Cons. Stato Sez. IV, Sent., 02-08-2011, n. 4578 Concessione per nuove costruzioni modifiche e ristrutturazioni Edilizia e urbanistica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

I sigg.ri C. A. e V. M. presentavano al Comune di Verano Brianza una denuncia di inizio attività (DIA) per il recupero ai fini abitativi di un sottotetto presente in un immobile di loro proprietà, sito in via S. Giuseppe, 22.

La sig.ra F. E. nella qualità di proprietaria di un immobile sito in via S. Giuseppe 24, confinante con l’area su cui insiste il fabbricato di proprietà dei predetti sigg.ri C.- V. impugnava innanzi al Tar per la Lombardia la DIA suindicata, al fine di vederne dichiarata l’improduttività degli effetti della stessa nonché la illegittimità dell’ intrapreso intervento edilizio, con richiesta altresì di risarcimento danni in forma specifica a mezzo del ripristino dello stato dei luoghi.

L’adito TAR con sentenza n.1229/2009 dichiarava il ricorso inammissibile in ragione della rilevata impossibilità di un’autonoma impugnativa della DIA atteso che la stessa non avrebbe valenza provvedimentale, neanche quale autorizzazione tacita.

L’interessata è insorta avverso tale decisum, ritenendolo ingiusto ed errato.

In primo luogo col proposto gravame parte appellante critica la statuizione del TAR lombardo della non impugnabilità diretta della DIA, sul rilievo che l’assunto del primo giudice si fonderebbe su una tesi ormai superata, fortemente ed ingiustamente limitativa delle possibilità di tutela giurisdizionale del terzo. In ogni caso il rimedio giurisdizionale attivato è da ritenersi ammissibile giacché l’interessata aveva chiesto comunque l’accertamento degli effetti abilitativi formatisi a seguito di DIA.

Atteso poi l’effetto devolutivo dell’appello, la sig.ra E., dopo aver respinto le eccezioni preliminari di difetto di giurisdizione e di irricevibilità del ricorso di prime cure, ha quindi riproposto, con cinque motivi di doglianza, i mezzi d’impugnazione dedotti in primo grado in ordine alla non assentibilità dell’intervento.

Si sono costituiti i controinteressati C.V., che, oltre a ribadire la correttezza della statuizione di inammissibilità assunta dal Tar, hanno contestato nel merito la fondatezza dei motivi dell’appello, chiedendone la reiezione.

All’udienza del 12 luglio 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.

Motivi della decisione

Con la controversia all’esame viene in rilievo la (ormai "nota") problematica giuridica relativa alla natura giuridica della denuncia di inizio attività (DIA) e alla esatta individuazione della forma di tutela giurisdizionale consentita al terzo nei confronti della denuncia di inizio attività.

La Sezione, in precedenza, nell’occuparsi di una controversia implicante la risoluzione della suindicata questione, stante l’esistenza di statuizioni di segno opposto assunte in subjecta materia da questo Organo di giustizia amministrativa, con ordinanza n.14 del 7 dicembre 2010 ha rimesso, ai sensi dell’art.99 cpa, all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato l’esame della questione stessa al dichiarato scopo di assicurare univoci orientamenti giurisprudenziali in materia e, allo stato, non risulta che il suindicato Organo si sia pronunciato.

Nondimeno, nelle more di tale attesa pronuncia, il Collegio ritiene di dover assumere una specifica posizione sull’argomento, nel senso di dover (ri)affermare, quanto ai profili di diritto sostanziale, la natura provvedimentale della fattispecie realizzata a mezzo della denuncia di inizio attività con la consequenziale configurabilità di una impugnativa diretta della DIA quale autorizzazione per silentium se ed in quanto lesiva delle proprie posizioni giuridiche soggettive.

Dunque, relativamente alla "ricostruzione" dell’istituto, le tesi giurisprudenziali (e dottrinarie) che si fronteggiano sul punto e che sono state compiutamente richiamate, oltreché sapientemente illustrate nella suindicata ordinanza di rimessione all’A.P, sono, com’è noto, le seguenti:

a) la DIA come atto soggettivamente ed oggettivamente privato, come tale non impugnabile direttamente innanzi al giudice amministrativo: secondo tale indirizzo si è in presenza di un comunicazione fatta dal privato alla pubblica amministrazione circa l’intenzione di realizzare un’attività edilizia conformata dalla legge, che non necessita di un provvedimento neppure tacito (ex plurimis, Cons Stato Sez.VI 4 settembre 2002 n.4453; Sez. VI 9 febbraio 2009 n.717; recentemente, questa stessa Sezione 13 maggio 2010 n.2919). Siffatta dichiarazione del privato (idonea a produrre gli stessi effetti di un titolo abilitativo se ed in quanto sussistano tutti i presupposti ed i requisiti di legge) è soggetta al potere di controllo dell’Amministrazione, sicché il terzo che intende opporsi all’intervento, una volta decorso il termine per l’esercizio del potere inibitorio, è legittimato unicamente a presentare all’amministrazione istanza per l’adozione di provvedimenti sanzionatori previsti e ad impugnare l’eventuale silenziorifiuto su di essa formatosi, oppure ad impugnare il provvedimento emanato all’esito della avvenuta verifica (questa stessa Sezione 31 maggio 2007 n.2857; 7 luglio 2008 n.3384);

la DIA come atto provvedimentale, quanto meno come autorizzazione tacitamente assentita: secondo i fautori di tale tesi il silenzio formatosi sulla DIA va assimilato all’atto espresso, quale permesso di costruire, di talchè i terzi che ritengano di essere pregiudicati dalla effettuazione di un’attività assentita in modo implicito possono agire innanzi al giudice amministrativo con l’impugnativa diretta del titolo ad aedificandum, chiedendone l’annullamento.

In tale contrastanti panorami giurisprudenziali, il Collegio ritiene di dover sposare la seconda delle su illustrate tesi ermeneutiche e tanto per una serie di ragioni che militano in favore della stessa e che si vanno sinteticamente ad esporre:

la DIA non è uno strumento di liberalizzazione o privatizzazione, bensì un modulo procedimentale di semplificazione dell’azione amministrativa che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo sub specie dell’autorizzazione implicita di natura provvedimentale.

In particolare, trattasi di una tipica fattispecie a formazione progressiva, ad iniziativa della parte interessata in cui la denuncia di inizio attività svolge la funzione propulsiva e procedurale aperta a due possibili sviluppi: l’intervento inibitorio ex auctoritate oppure il superamento dello spatium deliberandi che perfeziona la DIA conferendole la valenza di un provvedimento sia pure per mezzo di un tacito assenso;

il titolo che giustifica nel campo amministrativo l’acquisto di un diritto o di una posizione giuridica soggettiva è rinvenibile in una manifestazione di volontà della pubblica amministrazione costituita generalmente dal provvedimento, quale atto idoneo a costituire, modificare o estinguere un rapporto a contenuto amministrativo.;

vi sono numerose disposizioni del DPR n.380/2001 attinenti alla DIA che vanno nella direzione di una configurazione di tipo provvedimentale dell’istituto, se è vero che: l’art.23 comma 5 fa riferimento al titolo; il comma 6 dello stesso articolo correla al decorso del termine la sussistenza del titolo abilitativo; l’art.23 prevede che la denuncia è in alternativa al permesso di costruire; il titolo II del testo unico sull’edilizia è dedicato espressamente ai titoli abilitativi tra i quali sono ricompresi sia la denuncia di inizio attività che il permesso di costruire;

la configurazione di un rimedio giurisdizionale in via di accertamento si rivela gravoso e penalizzante per il terzo costretto a "tallonare" la Pubblica Amministrazione e il controinteressato secondo i tempi lunghi propri delle procedure volte a far constare la illegittimità del silenzio e degli ulteriori,eventuali atti repressivi dell’Amministrazione, con conseguenti negativi riflessi in ordine alla certezza delle situazioni giuridiche soggettive scaturenti dai rapporti di diritto amministrativo, oltre all’indubbio appesantimento delle procedure giudiziarie.

Conclusivamente, sulla scorta di una ragionevole ricostruzione del sistema e di una pratica analisi dell’istituto, appaiono prevalenti le ragioni che inducono a far ritenere che i terzi che si assumano lesi da un intervento edilizio assentito per silentium a seguito di presentazione di DIA sono legittimati a gravarsi non avverso il silenzio, ma nelle forme dell’ordinario giudizio di impugnazione avverso il titolo stesso, al fine di rimuoverlo dal mondo giuridico.

Se così è, la statuizioni del TAR resa con l’impugnata sentenza che si limita ad escludere sic et simpliciter l’impugnabilità diretta della DIA presentata dai sigg.ri C.V. si appalesa errata e come tale è meritevole di riforma.

Una volta dichiarato ammissibile il gravame (sotto il profilo erroneamente censurato dal TAR) occorre procedere ad esaminare tutti gli ulteriori aspetti procedurali e di merito del ricorso di prime cure.

Va disattesa l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla difesa degli attuali controinteressati, secondo i quali nella specie verrebbero in rilievo, con riferimento alla dedotte censure di violazione della normativa disciplinante le distanze legali tra i fabbricati, posizioni giuridiche di diritto soggettive tutelabili semmai innanzi al giudice ordinario.

Invero, la controversia introdotta in prime cure e qui riproposta ha ad oggetto la legittimità o meno di un titolo ad aedificandum in relazione, principalmente, alla applicabilità corretta o no della normativa edilizia dettata dalla Regione Lombardia con la legge n.15/96 in ordine al recupero dei sottotetti; inoltre, in relazione al secondo altrettanto importante ordine di questioni sollevato in causa, la giurisprudenza (cfr Cons Stato Sez. IV 2 novembre 2010) ha da tempo chiarito che il d.m. 2/4/1968 n.1444, recante disposizioni in tema di distanze tra fabbricati, costituisce normativa di rango primario dettata ai fini del corretto assetto edilizio del territorio; e tali circostanze valgono sicuramente a far rientrare l’oggetto del contendere nell’ambito della cognitio di tipo esclusivo riconosciuta al giudice amministrativo già in base al risalente art.34 del dlgs. n.80 del 1998.

Neppure si rivela condivisibile l’eccezione di irricevibilità del ricorso per tardività pure ex adverso fatta valere.

La decorrenza della conoscenza dell’atto abilitativo, ai fini dell’utile contestazione giudiziale viene nella specie, in particolare, ancorata, da parte di chi eccepisce la tardività del gravame, alla data di esposizione del cartello di cantiere, ma una siffatta circostanza non appare idonea ad evidenziare una anticipata, effettiva conoscenza, non raggiungendo quel grado di rigore che la giurisprudenza ha espressamente richiesto ai fini in esame (cfr Cons Stato Sez. IV 12 febbraio 2007 n.599).

Invero, in tema di impugnazione di una concessione edilizia o di un titolo abilitativo da parte dei vicini, non è sufficiente la conoscenza degli estremi del provvedimento o l’inizio dei lavori, occorrendo la piena consapevolezza del contenuto prescrittivo e lesivo dell’autorizzazione rilasciata e ciò si consegue solo quando la costruzione riveli in modo certo ed inequivoco le essenziali caratteristiche dell’opera e la non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica (cfr Cons Stato Sez V 29 aprile 1986 n.236); e non v’è dubbio che nella specie, avuto riguardo a tale decisivo momento di lesività (e conseguente piena conoscenza dell’atto), l’impugnativa risulta tempestivamente proposta.

Il ricorso di primo grado, ancorché ammissibile e ricevibile, si appalesa nel merito infondato.

Col primo motivo parte appellante sostiene che l’intervento in questione non costituisce una ristrutturazione edilizia per il notevole aumento di volumetria che comporta e, in particolare, ad esso non è applicabile la normativa di favore recata dalla legge regione Lombardia n.15/96 in tema di recupero di sottotetti,dal momento che in loco non vi era un sottotetto, bensì una semplice intercapedine.

Le dedotte censure non hanno pregio.

I sigg. C.V. hanno presentato in data 4 giugno 2003 al Comune di Verano Brianza una DIA avente ad oggetto "opere di ristrutturazione per recupero sottotetto ad uso abitativo" esistente sull’immobile di loro proprietà, invocando l’applicabilità della disciplina di favore recata dalla legge della Regione Lombardia n.15 del 1996, che appunto consente, in via speciale e derogatoria, la possibilità di trasformare gli ambienti esistenti come sottotetti a vani ad uso abitativo.

Ebbene non pare che il progettato intervento, come assentito dal Comune, fuoriesca dai parametri edilizi fissati dal quadro normativo di riferimento, dovendosi, in particolare, respingere il rilievo formulato dall’appellante circa la dedotta non possibilità di configurare un’opera di ristrutturazione in presenza di un aumento di volumetria.

Invero, la tipologia d’intervento nominalmente in rilievo e cui si è inteso dare vita, quella della ristrutturazione, è contemplata direttamente dalla legge regionale in questione, che all’art.3 definisce espressamente il recupero del sottotetto come una ristrutturazione e quindi, stante una specifica previsione normativa che a tanto abilita, non può essere invocata la regola secondo cui l’aumento volumetrico non può farsi rientrare nella nozione edilizia di ristrutturazione, almeno ai fini di cui alla legge lombarda in parola.

Di converso, per dare concreta attuazione delle disposizioni di favore recate dalla normativa regionale di che trattasi, dal punto di vista tecnico, è da ritenersi senz’altro ammissibile la modifica delle altezze di gronda e del colmo, con conseguente aumento di volumetria, proprio per poter ottenere quei maggiori volumi da adibire ad uso abitativo che il legislatore regionale ha inteso far realizzare.

L’appellante lamenta il fatto che in realtà nella specie la parte dell’edificio interessata dall’intervento non è un sottotetto, ma solo una intercapedine impraticabile, preesistendo, in particolare unicamente uno spazio con un’altezza di gronda pari a zero, del tutto impraticabile.

Anche tale doglianza va respinta, risultando, tra l’altro, la stessa smentita dalla documentazione versata in giudizio.

In particolare, nella nota comunale del 14/6/2004, a firma del responsabile dell’ufficio tecnico, in cui ci si occupa diffusamente degli aspetti tecnici del procedimento per DIA, si dà atto in sostanza che il volume preesistente tra la soletta sottostante e il manto di copertura esistente sul fabbricato C.- V., costituito da uno spazio per un’altezza interna massima di colmo pari a mt 1,50, per le sue caratteristiche tipologiche, non è una intercapedine, ma un vero e proprio sottotetto.

Ad ogni buon conto, vale osservare che la stessa legge regionale n.15/96, all’art.1 comma 4, considera sottotetti i volumi sovrastanti l’ultimo piano degli edifici dei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura; e nella specie è pacifica in causa l’esistenza sull’immobile dei C.V. di un siffatto volume, che, come tale, è suscettibile di "ampliamento volumetrico" per ricavarne, appunto, un sottotetto abitabile.

Col secondo motivo d’impugnazione si sostiene che l’intervento de quo avrebbe dovuto essere autorizzato a mezzo di concessione edilizia e non mediante una DIA; ma la fondatezza di un tale assunto è smentita dal dato letterale delle previsioni recate dall’art. 4 comma 3 della legge Regione Lombardia n.22 del 1999, che ammettono il ricorso allo strumento della DIA per interventi anche di ristrutturazione, come ribadito e chiarito dalla normativa di carattere interpretativo di cui alla successiva legge regionale n.18 del 23 novembre 2001.

Col terzo motivo di gravame viene dedotta la violazione dell’art.9 del D.M. 2/4/1968 n.1444, che impone il rispetto della distanza tra pareti finestrate di 10 mt..

Un tale rilievo non appare sussistente, per la semplice ragione che, come peraltro evincibile dalla documentazione fotografica allegata in causa, in nessun punto l’immobile dei C.V. fronteggia il fabbricato dell’appellante sig.ra E., non essendo, in particolare, il manufatto dei primi posizionato (per nessun lato) di rimpetto, mentre la normativa invocata come violata richiede, ai fini dell’osservanza dei 10 metri di distanza, espressamente che i fabbricati siano antistanti (e tali non sono).

Va pure disattesa la censura di cui al quarto motivo d’impugnazione, lì dove si lamenta la violazione delle distanze dal confine, atteso che la gronda del tetto sopralzato del fabbricato degli attuali controinteressati invaderebbe per 50 cm la proprietà dei ricorrenti.

Ora, a prescindere dal fatto che la doglianza dedotta, per la natura degli interessi coinvolti, non può qualificarsi di per sé come un vizio di legittimità del titolo assentito, attinendo squisitamente ad aspetti di diritto privato, aventi consistenza di diritti soggettivi la cui tutela è da farsi valere in altre più appropriate sedi giurisdizionali, resta il fatto che in sede di scrittura privata sottoscritta in data 20/5/1989 (prodotta in giudizio) il sig. P. E. dante causa dell’appellante riconobbe ai sigg. ri V.C. la possibilità di realizzare uno sporto di gronda fino a 50 cm. oltre la linea di confine della sua proprietà.

Ora vero è che tale scrittura privata è sub judice, ma è altrettanto indubbio che non è questa la sede istituzionale preposta a verificare la validità o meno di accordi pattizi derogativi di norma codicistiche; e alla luce di ciò non pare possa dedursi la violazione di norme di diritto pubblico disciplinanti il rapporto amministrativo sotteso al titolo abilitativo per cui è causa.

Altrettanto dicasi per le censure di cui al quinto ed ultimo motivo del ricorso di primo grado qui riproposte, con cui viene denunciata l’apertura di due nuove finestre che si affaccerebbero (indebitamente) nella proprietà della ricorrente.

La circostanza dedotta dall’interessata, quanto alla sussistenza del fatto è oggetto di contestazione giudiziale in altre sedi e un tale profilo di doglianza non pare possa farsi rientrare nella figura di eccesso di potere per carenza di istruttoria, riguardando posizioni di diritto soggettivo sottese alla tutela e/o rivendicazione di diritti reali causative di eventuali azioni di responsabilità civile e tenuto conto che, in ogni caso, il rilascio di titoli abilitativi fa sempre salvi i diritti dei terzi.

Per le suesposte considerazioni, i motivi del ricorso di primo grado, qui riproposti, in quanto infondati, vanno respinti.

Sussistono peraltro giusti motivi, attesa la specificità della controversia e in considerazione dell’esistenza in materia di contrastanti orientamenti giurisprudenziali, per disporre tra le parti costituite la compensazione delle spese e competenze del doppio grado del giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando, così dispone:

provvedendo sull’appello, in riforma dell’impugnata sentenza, dichiara ammissibile il ricorso di primo grado;

b) rigetta, in quanto infondato, il gravame di prime cure.

Compensa tra le parti le spese e competenze del doppio grado del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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