Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 01-06-2011) 25-07-2011, n. 29796 Reato continuato e concorso formale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

G.A. ricorre avverso la sentenza 17.5.10 della Corte di appello di Torino con la quale, in parziale riforma di quella in data 19.12.06 del Tribunale di Pinerolo, è stata determinata la pena, per il reato di cui agli artt. 81 cpv. e 486 c.p. (capo B), in un anno di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale, limitatamente agli episodi in danno di B.M. e D.L.G., consistiti nell’aver abusato di fogli firmati in bianco dai predetti sui quali vi erano apposti, senza il consenso delle controparti, un contratto di compravendita di lenzuola, copriletto e batteria di pentole, per l’importo totale di L. 7.480.000, a nome di B.M., ed un contratto di compravendita di copri materasso, coperte, ferro da stiro e batteria di pentole, per l’importo totale di Euro 2.800,00, a nome di D. L.G..

Con riferimento al reato di tentata truffa, sub A), la Corte torinese dichiarava non doversi procedere nei confronti del G. limitatamente agli episodi in danno di R.M. e D.L. G. perchè l’azione penale non poteva essere iniziata per tardività della querela, ed in ordine all’episodio in danno di B.M. perchè estinto per intervenuta prescrizione, con conferma delle statuizioni civili ad esso relative.

Il ricorrente, nel chiedere l’annullamento dell’impugnata sentenza, articola sette motivi di gravame. Con il primo e con l’ultimo si deduce violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), per non essere inquadratali i fatti contestati nell’art. 486 c.p. non essendo al riguardo sufficiente che l’autore del reato abbia il mero possesso di un foglio firmato in bianco, essendo necessario che abbia anche titolo o facoltà di riempirlo.

Nel caso in esame, invece, non era dato comprendere quale fosse il titolo che comportava l’obbligo o la facoltà dell’imputato di riempire i fogli asseritamene firmati in bianco, dal momento che la B., a suo dire, riteneva di aver firmato un foglio di presenza, documento che per sua natura non comporta nessuna facoltà o obbligo di riempimento da parte del possessore, mentre il D.L. aveva riferito di aver sottoscritto un documento con il quale riteneva di dover acquistare una pentola e non una batteria di pentole.

Con il secondo motivo si deduce violazione di legge con riferimento all’art. 521 c.p.p., dal momento che, avendo la Corte di merito riconosciuto che la condotta dell’imputato così come descritta nel decreto di rinvio a giudizio (solleciti di pagamento e atti di citazione) non era consistita in artifici o raggiri, ma in una condotta post factum nella quale non era possibile individuare la sussistenza del reato di tentata truffa sub A), il giudice di secondo grado avrebbe dovuto pronunciare sentenza di assoluzione e non condannare l’imputato per un fatto radicalmente diverso e cioè per aver indotto con l’inganno le persone offese ad apporre le loro firme su moduli aventi il contenuto di un contratto di acquisto di beni diversi.

Con il terzo motivo si deduce violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) per non avere i giudici territoriali sottoposto ad un rigoroso e penetrante vaglio critico le dichiarazioni accusatorie rilasciate dai querelanti, accettandole invece supinamente senza sottoporle ad un attento controllo di credibilità oggettiva e soggettiva, emergendo contraddizioni ictu oculi dalle dichiarazioni, rilasciate in tempi diversi, di B.M. in merito al riconoscimento del G., solo in sede dibattimentale avendo ricordato la p.o. sia il nome dell’imputato che quella della ditta.

Inoltre – prosegue il ricorrente – erroneamente i giudici avevano ritenuto le dichiarazioni della B. riscontrate da quelle rese dalla teste Ga. e dai testi della difesa secondo cui la Giada s.a.s. intratteneva presso l’Hotel Cavalieri di Pinerolo colloqui di lavoro per la ricerca di venditori, dal momento che nessuno dei testimoni aveva affermato di aver visto la B. partecipare ad un colloquio di lavoro con la Giada s.a.s., essendo rimasto solo accertato che detta società aveva tenuto dei colloqui di lavoro presso il predetto hotel nell’anno 2000 e nei primi mesi del 2001, travisamento che vi era stato anche con riferimento a R. M., avendo costei dichiarato di non aver mai incontrato la Giada s.a.s. o il G..

Riguardo poi alla vicenda D.L. e alle dichiarazioni rilasciate da questi e dalla figlia C., le numerose contraddizioni tra le due versioni non consentivano di ritenere credibili i due, ma le relative censure erano state superate dai giudici di appello con una motivazione apodittica, laddove invece le incongruenze non potevano ritenersi giustificabili con l’imprecisione dei ricordi di una persona anziana, la quale, oltretutto, in sede di querela si era detta analfabeta per poi in dibattimento ammettere di aver mentito sul punto, mentre D.L.C. in sede civile aveva ammesso che si era trattato di un acquisto di una batteria di pentole, ma in sede penale aveva sostenuto che il padre aveva inteso acquistare una sola pentola.

Anche con riferimento al reato di cui all’art. 486 c.p., si lamenta con il quarto motivo, i giudici di merito avevano ritenuto la responsabilità del G. pur in mancanza di prova diretta avendo rutti i querelanti riferito di ignorare cosa avessero sottoscritto e se il documento fosse in bianco, tanto che quanto sostenuto dalla B., di aver cioè rilasciato una firma di presenza comprovante l’avvenuta effettuazione di un colloquio di lavoro presso l’Hotel Cavalieri di Pinerolo, non era mai stato confermato nè dalla teste Ga. nè da quelli della difesa e comunque la stessa B. aveva dichiarato di aver partecipato ad un incontro in cui si esitavano merci varie con richiesta di acquisto di quelle esposte, una mera congettura essendo poi l’assunto dei giudici circa la sprovvedutezza dei querelanti o lo scarso valore dei beni venduti dalla Giada s.a.s., non potendo escludersi che anche un analfabeta come il D.L. fosse in grado di acquistare una batteria di pentole al prezzo di 2.800,00 Euro.

Con il quinto motivo, premesso l’interesse ad impugnare anche in relazione al reato di cui agli artt. 56 e 640 c.p. (capo A) per avere i giudici svolto una motivazione affermativa della responsabilità in ordine ai tre episodi contestati all’imputato, dichiarando prescritto quello relativo a B.M., con conferma delle statuizioni civili, si deduce violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) per avere i giudici omesso ogni motivazione circa la sussistenza degli artifici e dei raggiri, oltre che dell’induzione in errore delle parti lese e del nesso di causalità tra errore indotto e consapevole atto di disposizione patrimoniale, dal momento che i moduli sottoscritti dai querelanti recavano stampato in carattere cubitali la dicitura contratto d’acquisto, non costituente di certo un artificio o un raggiro a prescindere dal fatto che la dichiarazione fosse stata vergata o redatta dal sottoscrittore, senza che potesse assumere rilevanza nella tutela dell’affidamento la circostanza secondo cui i querelanti non avevano letto il contenuto dei documenti sottoscritti. Con il sesto motivo si deduce infine ancora violazione dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) per essere i giudici addivenuti alla identificazione dell’imputato quale autore dell’abusivo riempimento in mancanza di prove dirette, sulla base di un ragionamento critico privo dei necessari requisiti di cui all’art. 192 c.p.p., comma 2, sostenendosi che la circostanza che i contratti fossero stati rinvenuti a casa del G. e che questi ne avesse fatto uso per sollecitare pagamenti o attivare atti di citazione non escludesse la prospettabilità di ogni altra ragionevole situazione, ossia che i contratti ben potevano essere nella disponibilità dell’imputato anche se promossi da terzi venditori, la sola visura camerale non essendo da sola sufficiente ad affermare che la Giada s.a.s. non disponesse di venditori.

Osserva la Corte che il ricorso deve essere rigettato.

Quanto al primo e al sesto dei motivi, l’ipotesi prevista dall’art. 486 c.p. ricorre allorchè l’agente abbia tradito la fiducia di chi gli aveva rilasciato un foglio firmato in bianco, con facoltà o obbligo di riempirlo in un modo determinato, facendo apparire dal foglio stesso un atto produttivo di effetti giuridici diversi da quelli per cui gli era stata concessa la facoltà o imposto l’obbligo di effettuarne il riempimento.

Nella specie, con riferimento agli episodi riguardanti B. e D. L. (gli unici che rilevano in questa sede, essendo stata dalla Corte torinese pronunciata sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell’imputato in ordine alla tentata truffa sub A in danno di R.M. e D.L.G. per tardività della querela ed assoluzione per insussistenza del fatto in ordine al reato di cui all’art. 486 c.p., sub B, con riferimento all’episodio in danno della R.), entrambi hanno dichiarato di aver firmato un foglio completamente in bianco, il D.L. dopo aver accettato di acquistare una sola pentola al prezzo di L. 100.000 – essendo poi risultato che aveva invece apposto due firme in calce ad un contratto di acquisto di una batteria di pentole di acciaio al prezzo – di 2.800,00 Euro, intestato alla Giada s.a.s., con data apparente 2.4.02, cui aveva fatto seguito, dopo vari solleciti, un atto di citazione in data 10.5.04 -, mentre la B., dopo essersi detta non interessata alla proposta di lavoro di vendita porta a porta di pentole, lenzuola e articoli similari, al momento di allontanarsi al termine del colloquio di lavoro svoltosi nel 2001 in Pinerolo presso l’Hotel dei Cavalieri, su richiesta dell’imputato aveva apposto una firma a titolo di presenza su un foglio di cui nulla ricordava, ricevendo dopo qualche anno dapprima un sollecito di pagamento e quindi una citazione in giudizio l’11.6.04 con cui la Giada s.a.s. le aveva chiesto il pagamento di 7.480,00 Euro in relazione ad una fornitura di lenzuola, federe e copriletto dalla stessa ordinata in data 17.10.01, come risultava da un foglio intitolato contratto di acquisto, intestato alla società e sul quale risultava apposta la firma della B., sottoscrizione dalla predetta disconosciuta, come confermato anche dalla consulenza grafica disposta dal p.m..

Il comportamento tenuto dall’imputato, correttamente pertanto è stato dai giudici sussunto sotto la previsione di cui all’art. 486 c.p., avendo il G. abusato del foglio firmato in bianco riempiendolo in modo diverso da quello autorizzato (foglio di presenza nel caso della B.; acquisto di una sola pentola nel caso del D.L.).

Parimenti infondato è il secondo motivo, riguardante la asserita violazione dell’art. 521 c.p.p., con riferimento al reato di tentata truffa, dal momento che – e con riferimento al solo episodio riguardante la B., avente rilievo in questa sede – nessuna immutazione del fatto vi è stata rispetto all’accusa di truffa contrattuale tentata, contenuta nel capo d’imputazione sub A, avendo la Corte di merito semplicemente puntualizzato come il primo atto illecito si sia concluso con l’acquisizione fraudolenta della firma della persona offesa, cui aveva fatto seguito il comportamento dell’imputato consistito nella condotta concretatasi nell’esercizio delle pretese contrattuali – di cui alle scritture già fraudolentemente ottenute -, condotta illecita cui non aveva fatto seguito il relativo ingiusto profitto solo per la ferma opposizione della p.o., realizzandosi così l’ipotesi del tentativo ( artt. 56 e 640 c.p.).

Con gli altri motivi il ricorrente tende a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio, rimessi invece alla esclusiva competenza del giudice di merito e già valutati sia dal tribunale che dalla Corte di appello, che, con motivazione congrua ed immune da vizi logico-giuridici, ha evidenziato come la responsabilità del G. riposi sia sulle dichiarazioni della parti lese B. e D.L. – la cui attendibilità è stata adeguatamente valutata – che sui riscontri avutisi alle stesse.

In particolare, i giudici hanno rimarcato come sia rimasto provato che all’epoca dei fatti la Giada s.a.s. svolgeva, tramite annunci economici, attività di colloqui di lavoro presso l’Hotel Cavalieri di Pinerolo e ad essa si riferivano i contratti di vendita relativi alle parti lese, non disconosciuti nè dal G., socio accomandatario, nè dalla di lui moglie E.E., socia accomandante (non impugnante), laddove invece dalle deposizioni testimoniali era risultato che il G. aveva svolto presso il predetto hotel colloqui di lavoro e non un’attività di vendita al pubblico o a domicilio.

Significativamente, inoltre, a carico del G. vi era il comportamento tenuto in occasione della perquisizione domiciliare disposta dal p.m., all’esito della quale erano stati sequestrati il contratto di acquisto datato 17.10.01 recante due sottoscrizioni della B. e una cartellina su cui risultava scritto il nome della predetta unitamente ad un prestampato intitolato "richiesta di assunzione", intestato alla Giada s.a.s., ma il cui oggetto era quello di un contratto di vendita con fornitura a domicilio a seguito di ordine scritto dell’acquirente, cartellina di cui il G. si era però velocemente impossessato consegnandolo alla figlia A. la quale si era quindi chiusa in bagno uscendone solo dopo aver azionato lo sciacquone non consentendo in tal modo agli operanti di recuperare tale documento poco prima notato dal M.llo Ro..

Riguardo invece alla vicenda D.L. – hanno perspicuamente osservato i giudici del merito -, al di là di alcune imprecisioni espressive dell’anziano querelante, era però certo che il venditore aveva prospettato una vendita di pentole, senza che fosse comunque risultata l’avvenuta consegna delle stesse nè una consegna dell’ordine di acquisto, a fronte della abnormità, rispetto alle condizioni personali del D.L., di un ordine di acquisto di una completa batteria di pentole di acciaio del costo di 2.800,00 Euro, ordine – hanno infine sottolineato i giudici – senz’altro riferibile alla persona del G. come tale presentatasi telefonicamente alla figlia del D.L. che aveva prospettato la volontà di recedere dal contratto una volta venutane a conoscenza.

Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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