica dei fatti – in relazione ai quali i ricorrenti ha svolto le proprie censure, evidentemente tese ad un non consentito riesame del fatto, in quanto estraneo al perimetro entro il quale può svolgersi il sindacato riservato a questa Corte. Le doglianze proposte in punto di trattamento sanzionatorio sono, infine, anch’esse palesemente inammissibili, perchè del tutto aspecifiche in rapporto alla motivazione offerta dai giudici a quibus.

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in Euro 1.000,00 ciascuno alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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