Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 21-06-2011) 25-07-2011, n. 29640 Sequestro preventivo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

P.A. proponeva ricorso per cassazione avverso l’ordinanza in data 18 marzo 2010 con la quale il Tribunale di Chieti – Sezione Distaccata di Ortona rigettava l’opposizione proposta avverso il decreto di dissequestro del 5 novembre 2009, con il quale veniva disposta la restituzione di 6 anfore di epoca romana alla competente Sovrintendenza ai Beni Culturali.

Ricordava la ricorrente di essere stata assolta dal reato di cui alla L. n. 1089 del 1939, art. 67 con sentenza del 27 ottobre 2006 mediante la formula "perchè il fatto non costituisce reato" e, riassumendo le vicende successive alla intervenuta assoluzione, lamentava, con un primo motivo di ricorso, la violazione e la falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, del D.Lgs. n. 42 del 2004 e degli artt. 24 e 113 Cost..

Osservava, a tale proposito, che erroneamente il giudice dell’esecuzione aveva ritenuto che, non essendo stato dimostrato il legittimo possesso dei beni in contestazione, gli stessi dovevano considerarsi appartenenti allo Stato senza alcuna necessità della previa declaratoria di interesse culturale.

Tale procedura, a suo dire, era necessaria e doveva essere attuata dalla Sovrintendenza anche nel rispetto delle disposizioni in materia di partecipazione al procedimento amministrativo di cui alla L. n. 241 del 1990, mentre non potevano ritenersi validi gli accertamenti espletati dall’ausiliario di PG e dal Sovrintendente.

Con un secondo motivo di ricorso lamentava la contraddittorietà dei diversi provvedimenti che si erano succeduti nel tempo ed evidenziava che l’impugnata ordinanza aveva confermato due decreti tra loro antitetici, in quanto quello del 5 novembre 2009 prevedeva la consegna dei beni alla Sovrintendenza e quello successivo del 12 novembre 2009 disponeva la restituzione alla ricorrente dei beni medesimi.

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

In data 31 maggio 2011 depositava memoria di replica alla requisitoria scritta del Procuratore Generale.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

Occorre preliminarmente osservare che oggetto dell’impugnazione è esclusivamente il provvedimento emesso dal giudice dell’esecuzione in data 25 marzo 2010.

Detto provvedimento, richiamando i precedenti, individua come questione determinante quella inerente la natura dei beni in contestazione e la conseguente necessità o meno di uno specifico procedimento per la declaratoria dell’interesse culturale degli stessi.

Il giudice osserva come la procedura di accertamento di interesse culturale sia necessaria solo nel caso in cui sia dimostrato il legittimo possesso dei beni archeologici mentre, negli altri casi, tali beni devono ritenersi appartenenti allo Stato fin dall’origine, senza alcuna necessità del predetto procedimento amministrativo.

Nell’impugnato provvedimento viene anche ricordato quale sia il regime applicabile, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in ordine alla prova della legittima provenienza dei beni ed osservato che, avendo la sentenza con la quale la ricorrente era stata mandata assolta individuato la presunta datazione del rinvenimento delle anfore in un periodo compreso tra il 1913 ed il 1943, esso era da collocarsi necessariamente in data successiva a quella di entrata in vigore della L. n. 364 del 1990, con la conseguenza che i beni dovevano ritenersi appartenenti allo Stato.

Le argomentazioni poste a sostegno dell’impugnato provvedimento appaiono corrette e supportate da un apparato argomentativo immune da cedimenti logici.

Correttamente il giudice ha ritenuto di risolvere la questione concernente l’individuazione dell’avente diritto alla restituzione attraverso la adeguata qualificazione dei beni, che appariva determinante ai fini del decidere.

Del resto, nessuna contraddittorietà si rinviene nel provvedimento adottato, diversamente da quanto argomentato nel secondo motivo di ricorso, in quanto correttamente il giudice ha tenuto conto del decreto in data 5 novembre 2009, avverso il quale era stata proposta opposizione e che aveva natura assorbente rispetto a quelli precedentemente adottati.

Ciò posto, deve osservarsi come nell’ordinanza impugnata il giudice risulti aver fatto buon uso delle disposizioni applicate e dei principi indicati dalla giurisprudenza di questa Corte.

Occorre ricordare, in primo luogo, che l’individuazione dei beni culturali non avviene esclusivamente sulla base di categorie predefinite ed individuate per legge in quanto, per alcuni di essi, è prevista una procedura di verifica dell’interesse culturale mediante un complesso procedimento, definito dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 12, all’esito del quale la verifica della mancanza di tale requisito determina l’inapplicabilità delle disposizioni contenute nel codice. Se tale esito attiene a cose appartenenti al demanio dello Stato, delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali, è possibile disporne anche la sdemanializzazione qualora, secondo le valutazioni dell’amministrazione interessata, non vi ostino altre ragioni di pubblico interesse. Ciò determina anche la libera alienabilità delle cose medesime.

Al contrario, l’accertamento dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico determina la definitiva sottoposizione dei beni alle disposizioni in esame. Detto accertamento, secondo quanto disposto dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 12, comma 7, costituisce dichiarazione dell’interesse culturale del bene.

La dichiarazione, contemplata dall’art. 13, accerta a seguito di complesso procedimento, disciplinato dai successivi artt. 14, 15 e 16, la sussistenza dell’interesse culturale del bene.

Date tali premesse, va ricordato come il Codice dei BB.CC.AA. individui, nell’art. 10, comma 1, alcuni beni, appartenenti allo Stato e ad altri soggetti specificati, sottoposti alle disposizioni del codice fino a quando non sia stata effettuata la verifica dell’interesse culturale, garantendone così la tutela. L’esito positivo della verifica equivale, come si è appena detto, alla "dichiarazione". L’esito negativo ha, invece, le conseguenze in precedenza puntualizzate.

L’art. 10, comma 2, individua alcuni beni (quali, ad esempio, le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato) che non richiedono la dichiarazione e rimangono sottoposti a tutela anche qualora i soggetti cui appartengono mutino in qualunque modo la loro natura giuridica (art. 13, comma 2), mentre il comma 3 del medesimo articolo individua alcuni beni (quali quelli appartenenti a privati) che necessitano della "dichiarazione" di cui all’art. 13.

Per quanto riguarda, in particolare, i beni di interesse archeologico, la distinzione operata dal D.Lgs. n. 42 del 2004 riguarda l’appartenenza allo Stato (art. 10, comma 1) o ad altri soggetti (art. 10, comma 3).

Va poi ricordato che la giurisprudenza di questa Corte, anche successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 42 del 2004, ha precisato che non vi sono ragioni per discostarsi dal principio secondo il quale, ai fini della configurabilità del reato di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato, non è necessario che i beni siano qualificati come tali da un formale provvedimento della pubblica amministrazione, essendo sufficiente la desumibilità della sua natura culturale dalle stesse caratteristiche dell’oggetto (Sez. 3, n. 39109, 28 novembre 2006).

Ciò avviene in ragione della indicazione circa l’appartenenza e qualificazione delle cose ritrovate effettuata dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 91, con la conseguenza che l’accertamento dell’interesse culturale deve ritenersi necessario solo per i beni di cui all’art. 10, comma 3.

Si è ulteriormente specificato che non è necessaria la preesistenza di un provvedimento dell’autorità amministrativa che qualifichi il bene come culturale, essendo sufficiente un interesse culturale oggettivo, derivante da tipologia, localizzazione, rarità o altri analoghi criteri, e la cui prova può desumersi o dalla testimonianza di organi della P.A. o da una perizia disposta dall’autorità giudiziaria (Sez. 3, n. 35226, 21 settembre 2007).

Tali principi sono stati ribaditi anche recentemente (Sez. 3, n. 28239. 20 luglio 2010).

Chiarito dunque entro quali limiti deve ritenersi richiesto lo specifico procedimento di verifica dell’interesse culturale dei beni, deve osservarsi come, nella fattispecie, il giudice dell’esecuzione, con accertamento in fatto supportato da motivazione immune da vizi e, come tale, non censurabile in questa sede, ha ritenuto non dimostrata la legittima appartenenza alla ricorrente dei beni in sequestro essendosi accertato, nel giudizio di merito, che gli stessi erano stati acquisiti, come si è già detto, in epoca successiva a quella di entrata in vigore della L. n. 364 del 1909.

L’esclusione di tale evenienza evidenzia la titolarità dei beni in capo all’amministrazione statale con conseguente operatività del disposto del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 10, comma 1.

L’interesse culturale del bene era stato inoltre attestato, come ricordato anche in ricorso, dall’ausiliario di PG nominato all’atto del sequestro (nel 2003) e dalla stessa Sovrintendenza (nel 2009), e tali attestazioni sono state ritenute sufficienti dal giudice dell’esecuzione.

Non era pertanto necessaria l’attivazione della procedura di verifica dell’interesse culturale, già accertato ed inerente a beni indubbiamente di proprietà dello Stato, come verificato nel giudizio di merito.

Resta da aggiungere che è del tutto inconferente il riferimento alla sentenza 24654/09 di questa Corte più volte effettuato in ricorso.

Detta pronuncia, che non si discosta affatto dai principi in precedenza richiamati, nell’incertezza sulla individuazione del soggetto legittimato alla restituzione dei beni e ritenuta l’insufficienza dell’accertamento effettuato sugli stessi perchè intervenuto in epoca antecedente a quella di entrata in vigore del D.Lgs. n. 42 del 2004, aveva disposto l’annullamento con rinvio per l’espletamento della verifica di cui al cit. D.Lgs., art. 12 verifica che, nella fattispecie, risulta invece intervenuta.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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