T.A.R. Sardegna Cagliari Sez. II, Sent., 02-08-2011, n. 853 Onere della prova

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La società ricorrente è proprietaria di un lotto di terreno sito in Loiri Porto San Paolo sul quale, in forza di licenza edilizia n. 110 del 22.9.1968, era stato costruito un complesso residenzialealberghiero.

Con concessione edilizia n. 743/54 del 15 ottobre 1990 il Comune di Loiri Porto San Paolo approvava un progetto di ristrutturazione interna dell’edificio, conservando la destinazione ricettivoalberghiera.

Successivamente, con concessione edilizia n. 781/32 del 27 maggio 1991, autorizzava la ristrutturazione e l’ampliamento del residence alberghiero, in relazione al quale, in data 22 febbraio 1993, veniva rilasciata la licenza di agibilità dei locali.

Con istanza del 6 marzo 1998 la ricorrente presentava domanda di variazione della destinazione d’uso delle singole unità immobiliari da residenze alberghiere a residenze abitative, ma ad essa il Comune di Loiri Porto San Paolo opponeva il diniego impugnato col presente ricorso.

I vizi dedotti sono i seguenti:

Violazione di legge sub specie dell’art. 3 del D.M. 5 luglio 1975 – Eccesso di potere per erroneità dei presupposti e carenza di istruttoria e di motivazione: in quanto, in realtà, gli alloggi monostanza realizzati dalla ricorrente rispetterebbero esattamente la misura di 35 mq di cui all’art. 51 del regolamento edilizio;

Illogicità e violazione dell’art. 3 del D.M. 5.7.1975: in quanto il Comune di Loiri Porto San Paolo avrebbe illegittimamente fissato per gli alloggi monostanza una superficie minima superiore a quella prevista dal decreto ministeriale, senza alcun giustificato motivo e senza alcune precisazione in ordine alle esigenze urbanistiche perseguite.

Violazione di legge art. 33 L.U. n. 1150/1942 – Incompetenza – Carenza di presupposti – Eccesso di potere per illogicità e travisamento dei fatti: in quanto, tra i poteri commessi ai comuni dalla legge urbanistica, non vi sarebbe quello di incidere sui limiti del legittimo esercizio dell’autonomia privata e dell’attività d’impresa.

Illegittimità derivata sotto il profilo della violazione di legge e dell’eccesso di potere: per effetto dell’illegittimità delle norma sulle quali si fonda il potere esercitato dall’amministrazione, sarebbero viziati da illegittimità derivata i provvedimenti applicativi.

Concludeva quindi la ricorrente chiedendo, previa sospensione, l’annullamento dei provvedimenti impugnati, con vittoria delle spese.

Per resistere al ricorso si è costituito il Comune di Loiri Porto San Paolo che, con scritti difensivi, ne ha chiesto il rigetto, vinte le spese.

Alla camera di consiglio del 27 luglio 1999 l’esame dell’istanza cautelare è stato rinviato per essere deciso unitamente al merito della causa.

Con ricorso per motivi aggiunti, ritualmente notificato e depositato il successivo 14 dicembre 1999, la ricorrente ha impugnato anche le delibere consiliari n. 42 del 23 luglio 1997 e n. 43 del 30 giugno 1998, con le quali sono stati introdotti i limiti posti a fondamento del diniego deducendo violazione di legge (art. 10, comma 6, legge n. 1150/1942, art. 20, comma 8, L.R. 22.12.1989 n. 45, e art. 51 del Reg.Edil. Com.), nonché violazione di legge sub specie dell’art. unico della legge 3.11.1952 n. 1902.

Di qui la richiesta di annullamento, previa sospensione, anche delle menzionate delibere e dei conseguenti atti applicativi.

Alla camera di consiglio anche l’esame di questa istanza cautelare è stato rinviato per essere deciso unitamente al merito della causa.

In data 23 luglio 2010 per l’amministrazione comunale intimata si è costituito in giudizio, in sostituzione dell’avv. Pietro Corda, l’avv. Giuseppe Longheu.

In vista dell’udienza di trattazione le controparti hanno depositato memorie difensive con le quali hanno confermato le rispettive conclusioni.

Alla pubblica udienza del 15 giugno 2011, sentiti i difensori delle parti, la causa è stata posta in decisione.

Motivi della decisione

Sotto il profilo dell’interesse della ricorrente alla caducazione del provvedimento impugnato, deve anzitutto ritenersi fondata l’eccezione d’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse sollevata dalla difesa dell’amministrazione comunale intimata.

Ed invero risulta dalle difese di quest’ultima che, con deliberazione consiliare n. 30 del 27 settembre 2007, non impugnata, è stata approvata un’altra variante al regolamento edilizio comunale, con la quale sono state ulteriormente modificate le superfici minime dei locali monostanza, che sono state fissate in 38 mq, fermo restando il limite del 25% degli alloggi totali.

Sotto questo profilo, dunque, è evidente il venir meno dell’interesse della ricorrente all’annullamento dei provvedimenti impugnati, giacchè le nuove determinazioni assunte dall’amministrazione comunale, ormai definitivamente consolidatesi, non consentirebbero comunque il rilascio del titolo richiesto in relazione a strutture monostanza di 35 mq.

Peraltro, in vista di un possibile interesse della società M. di A.M. e C. snc a verificare, anche a fini risarcitori, la fondatezza delle sue pretese, deve comunque procedersi all’esame del merito del ricorso, che tuttavia si rivela infondato.

Tale infondatezza, inoltre, consente al Collegio di prescindere dall’esame delle ulteriori eccezioni procedurali sollevate dalla difesa dell’amministrazione.

Con la prima censura dell’atto introduttivo del giudizio la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 51 del regolamento edilizio comunale, che fissava in 35 mq la superficie minima delle unità residenziali e nella misura del 25% il numero delle unità monostanza rispetto al numero totale.

Sostiene infatti che le misure degli alloggi monostanza realizzati rispettavano la misura richiesta dalla disciplina comunale.

Sennonchè, dagli atti del giudizio, non è dato in alcun modo ricavare la fondatezza di tale affermazione.

Non è decisivo ai fini della dimostrazione dell’assunto della ricorrente neppure il richiamo agli allegati grafici del progetto (ricorso pag. 4 e memoria depositata il 25 maggio 2011 pag 4) che parte ricorrente afferma di depositare nel fascicolo di causa ma che non risultano versate agli atti neppure attraverso l’esame dell’indice delle produzioni documentali.

Pertanto, in applicazione dei generali principi in materia di onere della prova, la mancanza di un benché minimo indizio probatorio in ordine ad una affermazione resa in giudizio non può che far recedere la stessa a mera enunciazione verbale priva di rilievo processuale, restando altresì essa, pur nella peculiarità dell’istruttoria del processo amministrativo, inidonea ad eccitare l’esercizio dei poteri acquisitivi del giudice amministrativo (cfr: Consiglio Stato, sez. IV, 25 maggio 2011 n. 3135).

Con il secondo motivo si contesta la violazione dell’art. 33 L.U. n. 1150/1942, in quanto secondo la ricorrente il Comune intimato avrebbe dettato, nel regolamento edilizio, disposizioni non comprese tra quelle affidate alle sue competenze, limitate ad assicurare il rispetto di esigenze di decoro, igiene e sicurezza.

Rientra invece nella competenza comunale, proprio ai sensi della disposizione invocata dalla ricorrente, (art. 33) l’indicazione delle norme igieniche di particolare interesse edilizio (n. 9), nonché l’ampiezza e la formazione dei cortili e degli spazi interni (n. 6), materie tra le quali deve senz’altro ricomprendersi la disciplina, a fini di garanzie di condizioni ottimali di abitabilità, delle misure minime delle unità residenziali monostanza.

Sostiene altresì il ricorrente che la disciplina dettata dall’amministrazione comunale avrebbe violato il disposto dell’art. 3 del DM 5 luglio 1975, ai sensi del quale "Ferma restando l’altezza minima interna di m. 2,70, salvo che per i comuni situati al di sopra dei m. 1000 sul livello del mare per i quali valgono le misure ridotte già indicate all’art. 1, l’alloggio monostanza, per una persona, deve avere una superficie minima, comprensiva dei servizi, non inferiore a mq. 28, e non inferiore a mq. 38, se per due persone".

L’argomento è palesemente infondato, giacchè, come chiaramente desumibile dal tenore letterale della norma ministeriale, essa si limita a fissare il limite minimo inderogabile per gli alloggi monostanza, restando rimessa alla discrezionalità dell’autorità competente, insindacabile nel merito dal giudice amministrativo salvi i casi di macroscopica illogicità o irragionevolezza, non ricorrenti nella specie, la fissazione, in concreto, della misura ritenuta idonea a contemperare le esigenze delle iniziative economiche private con le condizioni minime di spazio ritenute necessarie per il riconoscimento dell’abitabilità.

L’interesse pubblico connesso alla prescrizione regolamentare in esame appare evidente, ove si consideri che l’assenza di qualsiasi limite, oltre ad incidere negativamente sul decoro abitativo, implica un fisiologico aumento delle persone dimoranti (nella zona o nel complesso immobiliare) e conseguentemente un maggior carico urbanistico che le opere di urbanizzazione, progettate per soddisfare normali utilizzi, potrebbero non essere in grado di sostenere.

Con il ricorso per motivi aggiunti la ricorrente ha impugnato le delibere consiliari n. 42 del 23 luglio 1997 e n. 43 del 30 giugno 1998, con le quali sono stati introdotti i limiti posti a fondamento del diniego, deducendo violazione di legge.

A suo avviso, infatti, non sarebbero state rispettate le procedure di pubblicazione previste per le varianti ai piani comunali.

In relazione a tale censura occorre premettere che la stessa assume rilevanza solo con riferimento al limite di proporzione (25%) dei locali monostanza rispetto al totale, giacchè, quanto alle dimensioni di questi ultimi, già col regolamento edilizio del 1991, approvato con decreto assessoriale n. 97/U del 2 giugno 1992, che sarebbe stato applicabile nel 1999 in caso di caducazione delle successive varianti, all’art. 51, lettera b), era stato espressamente previsto che l’alloggio monostanza "…deve avere una superficie minima, comprensiva dei servizi, non inferiore a 35 mq.".

In ogni caso il motivo è infondato.

Come si ricava dalla nota comunale n. 5727 del 4 agosto 1999, al tempo della richiesta di chiarimenti inoltrata dalla ricorrente il responsabile dell’Ufficio Tecnico, SettoreUrbanistica, Edilizia privata, comunicava che in relazione alle delibere n. 42 del 23.7.1997 e n. 43 del 30.6.1998, l’iter procedimentale era ancora in corso, e che in relazione ad esse, come previsto dalla legge 3 novembre 1952 n. 1902, pur non essendo ancora state pubblicate nel BURAS, si applicava il regime di salvaguardia che non consentiva la richiesta modifica di destinazione d’uso.

Quest’ultima disposizione, infatti, stabilisce che a decorrere dalla data della deliberazione comunale di adozione dei piani regolatori generali e particolareggiati, e fino all’emanazione del relativo decreto di approvazione, il sindaco, su parere conforme della Commissione edilizia comunale, può, con provvedimento motivato da notificare al richiedente, sospendere ogni determinazione sulle domande di licenza di costruzione, di cui all’art. 31 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, quando riconosca che tali domande siano in contrasto con il piano adottato.

E tale disciplina è stata ritenuta dalla giurisprudenza applicabile anche alle varianti dei piani.

Le delibere impugnate, dunque, costituivano gli atti di adozione di variante al regolamento edilizio annesso al piano di fabbricazione, rispetto ai quali, nelle more della conclusione del procedimento di definitiva approvazione, non potevano essere rilasciati titoli edilizi in contrasto con le determinazioni assunte dal consiglio comunale.

L’iter procedimentale sopra descritto si è concluso con la deliberazione del Consiglio comunale n. 24 del 6 marzo 2000, depositata dalla difesa dell’amministrazione il 4.10.2010, di approvazione definitiva della variante, non impugnata e quindi non contestata nel merito dalla ricorrente, in relazione alla quale la medesima non ne contesta neppure l’efficacia per mancata pubblicazione sul BURAS.

Quel che appare certo è che alla data di proposizione (14.12.1999) il ricorso per motivi aggiunti, al di là delle qualificazioni formali delle delibere contestate, è stato incentrato dalla ricorrente unicamente in relazione al mancato rispetto della loro procedura di formazione ma, in realtà, è stato proposto prima del completamento dell’iter procedimentale previsto dalla legge regionale n. 45/1989, mentre l’atto conclusivo (la deliberazione del Consiglio comunale n. 24 del 6 marzo 2000) non è stato neanche impugnato.

Per quanto sopra, quindi, il ricorso, al di là della già rilevata improcedibilità, si sarebbe rivelato comunque infondato anche nel merito.

Sussistono peraltro giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Seconda)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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