Cons. Stato Sez. IV, Sent., 02-08-2011, n. 4580 Perseguitati politici e razziali

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Ministero delle Finanze ha impugnato, chiedendone la riforma, la sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio ha accolto il ricorso proposto dalla signora M. D. C. e, per l’effetto, ha annullato gli atti con i quali era stata respinta l’istanza dalla stessa presentata per il riconoscimento dei benefici di cui all’art. 5 della legge 10 marzo 1955, nr. 96, in materia di provvidenze ai perseguitati politici, antifascisti e razziali.

A sostegno del proprio appello, l’Amministrazione ha dedotto:

1) omessa pronuncia, ex art. 112 cod. proc. civ., circa il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo con riguardo ai benefici di cui alla legge 22 dicembre 1980, nr. 932 (avendo l’Amministrazione eccepito tale difetto di giurisdizione, in quanto a suo dire nella specie sussiste la cognizione della Corte dei Conti);

2) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 8 del r.d.l. 17 novembre 1938, nr. 1728, e degli artt. 2 e 3 della legge nr. 932 del 1980; insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto; travisamento dei presupposti di fatto e di diritto (in relazione alla mancanza di prova dell’appartenenza della istante alla razza ebraica, nonché dell’avere la stessa subito atti persecutori e discriminatori).

L’appellata, signora M. D. C., si è costituita per resistere al ricorso, chiedendo la conferma della sentenza impugnata.

Entrambe le parti hanno depositato memorie oltre il termine di cui all’art. 73 cod. proc. amm., ed all’udienza di discussione del 21 giugno 2011 hanno reciprocamente eccepito la tardività delle memorie di parte avversa.

Alla medesima udienza, la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

1. È appellata la sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio, in accoglimento del ricorso proposto dalla signora M. D. C., ha annullato il provvedimento con cui il Ministero dell’Economia e delle Finanze aveva respinto il ricorso gerarchico proposto dalla stessa sig.ra D. C. avverso le determinazioni negative adottate dalla Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici, antifascisti e razziali in ordine all’istanza intesa al riconoscimento dei benefici di cui all’art. 5 della legge 10 marzo 1955, nr. 96.

In particolare, il giudice di prime cure non ha condiviso la conclusione dell’Amministrazione in ordine alla mancanza di prova dell’appartenenza della istante alla razza ebraica, ritenendo al contrario – giusta il disposto del soppresso art. 8 del r.d.l. 17 novembre 1938, nr. 1728 – che tale appartenenza potesse dirsi accertata alla luce della documentazione prodotta.

2. Sul piano strettamente processuale, deve essere preliminarmente dichiarata l’inammissibilità delle memorie presentate dalla parte appellata in data 9 giugno 2011 e dall’Amministrazione in data 20 giugno 2011, essendo le stesse tardive rispetto al termine di cui all’art. 73 cod. proc. amm., ed essendosi le parti reciprocamente opposte alla loro ammissione in via eccezionale.

3. Tanto premesso, l’appello è infondato e va conseguentemente respinto.

4. In ordine logico, va prioritariamente esaminato il primo motivo di gravame, col quale l’Amministrazione assume il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, lamentando l’omessa pronuncia su tale punto da parte del primo giudice.

La questione può certamente essere delibata nella presente sede, indipendentemente dall’essere stata o meno la stessa già sollevata in primo grado, dal momento che, nel quadro normativo vigente anteriormente all’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, il difetto di giurisdizione era di regola rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, mentre ai sensi dell’attuale art. 9 cod. proc. amm. esso è rilevabile in grado di appello se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo esplicito o implicito (come evidentemente avvenuto nel caso di specie), ha statuito sulla giurisdizione.

Il motivo è comunque infondato, siccome basato su una evidente sovrapposizione e confusione tra i diversi benefici dei quali l’odierna appellata aveva chiesto il riconoscimento, ai sensi della normativa in materia di provvidenze ai perseguitati politici, antifascisti e razziali.

Più specificamente, la sig.ra D. C. aveva chiesto il riconoscimento, oltre che dei già menzionati benefici di cui all’art. 5, l. nr. 96/1955, anche della qualifica di perseguitata razziale ai sensi dell’art. 2 della legge 22 dicembre 1980, nr. 932, e dell’assegno vitalizio di benemerenza di cui all’art. 3 della stessa legge: tali istanze risultano respinte con due deliberazioni della competente Commissione (nn. 88112 e 88113 del 20 aprile 2007), delle quali l’Amministrazione appellante evidenzia la connessione con quella qui impugnata.

Tuttavia, se è vero che per tali ultime due deliberazioni – o, quanto meno, per quella in materia di assegno vitalizio – potrebbe effettivamente sussistere la giurisdizione della Corte dei Conti, va però chiarito che esse restano estranee al presente giudizio, nel quale risulta censurata la sola deliberazione nr. 88111 del 2007, relativa al mancato riconoscimento dei contributi figurativi previsti dal più volte citato art. 5, l. nr. 96/1955; in tale specifico settore, come più volte condivisibilmente affermato dalla stessa Corte dei Conti, non può ritenersi sussistente la giurisdizione di quest’ultima per carenza di una norma che specificamente la preveda, sicché le relative controversie appartengono alla cognizione del giudice amministrativo (cfr. Corte conti, sez. III, 2 novembre 1993, nr. 120732; Corte conti, sez. IV, 28 novembre 1991, nr. 72007; Corte conti, sez. V, 3 maggio 1989, nr. 63232).

5. Privo di pregio è anche il secondo mezzo, col quale sono censurate nel merito le statuizioni del primo giudice in tema di sussistenza in capo alla istante dei requisiti per il riconoscimento dei benefici de quibus.

5.1. Al riguardo, la Sezione condivide le conclusioni del T.A.R., le quali risultano fondate su plurimi elementi probatori che l’Amministrazione non ha contestato in fatto, limitandosi a contrapporre ad essi le risultanze di un accertamento attuale, da cui era emerso che la sig.ra D. C. non risultava iscritta nei registri delle comunità israelitiche.

In particolare, tali elementi sono costituiti:

a) dalla circostanza incontestata che il padre dell’odierna appellata fosse di razza ebraica (essendo stati peraltro taluni suoi parenti per parte paterna perseguitati e deportati ad Auschwitz);

b) da un provvedimento della Questura di Roma del 1941 attestante la cancellazione dell’interessata, su richiesta della madre, dalla comunità israelitica nella quale era stata originariamente iscritta;

c) dall’atto notorio prodotto dalla ricorrente, datato 21 febbraio 2005, attestante che nel 1943 alla stessa fu inibita la frequenza del corso abilitante per maestri elementari, e che in epoca successiva all’8 settembre di quello stesso anno fu costretta a nascondersi per evitare la cattura.

Ciò premesso, è del tutto meritevole di conferma l’avviso espresso dal primo giudice, secondo cui i suindicati elementi possono essere considerati idonei a documentare l’appartenenza dell’istante alla razza ebraica: infatti, tale requisito va apprezzato alla stregua dell’art. 8 dell’abrogato r.d.l. nr. 1728 del 1938, il quale – nell’ambito dell’odioso sistema delle cc.dd. "leggi razziali" – qualificava come ebreo, tra gli altri, chi fosse nato anche da un solo genitore appartenente alla razza ebraica, purché fosse risultato iscritto ad una comunità israelitica (ciò che, come visto, corrisponde alla situazione della sig.ra D. C.).

Alla luce di quanto sopra, ne risulta ridimensionata la questione della valenza da attribuire all’atto notorio prodotto dall’istante, in ordine al quale occorre però evidenziare non solo che trattasi per l’appunto di atto notorio, e non di mera dichiarazione sostitutiva, con la conseguente maggiore efficacia probatoria alla stregua della normativa in materia di autocertificazione, ma soprattutto che è stato lo stesso legislatore, tenuto conto della verosimile difficoltà nel reperimento della documentazione originaria, ad ammettere che la Commissione potesse avvalersi di atti notori per comprovare la sussistenza dei requisiti per l’ottenimento dei benefici attribuiti ai perseguitati (art. 6 della legge 24 aprile 1967, nr. 261).

E, se è vero che è rimesso all’apprezzamento della Commissione il giudizio circa la validità degli atti notori eventualmente prodotti, non può sottacersi che nella specie l’atto prodotto dall’istante andava ad affiancarsi, integrandole e arricchendole, a risultanze fattuali incontestate, quali sono quelle sopra richiamate sub a) e b): di modo che un giudizio di inattendibilità dell’atto notorio (comunque non esistente negli atti impugnati) avrebbe dovuto essere anche adeguatamente e ragionevolmente motivato.

5.2. Le considerazioni da ultimo svolte valgono anche a confutare quanto insistentemente affermato nell’appello dell’Amministrazione in ordine alla mancanza di prova dell’avere l’istante patito atti persecutori a cagione della propria appartenenza alla razza ebraica.

Infatti, è ancora dal richiamato atto notorio che emergono circostanze idonee a dimostrare che la sig.ra D. C. fu effettivamente vittima di discriminazione razziale: ciò che è anche confortato dalla stessa scelta genitoriale di cancellarla dalla comunità israelitica, verosimilmente riconducibile anche all’intento di sottrarla a possibili persecuzioni (come dimostrato pure dalla particolare epoca in cui la cancellazione fu chiesta).

Al di là di ciò, va però sottolineato che l’assenza di atti persecutori costituisce questione estranea al perimetro motivazionale degli atti originariamente impugnati, i quali si fondavano unicamente sulla ritenuta non appartenenza dell’istante alla razza ebraica; di modo che l’introduzione del predetto ulteriore tema da parte della Amministrazione appellante appare integrare una sorta di non consentita integrazione ex post della motivazione dei censurati atti di diniego.

6. In conclusione, alla stregua di quanto fin qui esposto s’impone una pronuncia di reiezione del gravame e di conferma della sentenza impugnata.

7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate equitativamente in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.

Condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento, in favore della parte appellata, delle spese del presente grado del giudizio, che liquida in 3000,00 euro oltre accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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