Cons. Stato Sez. IV, Sent., 03-08-2011, n. 4660 Decisione amministrativa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con il ricorso in esame, il Ministero dell’economia e delle finanze – Comando generale Guardia di Finanza, chiede la revocazione della sentenza 11 novembre 2010 n. 8020, con la quale questo Consiglio di Stato, sez. IV, in accoglimento dell’appello proposto dal sig. P. R., ha condannato detto Ministero al risarcimento del danno cagionatogli dal provvedimento con cui era stato giudicato non idoneo all’arruolamento nella Guardia di Finanza.

Secondo la sentenza impugnata, la ragione della ritenuta illegittimità del provvedimento di non idoneità (annullato in un precedente giudizio) "non è stata affatto ravvisata nella erroneità del giudizio medico – scientifico circa il carattere invalidante della patologia riscontrata nel candidato (betatalassemia o anemia mediterranea)… bensì nella erronea applicazione della normativa regolamentare in materia di imperfezioni fisiche e patologie suscettibili di precludere l’arruolamento", posto che il D.M. 3 febbraio 1992 non comprende, tra le patologie ed imperfezioni impeditive all’arruolamento, la betatalassemia (laddove questa era contemplata dal previgente D.M. 21 dicembre 1997). Tale mancanza di previsione, se non esclude in toto un possibile giudizio di inidoneità anche per tale patologia, avrebbe però reso "necessaria una più analitica e puntuale motivazione sul perché queste venivano giudicate invalidanti".

Da ciò è conseguita la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno, determinato in una somma pari al 50% delle retribuzioni che sarebbero state corrisposte nel periodo decorrente dalla data del provvedimento di inidoneità all’attualità, con corrispondente regolarizzazione della posizione contributiva e previdenziale, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali, per la parte eccedente la prima.

Avverso tale decisione, il Ministero dell’economia propone ora ricorso per revocazione, ritenendo sussistere errore di fatto revocatorio, ex art. 395 n. 4 c.p.c., poiché il ricorso in appello del P. non è stato correttamente notificato.

Infatti, a fronte di quanto disposto dall’art. 11 R.D. n. 1611/1933, il P. ha notificato il ricorso, non già all’amministrazione presso l’Avvocatura generale dello Stato in Roma, bensì presso la sede dell’Avvocatura distrettuale dello Stato di Cagliari.

Ciò avrebbe comportato che il ricorso in appello avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile, considerato anche che l’amministrazione non si è costituita in giudizio, non producendosi dunque alcun effetto sanante.

In conclusione, l’amministrazione ha comunque argomentato, in relazione ad una possibile fase rescissoria, in ordine alla infondatezza dell’appello.

Si è costituito in giudizio il P., che ha preliminarmente eccepito l’irricevibilità per tardività del ricorso per revocazione, per essere stato il medesimo notificato oltre sessanta giorni dopo la notificazione della sentenza all’amministrazione nel suo domicilio reale (disposta il 7 gennaio 2011 e ricevuta il 17 gennaio 2011, a fronte della notifica del ricorso avvenuta il 23 marzo 2011). Ha comunque concluso per l’infondatezza di quanto rappresentato nel ricorso, con riferimento al giudizio di appello.

All’odierna udienza, la causa è stata riservata in decisione.

Motivi della decisione

2. Il ricorso per revocazione è fondato e deve essere accolto, nei limiti e con le conseguenze di seguito esposte.

L’art. 41, comma 3, Cpa dispone che "la notificazione dei ricorsi nei confronti delle amministrazioni dello Stato è effettuata secondo le norme vigenti per la difesa in giudizio delle stesse".

E’ appena il caso di ricordare che l’art. 11, primo comma, R.D. 30 ottobre 1933 n. 1611 (nel testo introdotto dall’art. 1 l. n. 260/1958), prevede che "tutte le citazioni, i ricorsi e qualsiasi altro atto di opposizione giudiziale, nonché le opposizioni ad ingiunzione e gli atti istitutivi di giudizi che si svolgono innanzi alle giurisdizioni amministrative o speciali, od inerenti ad arbitri, devono essere notificati alle amministrazioni dello Stato presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l’Autorità giudiziaria innanzi alla quale è portata la causa, nella persona del Ministro competente".

Inoltre, l’art. 10, comma 3, l. 3 aprile 1979 n. 103, prevede che "l’art. 1 della legge 25 marzo 1958 n. 260, si applica anche nei giudizi dinanzi al Consiglio di Stato ed ai Tribunali Amministrativi Regionali".

Non vi possono essere, quindi dubbi, stanti l’espresso rinvio operato dal Codice e la vigenza delle citate leggi speciali, che le notificazioni degli "atti istitutivi di giudizi che si svolgono innanzi alle giurisdizioni amministrative" devono essere effettuate non presso il domicilio reale dell’amministrazione statale, ma presso il domicilio eletto ex lege presso l’Avvocatura dello Stato.

Inoltre, quest’ultima deve essere individuata in relazione al distretto in cui ha sede l’autorità giudiziaria adita, di modo che, nel caso in cui il ricorso sia proposto innanzi al Consiglio di Stato, la domiciliazione ex lege dell’amministrazione statale è presso l’Avvocatura generale dello Stato in Roma.

Alla disciplina ora illustrata non si sottraggono il ricorso in appello e, più in generale, i mezzi di impugnazione,

– sia in quanto la predetta disciplina speciale non limita affatto le particolari disposizioni sulla domiciliazione al solo giudizio di I grado (anzi, il citato art. 10 l. n. 3/1979, espressamente enuncia l’applicabilità della regola anche per il giudizio innanzi al Consiglio di Stato),

– sia in quanto l’art. 38 rende espressamente applicabili "anche alle impugnazioni e ai riti speciali" le disposizioni del Libro II (se non espressamente derogate), tra le quali rientra il già citato art. 41, comma 3, e quindi la applicabilità della speciale disciplina inerente la domiciliazione delle amministrazioni statali.

Non può, quindi, trovare accoglimento quanto dedotto dal P., laddove afferma che l’art. 41, comma 3, non estende la disciplina speciale alla "notificazione delle sentenze".

A tal fine, oltre a quanto già esposto, occorre osservare che l’art. 92, comma 1, Cpa prevede il termine "breve" di sessanta giorni per le impugnazioni "decorrenti dalla notificazione della sentenza", mentre, in difetto di notificazione, per il ricorso per Cassazione e per il ricorso per revocazione nei casi di cui all’art. 395, nn. 4 e 5, è previsto il termine "lungo" di "sei mesi dalla pubblicazione della sentenza".

Orbene, l’art. 92 disciplina, nell’ambito del processo amministrativo, la "cosa giudicata formale", allo stesso modo in cui dispone, per il processo civile, l’art. 324 c.p.c.. Ciò comporta che, al fine di ottenere il passaggio in giudicato della sentenza, per effetto della conseguita improponibilità di ulteriori mezzi di impugnazione, la parte che a ciò ha interesse (normalmente, la parte vittoriosa nel grado di giudizio) è tenuta a notificare la sentenza non già nel domicilio reale dell’amministrazione, bensì nel suo domicilio eletto ex lege, impedendosi, in caso contrario, il decorso del termine "breve" per il passaggio in giudicato della sentenza.

Tale conclusione, desumibile dagli artt. 41, comma 3 e 92 Cpa e dall’art. 324 c.p.c., è ulteriormente rafforzata dalla dizione dell’art. 10, comma 3, l. n. 3/1979, il quale prevede che la speciale disciplina della domiciliazione "si applica anche nei giudizi innanzi al Consiglio di Stato ed ai Tribunali Amministrativi Regionali", con ciò non riferendosi solo all’ipotesi in cui l’amministrazione sia evocata in giudizio, ed agli atti a ciò finalizzati, ma anche, più in generale, ad ogni notificazione di atti afferenti ai predetti giudizi, e quindi anche alla notificazione di sentenze, onde farne decorrere i termini di impugnazione.

Da quanto finora esposto, consegue:

– in primo luogo, la reiezione della eccezione di irricevibilità per tardività del ricorso per revocazione proposto dal Ministero dell’economia. Non essendo, per le ragioni già chiarite, la notificazione della sentenza del Consiglio di Stato presso il domicilio reale dell’amministrazione statale atto idoneo a far decorrere il termine di sessanta giorni per la proposizione dei mezzi di impugnazione (quindi anche per la revocazione cd. "ordinaria"), occorre applicare il diverso termine di "sei mesi dalla pubblicazione della sentenza" (ex art. 92, co. 3 Cpa), con la conseguente, rilevata tempestività del ricorso;

– in secondo luogo, la fondatezza del ricorso per revocazione, sussistendo a tutta evidenza l’errore di fatto revocatorio, ex art. 395 n. 4 c.p.c, per non essere stato l’appello al Consiglio di Stato avverso la sentenza del TAR, notificato all’amministrazione presso l’Avvocatura generale dello Stato (in luogo dell’avvenuta notifica presso l’Avvocatura distrettuale, domiciliataria ex lege nel giudizio di I grado), e per non essere stato ciò rilevato – a fronte del difetto di costituzione dell’amministrazione, e quindi in assenza di fatti "sananti" – da questo Consiglio di Stato.

3. Affermata, quindi, la sussistenza dell’errore di fatto revocatorio e la fondatezza del proposto ricorso per revocazione, il Collegio deve verificare quali siano gli effetti della positiva conclusione della fase cd. rescindente del giudizio per revocazione, laddove l’errore di fatto revocatorio consista in un difetto di notifica (entro il perentorio termine previsto dal Codice) del ricorso in appello, senza che l’amministrazione, costituendosi, abbia sanato la nullità afferente alla instaurazione del contraddittorio.

L’amministrazione ricorrente ritiene che "alla revocazione della sentenza de qua non può che far seguito – stante l’evidenziato difetto di notifica (non sanato) – la declaratoria di inammissibilità dell’avversario ricorso in appello, con conseguente intangibilità della sentenza di I grado".

Il Collegio non condivide tale avviso e ritiene che l’accoglimento del ricorso per revocazione, laddove l’errore di fatto consista nell’omesso rilievo da parte del giudice del difetto di notifica del ricorso in appello, comporti esclusivamente la "rescissione" della sentenza impugnata e la nuova celebrazione del giudizio di appello, questa volta con contraddittorio integro, così consentendo anche alla parte già ingiustamente pretermessa l’inviolabile esercizio del diritto di difesa.

E’ ben noto che la Corte Costituzionale, con sentenza 26 giugno 1967 n. 97, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, co. 1, R.D. n. 1611/1933, nella parte in cui esclude che l’intervenuta costituzione in giudizio dell’amministrazione sani la nullità della notifica.

A tale situazione, si riferisce anche, in via generale, l’art. 156, co. 3, c.p.c., in base al quale "la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato".

Analogo principio è ora affermato, proprio con riferimento alla nullità della notificazione, dall’art. 44, co. 3, Cpa (applicabile anche ai giudizi di impugnazione, ex art. 38 Cpa), secondo il quale "la costituzione degli intimati sana la nullità della notificazione del ricorso".

Anche la giurisprudenza amministrativa, sia pure non univocamente, ha ammesso la sanatoria della nullità del ricorso per difetto di notifica, per effetto della costituzione in giudizio dell’intimato, con conseguente esclusione di pronuncia di inammissibilità del ricorso per decorso del termine decadenziale (Cons. Stato, sez. V, 10 marzo 2009 n. 1384; sez. VI, 10 settembre 2007 n. 4747).

Orbene, come è noto la revocazione comporta una fase rescindente, nell’ambito della quale il giudice esamina la fondatezza del ricorso e, una volta riscontratala, revoca la sentenza impugnata; ed una fase rescissoria, nella quale il giudice procede ex novo al giudizio, emendato della causa che ha determinato la revocazione della sentenza già pronunciata.

Se tale è lo schema tipico del giudizio di revocazione, ne consegue che, qualora la parte proponga ricorso per revocazione al solo fine di far rilevare la nullità della notifica del ricorso in appello, il giudice non può esimersi dall’espletamento della cd. fase rescissoria, ed in questo nuovo giudizio la parte, in origine pretermessa, risulta costituita, proprio per effetto del proposto ricorso per revocazione, così sanando la nullità della notifica.

Tale risultato non è affatto irrilevante o privo di effetti, in quanto ciò che la nullità della notifica ha comportato è stata la violazione del diritto di difesa della parte non ritualmente evocata in giudizio; per effetto del ricorso per revocazione, il giudizio risulta ora ritualmente instaurato ed il giudice può ora esaminare i motivi del ricorso in appello, anche alla luce delle controdeduzioni della parte appellata, così come può esaminare l’eventuale appello incidentale da questa proposto.

D’altra parte, se la mancanza dell’integrità del contraddittorio e la lesione del diritto di difesa determinano, ex art. 105 Cpa, la rimessione della causa al primo giudice (non potendo la parte incolpevole perdere un grado di giudizio), in modo analogo l’accoglimento del ricorso per revocazione invocante la (non rilevata) nullità della notifica del ricorso in appello, determina la nuova celebrazione del (grado del) giudizio a contraddittorio integro e nel pieno rispetto del diritto di difesa.

Da ultimo, è utile ricordare che anche la regola della notifica all’amministrazione statale presso la Avvocatura dello Stato che ha sede nel medesimo distretto ove ha sede il giudice adito, costituisce un’eccezione alla regola generale espressa dall’art. 93 Cpa, secondo il quale "l’impugnazione deve essere notificata nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto dalla parte nell’atto di notificazione della sentenza o, in difetto, presso il difensore o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio e risultante dalla sentenza".

Tale deroga alla disciplina generale, che costituisce un evidente favor, riconosciuto all’amministrazione statale in sede processuale, al fine di meglio consentirne il diritto di difesa, ben può essere considerata ragionevole, in considerazione degli interessi pubblici dei quali l’amministrazione statale è portatrice. Nondimeno, l’applicazione di tale regola deve trovare i giusti contemperamenti, non potendo essa risolversi in una compressione del diritto alla tutela giurisdizionale del privato nei confronti della pubblica amministrazione statale, e ciò attraverso una applicazione rigida e formale, che, impedendo di giudicare nel merito, si risolva in una non ammissibile compressione del diritto di difesa.

Ove ciò fosse, occorrerebbe dubitare della legittimità costituzionale degli artt. 11 R.D. n. 1611/1933 e 10, l. n. 103/1979, di modo che degli stessi – pur riconosciuti ragionevoli – non può essere data se non una interpretazione costituzionalmente orientata che, sulla scorta della citata sentenza n. 97/1967 della Corte Costituzionale, bilanci la deroga alla disciplina generale della notificazione degli atti con la sanabilità della nullità della notifica per mezzo della intervenuta costituzione in giudizio.

E ciò è quanto accade anche nella fase rescissoria del giudizio di revocazione, per effetto dell’accoglimento del relativo ricorso.

4. Il Collegio, esaminato il ricorso in appello e le deduzioni del Ministero dell’economia (pagg. 16 – 20 del ricorso) ritiene di non doversi discostare dalle conclusioni cui era giunta la (revocata) sentenza n. 8020/2010, dovendosi accogliere l’appello del P., con conseguente riforma della appellata sentenza del TAR Sardegna, 13 dicembre 2005 n. 2273.

Il ricorrente P. nel 1992 ha partecipato a un concorso per l’arruolamento nel Corpo della Guardia di Finanza all’esito del quale, pur avendo superato tutte le prove, è stato giudicato fisicamente non idoneo perché affetto da "emopatia della serie rossa" (e cioè da betatalassemia, o anemia mediterranea).

Il T.A.R. della Sardegna ha annullato tale provvedimento con sentenza n.. 1187/1994, confermata da questa Sezione con decisione n. 1937/2003.

Nel presente giudizio, il signor P. ha chiesto condannarsi l’Amministrazione al risarcimento del danno cagionatogli dal suo illegittimo operato, sul rilievo che il lungo lasso di tempo decorso rendeva ormai impraticabile una tutela per equivalente. La sentenza impugnata nella presente sede ha però respinto la domanda attorea, reputando insussistente l’elemento psicologico della colpa dell’Amministrazione.

Il primo giudice ha sostenuto l’insussistenza della colpa dell’Amministrazione sul rilievo che solo in epoca successiva a quella del provvedimento lesivo (che è del 7 aprile 1993) le conoscenze scientifiche sull’affezione "betatalassemia" (o "anemia mediterranea") sarebbero progredite al punto da escluderne il carattere invalidante e preclusivo dell’arruolamento per i soggetti, come l’odierno appellante, che ne risultassero "portatori sani".

Tuttavia, al contrario di quanto affermato nella sentenza impugnata, risulta fondata la prospettazione di parte appellante secondo la quale, come è dato evincere dalla lettura delle sentenze con cui si è definito il giudizio di annullamento del provvedimento di inidoneità (in particolare, la n. 1937/2003 di questa Sezione), la ragione della ritenuta illegittimità di tale atto non è stata affatto ravvisata nell’erroneità del giudizio medicoscientifico circa il carattere invalidante della patologia riscontrata nel candidato, bensì nell’erronea applicazione della normativa regolamentare in materia di imperfezioni fisiche e patologie suscettibili di precludere l’arruolamento.

In particolare, l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione si è sostanziata nell’erronea applicazione del decreto ministeriale 3 febbraio 1992, contenente l’elencazione delle predette imperfezioni e patologie, nell’ambito del quale non erano ricomprese le affezioni riconducibili alla suindicata "betatalassemia"; si è altresì aggiunto che, pur non essendo esclusa in toto la possibilità di un giudizio di inidoneità anche per patologie non ricomprese nell’elencazione de qua, in tal caso sarebbe stata necessaria una più analitica e puntuale motivazione sul perché queste venivano giudicate invalidanti (ciò che non è avvenuto nel caso di specie).

Inoltre, come correttamente sottolineato dall’appellante, il silenzio del d.m. 3 febbraio 1992 sulle patologie ematiche del tipo di quella che qui interessa assumeva maggior significato a fronte del fatto che il previgente d.m. 21 dicembre 1987, invece, riportava fra le patologie ritenute invalidanti la "talassemia senza espressione emolitica": ciò che a fortiori dimostrava l’intento del legislatore di escludere dette patologie dal novero di quelle impeditive dell’arruolamento.

Quest’ultima circostanza, ad avviso della Sezione, avrebbe dovuto avvertire l’Amministrazione quanto meno della necessità di dedicare una particolare attenzione alla motivazione posta a base del giudizio di inidoneità espresso nei confronti dell’odierno appellante, e non può non essere ritenuta fortemente indicativa, nella fattispecie, di una negligenza idonea e sufficiente a fondare un giudizio di sussistenza dell’elemento della colpa dell’Amministrazione, integrativo dell’ipotizzato illecito aquiliano; un elemento, quest’ultimo, che non discende affatto, in modo automatico (e non condivisibile) dalla mera illegittimità dell’atto – così come correttamente segnala l’amministrazione – ma che è appunto conseguente ad una indagine sulla sussistenza della colpa che, per le ragioni esposte, può ritenersi satisfattoria.

Né rileva, alla luce delle considerazioni esposte, che la patologia della quale il P. era affetto fosse reale (circostanza, peraltro, che non risulta negata), posto che ciò che assume importanza è l’assenza di tale patologia dall’elenco di quelle impeditive dell’arruolamento, di modo che una eventuale conclusione negativa (come nel caso di specie) avrebbe avuto necessità di congrua motivazione.

Allo stesso modo, non può assumere rilievo, ai fini dell’esclusione della responsabilità, né la circostanza che "per ben due volte codesto Consiglio di Stato ha ritenuto seppur nella fase cautelare fondate le ragioni dell’amministrazione", né il fatto che, avendo le ordinanze cautelari spiegato i loro effetti, "per tutto tale periodo non può parlarsi assolutamente di danno, poiché sicuramente l’amministrazione era pienamente legittimata a non procedere all’arruolamento e poi perché non possono esserle addebitati i tempi del processo".

Quanto al primo aspetto, è del tutto pacifico che le considerazioni svolte dal giudice in sede cautelare, in prima delibazione del fumus boni iuris del ricorso, costituiscono una valutazione che si esaurisce nel mero ambito della fase cautelare e che non impegna il giudizio nel merito, né è spedibile al di là dei limitati fini della concessione (o del diniego) della misura cautelare.

Quanto al secondo aspetto, la tutela cautelare (richiesta dalla parte e non concessa ex officio dal giudice), se produce l’effetto di conservare la res iudicanda integra per il momento in cui interverrà la sentenza, medio tempore evitando pregiudizi gravi ed irreparabili per la posizione giuridica della parte richiedente, non può al tempo stesso costituire una esimente della (eventuale) responsabilità di quest’ultima e della obbligazione risarcitoria ad essa connessa.

Alla luce dei rilievi che precedono, e tenuto conto della pacifica sussistenza degli ulteriori elementi costitutivi dell’illecito ex art. 2043 c.c. – essendo evidente l’ingiustizia del danno in virtù della già accertata illegittimità del provvedimento di inidoneità, ed essendo palese il nesso di causalità fra tale atto e il pregiudizio lamentato dall’appellante, che consiste nel mancato conseguimento di un arruolamento dovuto, stante l’esito delle prove concorsuali -, s’impone la riforma della sentenza impugnata con l’accoglimento della domanda risarcitoria proposta dall’appellante.

In ordine alla quantificazione del danno risarcibile, e principiando dal lucro cessante, non può accogliersi la richiesta di parte appellante, che ha chiesto commisurarsi tale danno alle retribuzioni non percepite a partire dalla data del mancato arruolamento.

Infatti, come già in occasioni analoghe sottolineato da questa Sezione e condiviso dalla prevalente giurisprudenza della Suprema Corte, in sede di quantificazione per equivalente del danno in ipotesi di omessa o ritardata assunzione, questo non si identifica in astratto nella mancata erogazione della retribuzione e della contribuzione (elementi che comporterebbero una vera e propria restitutio in integrum e che possono rilevare soltanto sotto il profilo, estraneo al presente giudizio, della responsabilità contrattuale), occorrendo invece caso per caso indicare e dimostrare l’entità dei pregiudizi di tipo patrimoniale e non patrimoniale che trovino causa nella condotta illecita del datore di lavoro (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 6 luglio 2009, n. 4325; Cass. civ., sez. un., 14 dicembre 2007, n. 62282 e 21 dicembre 2000, n. 1324).

Tanto premesso, nel caso di specie se certamente è intuitivamente percepibile l’esistenza di un pregiudizio materiale per effetto del mancato arruolamento, occorre però tener conto del fatto che l’appellante, per il periodo di mancata assunzione, non ha dovuto impegnare le proprie energie nell’esclusivo interesse dell’Amministrazione, ma ha potuto rivolgerle alla cura di ogni altro interesse, sia sul piano lavorativo che del perfezionamento culturale e professionale (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29 ottobre 2008, nr. 5413; sez. V, 25 luglio 2006, n. 4645; C.g.a.r.s., 20 aprile 2007, n. 361).

Pertanto, il danno risarcibile può essere quantificato equitativamente e, in applicazione del combinato disposto degli artt. 2056, commi 1 e 2, e 1226 c.c., determinato in una somma pari al 50 % delle retribuzioni che sarebbero state corrisposte nel periodo decorrente dalla data del provvedimento di inidoneità (7 aprile 1993) a tutt’oggi, con esclusione di quanto a qualsiasi titolo percepito dall’interessato nel medesimo periodo per attività lavorative; al riconoscimento delle spettanze retributive si ricollega l’obbligo di regolarizzazione della posizione contributiva e previdenziale (nei limiti innanzi precisati).

Le somme così determinate andranno incrementate per rivalutazione monetaria e interessi compensativi al tasso legale, questi ultimi nella misura eccedente il danno da svalutazione, da calcolarsi a partire dalla data di pubblicazione della sentenza.

Non può trovare accoglimento, invece, l’ulteriore domanda intesa al risarcimento dei danni morali ed esistenziali che l’appellante assume di aver patito, siccome non assistita dal sia pur minimo principio di prova.

Pertanto, non può aderirsi alla prospettazione dell’istante, secondo cui lo stato depressivo (peraltro non documentato) accusato dal signor P. e il conseguente ritardo nel reperimento di altro impiego sarebbero da ricondurre causalmente alla frustrazione cagionata dalla vicenda amministrativa per cui è causa, piuttosto che alle ordinarie e notorie difficoltà che affliggono il mercato del lavoro, anche in territori come quello della Regione Sardegna.

In conclusione, occorre ordinare all’Amministrazione appellata, ai sensi dell’art. 34, comma 4, Cpa, di formulare un’offerta risarcitoria sulla base dei criteri sopra individuati, nel termine di sessanta giorni dalla notificazione o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza.

Qualora tra le parti non si raggiunga l’accordo sulla somma da corrispondere, alla determinazione di questa provvederà questa Sezione in sede di ottemperanza, su richiesta di parte.

Stante la natura delle questioni trattate, e le particolari vicende del presente giudizio, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sul ricorso per revocazione proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze (n. 2205/2011 r.g.):

a) lo accoglie e, per l’effetto, dispone la revocazione della sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 11 novembre 2010 n. 8020;

b) giudicando dell’appello proposto da P. R. (n. 2747/2006 r.g.), lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza TAR Sardegna n. 2273/2005, accoglie il ricorso in I grado, nei sensi di cui in motivazione;

c) compensa tra le parti le spese, diritti ed onorari di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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