Cons. Stato Sez. IV, Sent., 03-08-2011, n. 4642 Concessione per nuove costruzioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con l’appello in esame, il signor L. C. e gli altri ricorrenti indicati in epigrafe, impugnano la sentenza 19 febbraio 2004 n. 426, con la quale il TAR per la Calabria, sede di Catanzaro, ha rigettato il loro ricorso proposto avverso il diniego di concessione edilizia per la costruzione di un fabbricato per civile abitazione in loc. Verticelli del Comune di Casole Bruzio.

Più precisamente, con il ricorso introduttivo del giudizio di I grado, i ricorrenti impugnavano, oltre al predetto diniego di concessione edilizia, anche la delibera di Giunta Municipale 29 settembre 2000 n. 123, nella parte in cui la stessa dovesse ricomprendere il loro terreno tra quelli destinati alla ricostruzione dell’asilo nido e della scuola materna della frazione Verticelli, vietandone l’edificabilità.

La controversia attiene, in sostanza, al diniego di concessione edilizia opposto dal Comune di Casole Bruzio, per un immobile che i ricorrenti intendevano realizzare su un terreno di loro proprietà, destinato dal vigente strumento urbanistico a zona per ville, assumendosi che detto terreno è "compreso nell’area destinata alla demolizione e ricostruzione dell’asilo nido e scuola materna della frazione Verticelli".

Da ciò è conseguito il predetto ricorso introduttivo ed i successivi ricorsi per motivi aggiunti, con i quali sono stati altresì impugnati:

– la delibera G.M. 12 ottobre 1999 n. 228, di approvazione dei progetti di massima e di fattibilità dei lavori di demolizione e ricostruzione dell’asilo nido e della scuola materna, nonché le determinazioni del Responsabile del settore tecnico 11 aprile 2001 n. 99 e 22 giugno 2001 n. 130, recanti rispettivamente l’approvazione del progetto definitivo e del progetto esecutivo I° stralcio dei predetti lavori;

– la deliberazione del Consiglio comunale 7 maggio 2002 n.12, di approvazione del progetto definitivo; l’avviso dell’avvio del procedimento di esproprio e la nota 10 maggio 2002 n. 1577, recante avviso di deposito di atti per l’esproprio degli immobili necessari per la realizzazione della predetta opera;

– la delibera GM 16 maggio 2003 n. 41, recante autorizzazione all’occupazione di urgenza e avvio dei procedimenti espropriativi; la delibera CC citata nel predetto atto di Giunta, recante approvazione definitiva progetto in variante allo strumento urbanistico (n. 19/2002); il decreto del dirigente generale del Dipartimento Urbanistica della Regione Calabria 23 dicembre 2002 n. 18680, di approvazione della variante allo strumento urbanistico comunale.

La sentenza appellata ha affermato:

– la improcedibilità del ricorso, in quanto proposto avverso il diniego di concessione edilizia, sia in quanto la possibilità di edificazione risulta "preclusa dalla scelta dell’amministrazione di localizzare sull’area di proprietà dei ricorrenti l’opera pubblica"; sia in quanto, il nuovo PRG (adottato con delibera CC 7 maggio 2002 n. 13), dà all’area la nuova destinazione F3, attrezzature di interesse comune e per l’istruzione;

– l’inammissibilità della domanda di risarcimento del danno per illegittimità del diniego di concessione edilizia;

– alla data del diniego di concessione edilizia (12 settembre 2001), risultava già approvato il progetto di massima dell’opera (del. GM 12 ottobre 1999 n. 228) e risultavano già adottate le determinazioni dirigenziali di approvazione del progetto definitivo e del progetto esecutivo (decreti 11 aprile 2001 n. 99 e 22 giugno 2001 n. 139). Tuttavia – secondo la sentenza appellata – "l’esame di questo segmento della complessa vicenda… può essere pretermesso avendo l’amministrazione rinnovato il segmento procedurale concernente l’approvazione del progetto dell’opera" (del. C.C. 7 maggio 2002 n. 12, anche di variante allo strumento urbanistico);

– l’inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti, proposto avverso gli atti di nuova approvazione del progetto e variante urbanistica, poiché è stato impugnato solo il decreto del dirigente generale del Dipartimento urbanistica della Regione Calabria e non anche la delibera di Giunta Regionale 6 dicembre 2002 n. 1144, di approvazione della variante;

– l’infondatezza del ricorso per motivi aggiunti, proposto avverso la delibera GM n. 41/2003, di autorizzazione all’occupazione d’urgenza ed avvio dei procedimenti espropriativi.

Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di appello (così riassumendo quanto esposto alle pp. 1133 appello), oltre alla riproposizione dei motivi proposti in I grado e non esaminati dal TAR:

a) error in iudicando, in quanto "la sentenza non ha deciso il vero oggetto della controversia, che era l’illegittimità, nel momento in cui fu disposto, del diniego di concessione edilizia ed il conseguente risarcimento del danno"; tale diniego è illegittimo poiché "nel momento in cui era stato negato il rilascio della concessione richiesta a causa di una pretesa variante e di una asserita approvazione di opera pubblica… in realtà i progetti dell’opera non erano stati affatto legittimamente approvati, e la relativa variante urbanistica non era ancora efficace e anzi non esisteva neppure, per cui il terreno conservava ancora la sua originaria destinazione urbanistica ed era sicuramente edificabile";

b) error in iudicando, nella parte in cui il TAR ha estromesso dal giudizio di I grado il Sindaco e il Responsabile del settore tecnico, posto che "le persone fisiche in questione sono state evocate in giudizio ai sensi dell’art. 28 Cost. come responsabili diretti dei danni causati ai ricorrenti unitamente al Comune";

c) error in iudicando, in relazione alla dichiarata improcedibilità del ricorso avverso il diniego di concessione edilizia, posto che, anche a voler ritenere non più possibile l’edificazione, "l’interesse all’annullamento del diniego opposto ed al risarcimento dei relativi danni restava fermo", e comunque anche se in ipotesi il ricorso avverso il diniego di concessione edilizia fosse stato davvero da dichiararsi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, rimaneva doveroso pronunciarsi sulla domanda di risarcimento dei danni";

d) error in iudicando, sia in quanto una pretesa contrarietà del progetto alle NTA "non solo non sussiste… ma non è mai stata esternata, né fatta oggetto di alcun provvedimento"; sia in quanto la adozione di variante al PRG (2002) è successiva al diniego;

e) error in iudicando, poichè ai ricorrenti spetta il risarcimento del danno, in quanto, essendo il terreno edificabile, il titolo autorizzatorio edilizio andava rilasciato; comunque "anche la mera violazione dell’obbligo di comportamento secondo correttezza gravante sulla P.A. concreta e realizza di per sé la responsabilità per fatto illecito";

f) error in iudicando, poiché il TAR, avendo affermato di non pronunciarsi sugli atti impugnati con il primo ricorso per motivi aggiunti, poichè lo stesso "può essere pretermesso avendo l’amministrazione rinnovato il segmento procedurale concernente l’approvazione del progetto dell’opera", in tal modo "si è surrettiziamente sottratto al dovere di pronunciarsi sulle domande giudiziali proposte";

g) error in iudicando, poichè la sentenza, laddove rigetta i secondi motivi aggiunti, in quanto, contrariamente a quanto dedotto, le delibere comunali di approvazione della variante sarebbero state trasmesse alla Regione e da questa ritualmente approvate, è apodittica, priva di dimostrazione ed erronea, poiché "il dirigente regionale non ha approvato la variante impugnata con i secondi motivi aggiunti… ma soltanto la successiva del CC n. 19 del 4 luglio 2002, non esistente quando furono redatti i secondi motivi aggiunti";

h) error in iudicando, poiché l’atto dirigenziale di approvazione della variante è quello da cui "è disceso l’effetto di modificazione dello strumento urbanistico e la conseguente lesione diretta degli interessi dei ricorrenti", qualificandosi invece la precedente delibera di Giunta Regionale come atto interno, né lesivo né finale. D’altra parte, i ricorrenti non erano a conoscenza di tale atto – mai loro notificato né prodotto in giudizio – e nemmeno del testo integrale del decreto dirigenziale., ove lo stesso è citato. Peraltro, il decreto dirigenziale è stato impugnato non solo per il vizio di incompetenza (non sussistendo il quale, si conferma la correttezza della sua impugnazione, non dovendosi invece impugnare la delibera GR di approvazione), ma anche per ulteriori motivi (v. pag. 26 appello);

i) error in iudicando, in quanto con i terzi motivi aggiunti è stata impugnata anche la delibera CC n. 19/2002, recante approvazione del progetto di opera pubblica in variante allo strumento urbanistico, e ciò "prima dell’approvazione della variante";

j) error in iudicando, perché il TAR ha apoditticamente ritenuto tempestiva l’approvazione della variante da parte della Regione, senza che sia stato mai dimostrato quando gli atti sono stati ricevuti dalla stessa, ed essendo decorsi oltre sei mesi tra le delibere comunali di approvazione del progetto a quella regionale di approvazione;

k) error in iudicando, in quanto la comunicazione di avvio del procedimento di esproprio è improduttiva di effetti, perché risalente al marzo 2002, cioè ad epoca antecedente all’atto di approvazione regionale della variante;

l) error in iudicando, poiché la violazione dei termini perentori previsti dagli artt. 3 e 4 l. n. 23/1996 sull’edilizia scolastica, costituisce comunque una violazione di legge, né sono stati attivati i poteri sostitutivi regionali;

m) error in iudicando, poiché il TAR respinge il motivo relativo all’omessa acquisizione del parere di idoneità dell’area da parte della Commissione paritetica provinciale, ex art. 10 l. n. 412/1975, nonché del parere della Commissione provinciale ex art. 2 l. n. 17/1962, senza nulla dire sul secondo parere, e, quanto al primo, affermando apoditticamente che la relativa norma di legge non sarebbe applicabile alla fattispecie.

Si è costituito in giudizio il Comune di Casole Bruzio, che ha concluso per il rigetto dell’appello stante la sua infondatezza. In particolare (v. pag. 3 memoria 3 marzo 2011), il Comune ripropone l’eccezione di irricevibilità del ricorso introduttivo del giudizio di I grado, stante la sua tardività.

Quanto a quest’ultima, gli appellanti (v. memoria del 29 marzo 2011, pag. 6), eccepiscono la formazione del giudicato, non avendo l’amministrazione proposto appello incidentale.

All’odierna udienza la causa è stata riservata in decisione.

Motivi della decisione

2. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, con conseguente annullamento della sentenza impugnata, nei termini di seguito esposti.

La controversia (resa complessa da una pluralità di atti amministrativi – i primi relativi al citato diniego di concessione edilizia, gli altri alla realizzazione dell’opera pubblica (approvazione del progetto e variante urbanistica) – e, dunque, dalla presenza del ricorso introduttivo e di tre ricorsi per motivi aggiunti, con i quali i predetti atti sono stati impugnati, ha per oggetto, innanzi tutto, il diniego di permesso di costruire opposto dal Comune di Casole Bruzio, per un immobile che i ricorrenti intendevano realizzare su un terreno di loro proprietà, destinato dal vigente strumento urbanistico a zona per ville, assumendosi che detto terreno è "compreso nell’area destinata alla demolizione e ricostruzione dell’asilo nido e scuola materna della frazione Verticelli".

Esattamente la sentenza appellata afferma che "la questione della richiesta concessione edilizia conserva alcuni tratti di autonomia, oltre che di evidente priorità logica e temporale nell’esame che deve essere condotto".

Tuttavia, partendo da tale affermazione, la sentenza, preso atto che "l’area di proprietà dei ricorrenti ed interessata al progetto di intervento da questi avanzato sarà… ricompresa nell’area interessata alla realizzazione dell’opera pubblica, e quindi coinvolta da vicende espropriative nonché di ridefinizione della stessa destinazione urbanistica", conclude affermando che la legittimità di queste ultime procedure (accertata dalla medesima sentenza) "rende improcedibile il proposto ricorso nella parte in cui è rivolto avverso il sostanziale diniego di concessione edilizia".

Tale conclusione è impugnata dagli appellanti che (attraverso i motivi riportati sub a), c), d) ed f) dell’esposizione in fatto), affermano la persistenza dell’interesse alla pronuncia, lamentando che, in tal modo, il TAR ha omesso ogni pronuncia sulla legittimità degli atti, anteriori al diniego di concessione edilizia, e risalenti agli anni 1999 – 2001, atti "che sono quelli dai quali sono discesi il diniego opposto ai ricorrenti ed il danno da questi patito e che viziano in via derivata tutti i provvedimenti successivi". In definitiva, secondo gli appellanti, "la sentenza non ha deciso il vero oggetto della controversia, che era l’illegittimità, nel momento in cui fu disposto, del diniego di concessione edilizia ed il conseguente risarcimento del danno".

Il Collegio ritiene che tale censura sia fondata e deve essere, pertanto, accolta.

Ed infatti, l’eventuale legittimità (o meno) dei provvedimenti adottati dal Comune di Casole Bruzio – prima e dopo l’atto di diniego – ed afferenti all’approvazione del progetto di demolizione e ricostruzione dell’asilo nido e scuola materna della frazione Verticelli, alla connessa variante urbanistica ed alle procedure espropriative, non comporta la improcedibilità del ricorso proposto avverso il diniego di permesso di costruire, di cui alla nota 12 settembre 2001, posto che l’oggetto della controversia è costituito proprio dalla (eventualmente e legittimamente) intervenuta inedificabilità del suolo degli appellanti, per effetto della realizzanda opera pubblica (circostanza negata dagli attuali appellanti, ricorrenti in I grado), al momento di proposizione della domanda di permesso di costruire, essendo, per tale aspetto, irrilevanti le vicende successive dell’area.

Ed infatti, se, al momento di presentazione della domanda di permesso di costruire, il terreno fosse stato edificabile (anche per non essere legittimamente apposti vincoli e/o approvate varianti urbanistiche connessi alla realizzazione dell’opera pubblica), allora sarebbe stato illegittimo il diniego opposto a quell’epoca agli istanti.

Proprio come la stessa sentenza appellata evidenzia, ciò comporta che, se – per ulteriori e successive vicende – "l’edificabilità privata nell’area in questione non è più consentita", allora sussiste in capo al proprietario dell’area "la titolarità di un interesse pretensivo (da far valere con apposita istanza) a che l’autorità competente riveda in parte qua il piano urbanistico vigente al fine di valutare se ad esso possa essere apportata una deroga (in pratica, una variante) che recuperi, in tutto o in parte e compatibilmente con l’interesse pubblico, la previsione del piano abrogato, sulla quale si fondava originariamente la domanda di concessione."

E se anche questa possibilità è esclusa (per essere stato l’immobile – come nel caso di specie – destinato alla realizzazione di un’opera pubblica), il giudice deve comunque verificare la sussistenza del diritto al risarcimento del danno, derivante dalla illegittima compressione da parte della pubblica amministrazione, dello jus aedificandi, esistente al momento del suo esercizio.

Tali ultime considerazioni evidenziano come il ricorrente abbia pieno e persistente interesse alla pronuncia sul proprio ricorso tendente ad ottenere l’annullamento dell’atto di diniego, anche per quell’aspetto di accertamento (insito e preliminare ad ogni pronuncia costitutiva) in ordine alla suscettività edificatoria del suolo di sua proprietà, onde poter rivendicare, a valle dell’ottenuto annullamento del diniego, – in luogo del titolo autorizzatorio edilizio non più emanabile – un nuovo esercizio di potestà pianificatoria da parte dell’amministrazione, ove possibile, ovvero, sussistendone i presupposti, il risarcimento del danno.

La sentenza appellata, per un verso, ha correttamente preso atto della centralità della vicenda rappresentata dal diniego del permesso di costruire, e delle conseguenze (affermate dalla giurisprudenza) dell’impossibilità attuale di rilascio di titolo autorizzatorio; per altro verso, in modo non conseguente alle proprie stesse affermazioni, ha affermato l’improcedibilità del ricorso.

Né rilevano, a tal fine, due considerazioni espresse dal primo giudice (ribadite dall’amministrazione nell’atto di costituzione, pagg. 813), e relative:

– la prima, alla non assentibilità del progetto, a prescindere dalla realizzazione dell’opera pubblica, per suo contrasto con l’art. 16 NTA "sul punto specifico delle distanze minime previste per la zona interessata dall’intervento";

– la seconda, alla nuova destinazione del fondo, disposta dal nuovo PRG approvato con delibera 7 maggio 2002 n. 13, a zona F3, "attrezzature di interesse comune e per l’istruzione".

Ed infatti, per un verso, la contrarietà del progetto al citato art. 16 NTA, in disparte ogni considerazione sulla mancata esternazione di tale motivo con il provvedimento di diniego, non nega la edificabilità del fondo (accertamento al quale gli appellanti sono evidentemente interessati), ma, se pur può fondare il rigetto della domanda di permesso di costruire (ma tale non è stata la ragione esternata), rende (avrebbe reso) tuttavia possibile la presentazione di un nuovo progetto.

Per altro verso, la destinazione dell’area a zona F3, apportata da uno strumento urbanistico approvato in epoca successiva, per le ragioni già esposte, non incide sulla necessità di decidere il ricorso introduttivo del giudizio (stante la non sopravvenienza di difetto di interesse).

Alla luce di quanto esposto, il Collegio ritiene, quindi, in accoglimento dei motivi di appello sub a), c) e d) ed f) dell’esposizione in fatto, ed in riforma dell’impugnata sentenza, di dovere esaminare il ricorso introduttivo del giudizio di I grado, nonché il primo ricorso per motivi aggiunti, ritenendo peraltro insussistente, per le ragioni già esposte dalla sentenza di I grado (ed indipendentemente da ogni considerazione in ordine alla ritualità della riproposizione dell’eccezione in appello), la eccezione di irricevibilità del medesimo per tardività.

3. Il Comune di Casole Bruzio sostiene, in buona sostanza (v. pagg. 12 memoria 3 marzo 2011), che:

– "il progetto di massima della scuola materna ed asilo nido… era stato approvato con delibera GM n. 228/99, con inserimento nel piano triennale delle oo.pp. ai sensi della l. n. 109/1994, approvato con delibera del Consiglio comunale n. 6 del 29 febbraio 2000, cui ha fatto seguito la delibera GM n. 123/2000 assunta ai sensi degli artt. 14 e 16 della l. n. 109/1994 e dell’art. 13 DPR n. 554/1999";

– il progetto definitivo è stato approvato con successiva determinazione dirigenziale n. 99 del’11 aprile 2001, cui ha fatto seguito una successiva determinazione n. 139 del 22 giugno 2001, di approvazione del progetto esecutivo I stralcio;

– l’approvazione del progetto, essendo equivalente alla dichiarazione di p.u., ai sensi dell’art. 1, comma 3, l. n. 1/1978, "inibiva il rilascio del titolo".

Orbene, l’art. 1 della l. n. 1/1978, successivamente abrogato, per quel che interessa nella presente sede, disponeva:

"L’approvazione dei progetti di opere pubbliche da parte dei competenti organi statali, regionali, delle province autonome di Trento e Bolzano e degli altri enti territoriali equivale a dichiarazione di pubblica utilità e di urgenza ed indifferibilità delle opere stesse" (comma 1).

"Nei casi in cui lo strumento urbanistico vigente contenga destinazioni specifiche di aree per la realizzazione di servizi pubblici, l’approvazione dei progetti preliminari di lavori pubblici da parte del consiglio comunale, anche se non conformi alle specifiche destinazioni di piano, non comporta necessità di varianti allo strumento urbanistico medesimo sempre che ciò non determini modifiche al dimensionamento o alla localizzazione delle aree per specifiche tipologie di servizi alla popolazione, regolamentate con standard urbanistici minimi da norme nazionali o regionali" (comma 4).

"Nel caso in cui le opere ricadano su aree che negli strumenti urbanistici approvati non sono destinate a pubblici servizi oppure sono destinate a tipologie di servizi diverse da quelle cui si riferiscono le opere medesime e che sono regolamentate con standard minimi da norme nazionali o regionali, la deliberazione del consiglio comunale di approvazione del progetto preliminare e la deliberazione della giunta comunale di approvazione del progetto definitivo ed esecutivo costituiscono adozione di variante degli strumenti stessi, non necessitano di autorizzazione regionale preventiva e vengono approvate con le modalità previste dagli articoli 6 e seguenti della legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni" (comma 5).

"La regione emana il decreto di approvazione entro sessanta giorni dal ricevimento degli atti (comma 6)."

La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che "se è pur vero, infatti, che l’approvazione di un progetto di opera pubblica equivale ex lege a dichiarazione di pubblica utilità nonché indifferibilità ed urgenza dei relativi lavori, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della legge 3 gennaio 1978, n. 1, solo allorquando l’opera stessa sia conforme alle previsioni dello strumento urbanistico… laddove tale conformità difetti, è necessario che il progetto dell’opera pubblica da realizzare sia approvato dal competente consiglio comunale, ai sensi del quarto comma del già citato articolo 1 della legge 3 gennaio 1978, n. 1 (se l’opera pubblica viene localizzata su aree già specificamente destinate alla realizzazione di servizi pubblici) ovvero ai sensi del quinto comma, in variante allo strumento urbanistico in vigore (se l’opera pubblica viene localizzata in aree non destinate a servizi pubblici) e che, in tale ultima ipotesi, l’approvazione del progetto e la conseguente variante urbanistica esplicano i loro effetti solo dopo l’approvazione regionale, da cui normalmente derivano gli effetti di dichiarazione di pubblica utilità del progetto dell’opera pubblica approvata" (Cons. Stato, sez. IV, 18 marzo 2010 n. 1540; 22 giugno 2006 n. 3882; 30 gennaio 2006 n. 295; 1 marzo 2001 n. 1145).

A ciò occorre aggiungere che le garanzie partecipative sono dovute sia per l’adozione di variante puntuale, allorchè essa incida specificamente su aspettative di singoli proprietari fondate sullo strumento urbanistico vigente, sia in virtù degli adempimenti per finalità partecipative imposti alla pubblica amministrazione dagli art. 10 e 11 l. 22 ottobre 1971 n. 865, e consistenti nel deposito degli atti nella segreteria del comune, nell’avviso agli espropriandi e nella notizia al pubblico dell’avvenuto deposito, con fissazione di un termine per l’eventuale presentazione di osservazioni scritte da parte degli interessati; e ciò vale anche nel caso di procedimenti svolti ai sensi dell’art. 1 l. 3 gennaio 1978 n. 1 (Cons. Stato, sez. IV, 8 giugno 2007 n. 2999; 1 marzo 2006 n. 1004).

Nel caso di specie, stante la precedente (e non contestata) destinazione urbanistica (edificatoria) degli immobili degli interessati, proprio ai sensi dell’invocato art. 1 l. n. 1/1978 occorreva l’adozione di una apposita variante da parte del Consiglio comunale, con il rispetto delle garanzie partecipative degli interessati, e con successiva approvazione della medesima da parte della Regione.

Solo all’esito di tale procedimento, con l’emanazione dell’atto di approvazione regionale, come affermato da questo Consiglio di Stato (sez. IV, n. 1540/2010 cit.), "l’approvazione del progetto e la conseguente variante urbanistica esplicano i loro effetti… da cui normalmente derivano gli effetti di dichiarazione di pubblica utilità del progetto dell’opera pubblica approvata".

Poiché tanto non risulta fosse già avvenuto alla data di presentazione della domanda di concessione edilizia da parte degli interessati, ne discende che la destinazione urbanistica dei suoli di loro proprietà non era mutata, e quindi non poteva essere respinta la loro istanza, assumendo che il terreno era interessato dalla realizzazione dell’opera pubblica.

Ciò è, in parte, affermato anche nella sentenza di I grado, laddove si precisa che la delibera GM n. 123/2000 ha "valenza evidentemente e schiettamente programmatoria", mentre "non ha alcuna valenza in termini di modifica dello strumento urbanistico" (pag. 15).

Allo stesso modo, nella memoria del Comune del 24 gennaio 2005 (pag. 4), si afferma che "l’ente locale si è ben guardato dal procedere all’occupazione d’urgenza del terreno, non a caso disposta solo con delibera G.M. n. 41 del 16 maggio 2003, prima che la Regione approvasse a tali fini la successiva delibera consiliare n. 12/2002, di approvazione in variante del progetto di opera pubblica di che trattasi".

Sul punto, sostiene altresì, in via gradata, il Comune che, "anche a voler ritenere, solo per un attimo, che l’approvazione del progetto della scuola… richiedeva la procedura dell’adozione della variante… l’approvazione del progetto equivale, comunque, ad adozione di variante, con la conseguenza di far scattare, in tal caso, l’obbligo di applicare, ai sensi dell’art. 3 della l. n. 765/1967, le c.d. misure di salvaguardia".

Anche tale prospettazione – peraltro non presente nella motivazione nel provvedimento di diniego impugnato – non può essere condivisa.

E ciò in quanto, ai sensi della l. 3 novembre 1952 n. 1902, le misure di salvaguardia, che comportano la sospensione di "ogni determinazione sulle domande di licenza di costruzione", proprio perché conseguono "automaticamente" alla adozione dello strumento urbanistico da parte dell’ente locale, presuppongono una legittima "adozione" da parte dell’organo comunale competente, cosa che, per le ragioni già esposte, non ricorre nel caso di specie.

In disparte, quindi, ogni considerazione in ordine ai motivi di ricorso proposti in I grado, volti a ritenere che il Comune non abbia nemmeno esplicitato la sua volontà di avvalersi della procedura accelerata ex l. n. 1/1978, ed alla luce di quanto sin qui esposto, sono fondati i seguenti motivi (riproposti con il ricorso in appello): primo del ricorso principale sub 1.1, 1.2, 1.3, quarto e sesto dei motivi aggiunti notificati il 4 marzo 2002).

Da ciò deriva l’accoglimento del ricorso introduttivo del giudizio di I grado e del primo ricorso per motivi aggiunti (not. 4 marzo 2002), con il conseguente annullamento: del provvedimento 12 settembre 2001 n. 3107; delle delibere GM 29 settembre 2000 n. 123 e 12 ottobre 1999 n. 228; delle determinazioni del responsabile tecnico 11 aprile 2001 n. 99 e 22 giugno 2001 n. 130.

4. Questo Consiglio di Stato ritiene altresì fondato il motivo di appello (sub h) dell’esposizione in fatto) con il quale si è ritenuto sussistente un error in iudicando, poiché l’atto dirigenziale di approvazione della variante è quello da cui "è disceso l’effetto di modificazione dello strumento urbanistico e la conseguente lesione diretta degli interessi dei ricorrenti", qualificandosi invece la precedente delibera di Giunta Regionale come atto interno, né lesivo né finale.

Giova ricordare, in punto di fatto, che:

– con la delibera 7 maggio 2002 n. 12, il Consiglio comunale di Casole Bruzio, dopo che era stato comunicato agli attuali appellanti l’avvio del procedimento, ha approvato il progetto definitivo dei lavori per la realizzazione della scuola e dell’asilo in loc. Verticelli, precisando che tale approvazione costituisce variante allo strumento urbanistico vigente e fissando i termini iniziali e finali dell’espropriazione e dei lavori. In particolare, in tale delibera si dà atto che occorre disporre la variante allo strumento urbanistico "in quanto la zona interessata dall’intervento risulta essere zona C – zona destinata a ville"

– con nota 10 maggio 2002 n. 1577, pubblicata sul B.U.R. 15 giugno 2002, è stato dato atto dell’avvenuto deposito degli atti progettuali presso la casa comunale;

– con delibera 4 luglio 2002 n. 19, preso atto che "nel termine stabilito non sono pervenute osservazioni dei proprietari interessati", il Consiglio comunale procedeva alla approvazione del citato progetto definitivo;

– con deliberazione 6 dicembre 2002 n. 1144, la Giunta Regionale della Calabria ha approvato la variante urbanistica del Comune di Casole Bruzio, "rimettendo l’emanazione dell’atto di esternazione al Dirigente Generale del Dipartimento competente"

– con decreto 23 dicembre 2002 n. 18680, il Dirigente generale del Dipartimento Urbanistica della Regione Calabria ha approvato la variante allo strumento urbanistico regionale o, (secondo altra interpretazione) meramente esternato l’avvenuta approvazione;

– con deliberazione 16 maggio 2003 n. 41, la Giunta Comunale autorizzava l’occupazione di urgenza dei suoli espropriandi;

– con ulteriore nota 11 giugno 2003 n. 1823, notificata agli appellanti, si dava "avviso di deposito degli atti di esproprio necessari per i lavori di demolizione e ricostruzione dell’asilo nido e della scuola materna", mentre con nota n. 1822 di pari data si dava comunicazione di avvio del relativo procedimento.

Con il secondo ricorso per motivi aggiunti (not. il 8 luglio 2002) risultano impugnate la delibera n. 12/2002 del Consiglio Comunale e la nota n. 1577/2002.

Con il terzo ricorso per motivi aggiunti (not. il 11 luglio 2003) risultano impugnati la delibera del Consiglio Comunale n. 19/2002, la delibera di Giunta municipale n. 41/2003 e il decreto del Dirigente della Regione Calabria n. 18680/2002.

La sentenza appellata (pag. 19) ha ritenuto che "proprio perché il decreto del Dirigente è atto di mera esternazione della volontà dell’ente Regione, la quale si è esplicata in sede di deliberato di Giunta, la mancata impugnativa della delibera dell’organo collegiale rende inammissibile l’impugnativa del decreto dirigenziale di approvazione della variante".

In definitiva, secondo il primo giudice, la Giunta Regionale è organo competente all’approvazione degli strumenti urbanistici e loro varianti (e tanto è avvenuto per mezzo della delibera GR 1144/2002), mentre il decreto del dirigente "è mero strumento e modalità di esternazione" della precedente.

Da ciò è derivata (così ricostruendo una in verità non chiara decisione contenuta nella sentenza appellata, ed in assenza di indicazioni nel dispositivo) la declaratoria di inammissibilità del secondo ricorso per motivi aggiunti e, in parte, del terzo ricorso (relativamente all’impugnazione della delibera CC n. 19/2002).

La sentenza ha, inoltre, ritenuto infondato il terzo ricorso per motivi aggiunti, in quanto rivolto avverso la delibera di G.M. n. 41/2003, di autorizzazione alla occupazione di urgenza dei suoli espropriandi, poiché essa "è correttamente intervenuta solo a seguire l’approvazione regionale della variante".

In punto di fatto, occorre ancora osservare che il decreto 23 dicembre 2002 n. 18680 del Dirigente del Dipartimento Urbanistica della Regione Calabria, afferma testualmente nel dispositivo: "è approvata la variante allo strumento urbanistico vigente nel Comune di Casole Bruzio, ai sensi della legge n. 1 del 3 gennaio 1978… per la realizzazione dei lavori di cui in premessa". Ciò dopo avere affermato, nel preambolo, che "con deliberazione n. 1144 del 6 dicembre 2002, la Giunta regionale ha approvato la variante in questione, rimettendo l’emanazione dell’atto di esternazione al dirigente generale del dipartimento competente".

Deve aggiungersi che la nota 8 gennaio 2003 n. 860, nel trasmettere il citato decreto dirigenziale precisa che tale decreto è quello "con il quale è stata approvata la variante indicata in oggetto".

Sul punto, occorre innanzi tutto osservare che la citata delibera di Giunta Regionale non è stata oggetto di espressa impugnazione né con il secondo, né con il terzo ricorso per motivi aggiunti: essa non è citata nell’epigrafe, né risulta espressamente come oggetto di impugnazione nel corpo dei due ricorsi.

Non è possibile, dunque, condividere quanto affermato dagli appellanti (pag. 24 appello), secondo i quali "la deliberazione della Giunta Regionale (per quanto interna, non lesiva, né finale) è stata comunque cautelativamente impugnata in quanto atto connesso e collegato a quelli espressamente citati nell’epigrafe dei terzi motivi aggiunti".

Se con tali espressioni, gli appellanti intendono affermare che la citata delibera di Giunta Regionale è stata "implicitamente" impugnata (per il tramite dell’impugnazione del decreto dirigenziale), ciò può essere oggetto di esame da parte di questo Giudice, essendo tuttavia chiaro che occorre comunque escludere che tale delibera abbia formato oggetto di "impugnazione espressa"

Come si è detto, la sentenza appellata ha ritenuto il decreto dirigenziale mero "strumento di esternazione" di una approvazione comunque disposta (in quanto a ciò competente) dalla Giunta Regionale.

Al contrario, gli odierni appellanti (che pure hanno, in I grado, proposto tra gli altri un motivo di impugnazione del decreto dirigenziale, fondato sulla incompetenza del dirigente ad approvare la delibera di variante urbanistica), sostengono che "tale decreto dirigenziale costituiva l’unico atto finale, direttamente lesivo, ed avente rilievo esterno di manifestazione della volontà dell’ente… e quindi l’unico atto per il quale ravvisare un onere di impugnazione".

Il Collegio rileva, innanzi tutto, che in presenza di due atti (il decreto e la delibera di Giunta Regionale), ambedue definiti dalla stessa Regione Calabria, come "di approvazione" della variante urbanistica e del progetto di opera pubblica, il Tribunale avrebbe dovuto, prima di giungere ad una pronuncia di inammissibilità, nell’ordine ed in via subordinata: verificare l’esatta natura del decreto dirigenziale; verificare se – in presenza delle non poche oscurità della procedura seguita – non potesse ritenersi espressa, con il terzo ricorso per motivi aggiunti, una impugnazione, comunque rivolta a tutti gli atti di approvazione della variante allo strumento urbanistico, e quindi anche avverso la delibera di Giunta Regionale; verificare, infine, se non ricorressero, nel caso di specie, gli estremi della concessione dell’errore scusabile.

E ciò anche alla luce di quanto argomentato, nel giudizio di I grado, dalla stessa Regione Calabria, con il controricorso depositato in data 9 settembre 2003.

Ai fini di verificare la fondatezza del motivo di appello, questo Consiglio di Stato ritiene necessario – secondo quanto appena precisato – innanzi tutto individuare la natura giuridica del decreto dirigenziale impugnato, se cioè lo stesso abbia (o meno) natura provvedimentale, ovvero costituisca mero atto di esternazione (comunicazione) di un diverso ed anteriore provvedimento amministrato di approvazione, rientrante nelle competenze della Giunta Regionale.

A tali fini, è rilevante la legge reg. Calabria 13 maggio 1996 n. 7, recante "norme sulla struttura organizzativa della Giunta Regionale e sulla dirigenza regionale", che questo Consiglio deve necessariamente considerare, al fine di decidere sul motivo di appello,ancorchè tale legge non sia stata specificamente indicata dagli appellanti e non considerata dal giudice di I grado (benché indicata nelle proprie difese dalla Regione Calabria).

Tale legge prevede, tra l’altro:

art. 14 (attività di gestione):

"1. L’attività di gestione consiste nello svolgimento di servizi e nella emanazione di provvedimenti, nonché in tutte le attività strumentali finanziarie, tecniche ed amministrative, ad eccezione di quella di indirizzo.

2. L’attività di gestione é svolta, di regola, mediante operazioni ed atti amministrativi e si conclude, di regola, con determinazioni amministrative, con carattere di definitività, sottoposte ai controlli previsti dalle leggi.";

art. 16 (attribuzione dell’indirizzo e del controllo)

"1. L’indirizzo ed il controllo spettano agli organi di governo o agli organi che siano direttamente o indirettamente espressione di rappresentanza politica, a seconda delle rispettive competenze.".

Art. 17, comma 1 (attribuzione della gestione)

"La gestione spetta ai dirigenti, che sono responsabili sia dell’attività nel suo complesso e dei suoi risultati, sia dell’organizzazione e dell’utilizzazione delle risorse umane e finanziarie, sia dei singoli procedimenti o di fasi di procedimenti se attributari di soli compiti istruttori."

Art. 19 (adeguamento della struttura organizzativa ai principi del presente capo):

"1. Le norme legislative e regolamentari in vigore vengono adeguate al presente capo.

2. La Giunta regionale provvede a tale attività con proprie deliberazioni.".

In attuazione della legge n. 7/1996, la Giunta Regionale della Calabria, con delibera n. 2661/1999 (citata nel controricorso della Regione Calabria depositato nel giudizio in I grado in data 9 settembre 2003), ha disposto, tra l’altro che "le previgenti disposizioni legislative e regolamentari che conferiscono alla Giunta e/o al Presidente della Giunta Regionale l’adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi di cui all’art. 3, co. 2, del d. lgs. 3 febbraio 1993 n. 29… si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti".

Successivamente, il Presidente della Giunta Regionale, in attuazione della precedente delibera di Giunta Regionale, con decreto 24 giugno 1999 n. 354, ha disposto, tra l’altro, che, a decorrere dal 1 luglio 1999, "il provvedimento finale dei procedimenti amministrativi è adottato, sotto forma di decreto, dal dirigente generale".

Alla luce di quanto esposto – e nonostante una diversa lettura delle norme offerta dalla difesa della Regione Calabria in I grado – il contenuto delle disposizioni citate appare di tutta evidenza, nel senso di attribuire ai dirigenti, quantomeno a decorrere dal 1 luglio 1999, la competenza all’adozione dei provvedimenti conclusivi dei procedimenti amministrativi, intendendosi l’emanazione dei provvedimenti quale attività di gestione.

Tale interpretazione, oltre che fondarsi sulla chiara lettera delle disposizioni di legge e degli atti generali sopra citati, è del tutto coerente con quanto previsto dalla legislazione nazionale (d. lgs. n. 29/1993, e successivamente d. lgs. n. 165/2001) e con il principio di distinzione tra indirizzo politicoamministrativo ed attività gestionale.

D’altra parte, l’interpretazione che conduce alla affermazione della competenza dirigenziale è l’unica coerente con la Costituzione, posto che il principio di distinzione suddetto è stato ritenuto cogente anche per la legislazione regionale dalla Corte Costituzionale, in quanto di diretta e coerente attuazione dell’art. 97 Cost. (Corte Cost., 13 gennaio 2004 n. 2).

Ed a completamento di quanto richiamato, occorre ricordare che l’art. 45, comma 1, d. lgs. n. 80/1998 ha affermato che: "A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, le disposizioni previgenti che conferiscono agli organi di governo l’adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi di cui all’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti."

Tale disposizione è stata poi abrogata dall’art. 72, lett. bb), d. lgs.30 marzo 2001 n. 165, che ha riconfermato la competenza dirigenziale nell’emanazione dei provvedimenti amministrativi.

Alla luce di quanto esposto, appare del tutto evidente che l’atto di approvazione della variante urbanistica e del progetto di opera pubblica, adottati ai sensi della l. n. 1/1978, rientra nella competenza del dirigente generale della Regione Calabria al quale, per effetto degli atti di organizzazione e preposizione organica, è affidato il relativo settore.

Ne consegue che la eventuale delibera di Giunta Regionale che, nell’ambito del procedimento di approvazione, esprime un "avviso" (ancorchè anch’esso definito "approvazione") non può che rappresentare un atto endoprocedimentale esprimente il parere dell’organo di indirizzo politicoamministrativo, privo di natura provvedimentale e, quindi, di contenuto costitutivo e/o dispositivo.

Da quanto ora considerato, deriva che se il provvedimento conclusivo del procedimento di approvazione della variante urbanistica è di competenza del dirigente generale, che lo adotta con decreto, è tale provvedimento che costituisce l’atto (eventualmente) lesivo per la sfera giuridica dei privati e, quindi, l’atto da questi ultimi impugnabile.

Per le ragioni esposte, ed in accoglimento del motivo sub h) dell’esposizione in fatto, la sentenza appellata deve essere riformata nella parte in cui dichiara inammissibile il secondo ricorso per motivi aggiunti e, in parte, il terzo ricorso (relativamente all’impugnazione della delibera CC n. 19/2002).

5. Alla luce della disposta riforma della sentenza appellata, il Collegio ritiene di dovere esaminare i motivi di cui al secondo ricorso per motivi aggiunti, notificato in data 8 luglio 2002, ed i motivi di cui al terzo ricorso per motivi aggiunti (not. in data 11 luglio 2003), rivolti avverso la delibera CC n. 19/2002 ed il decreto dirigenziale regionale n. 18680/2002, tutti per come riproposti dall’atto di appello.

Innanzi tutto, il Collegio rileva la infondatezza del terzo dei motivi aggiunti notificati in data 8 luglio 2002 e sesto dei motivi aggiunti notificati in data 11 luglio 2003.

Il procedimento di approvazione del progetto dell’opera pubblica e della connessa variante urbanistica, scandito dalle due delibere del Consiglio comunale di Casole Bruzio nn. 12 e 19 del 2003 e, successivamente, dal decreto di approvazione del dirigente della Regione Calabria, costituisce un procedimento nuovo ed autonomo, rispetto agli atti in precedenza adottati, oggetto di impugnazione con due precedenti ricorsi (e già annullati da questa medesima decisione).

In tali delibere, infatti, come si è già avuto modo di osservare, il Comune di Casole Bruzio dà atto della destinazione urbanistica dell’immobile degli appellanti e, pur senza intervenire in autotutela o comunque considerare nel merito gli atti precedentemente adottati, dà atto della necessità di procedere alla approvazione di progetto e variante.

E’ appena il caso di ricordare che, anche in relazione alla accertata (e non rispettata) competenza del Consiglio Comunale, ai sensi della l. n. 1/1978 (ante, sub par. 3) si sono accolti i primi due ricorsi e disposto l’annullamento degli atti di approvazione del progetto di opera pubblica.

In effetti, così come, in precedenza, si è avuto modo di affermare che la successiva adozione/approvazione della variante urbanistica non rende improcedibile il primo ricorso, stante la persistenza dell’interesse dei ricorrenti alla pronuncia, così quei primi atti (e la loro accertata illegittimità) non determinano la illegittimità dei successivi (le due delibere consiliari ed il decreto dirigenziale regionale), essendo questi ultimi atti afferenti ad un nuovo ed autonomo procedimento.

Ne consegue che gli atti del nuovo procedimento, sussistendo una chiara cesura tra questi ed i primi atti (quelli impugnati con il ricorso introduttivo e con il primo ricorso per motivi aggiunti) non possono essere ritenuti illegittimi in via derivata dalla riscontrata illegittimità dei primi.

Allo stesso modo, non possono essere ritenuti fondati:

a) i motivi con i quali si lamenta l’introduzione di una "variante implicita" non approvata dalla Regione, la presenza della dichiarazione di pubblica utilità, consequenziale all’adozione della relativa variante, la riapprovazione effettuata dalla delibera n. 19(2002, in difetto di approvazione regionale (primo, secondo dei motivi agg. not. 8 luglio 2002; primo, secondo motivi agg. not. 11 luglio 2003);

b) il motivo con il quale si lamenta l’incompetenza del dirigente regionale ad approvare la variante urbanistica (terzo dei motivi agg. not. 11 luglio 2003;

c) il motivo con cui si lamenta la tardività di tale approvazione (motivo sub j) dell’esposizione in fatto e terzo dei motivi agg. not. 11 luglio 2003);

d) i motivi con i quali si lamenta l’impossibilità di applicazione di misure di salvaguardia (sesto dei motivi agg. not. il 11 luglio 2003).

Quanto all’infondatezza del motivo sub b), ci si riporta a quanto già esposto al precedente par.4.

Quanto al motivo sub c), occorre osservare che non è sufficiente indicare il lasso di tempo trascorso per l’adozione del decreto dirigenziale regionale, rispetto alle delibere del Consiglio Comunale, non costituendo tale indicazione principio di prova, al fine di poter richiedere ulteriori accertamenti istruttori, e dovendo il ricorrente indicare, anche approssimativamente, gli elementi sui quali si fonda la lamentata tardività.

Quanto ai motivi sub a) e d), occorre osservare che il Consiglio Comunale di Casole Bruzio ha inteso svolgere un procedimento di approvazione della variante urbanistica, garantendo il momento partecipativo, con conseguente adozione dapprima della delibera n. 12/2002 e, successivamente, della delibera n. 19/2002. Non vi è spazio, dunque, per parlare di "variante implicita"; né l’approvazione del progetto deve, ai sensi della l. n. 1/1978, essere temporalmente successiva alla approvazione della variante

Quanto alla applicazione delle misure di salvaguardia, di cui si è già in precedenza trattato e con argomenti, cui si rinvia, che conducono a sostenere la infondatezza, del motivo sub d) se tuttavia con lo stesso si intende affermare che, al momento della adozione della variante (o meglio, un attimo prima) il terreno era edificatorio ed andava rilasciata la concessione edilizia a suo tempo richiesta, esso motivo appare assorbito dall’accoglimento del ricorso introduttivo del giudizio.

Con ulteriori motivi di ricorso, gli odierni appellanti hanno lamentato:

– la violazione dei termini perentori previsti dalle norme sull’edilizia scolastica, di cui alla l. n. 23/1996 motivo sub l) dell’esposizione in fatto);

– il mancato rispetto del procedimento di scelta delle aree per l’opera pubblica, di cui alla l. n. 641/1967;

– la mancata acquisizione degli imprescindibili parere della Commissione provinciale ex art. 2 l. n. 17/1962 e della Commissione paritetica, ex art. 10 l. n. 412/1975 (motivo sub m) dell’esposizione in fatto.

In ordine a tali motivi, la sentenza appellata ha affermato:

– il superamento dei termini di cui alla l. n. 23/1996, comporta, come unico effetto, "l’attivazione del potere sostitutivo della Regione", di modo che "non è questione di dubitare allora della perentorietà di detti termini, bensì di individuare l’effetto dell’inerzia dell’ente locale";

– la mancata acquisizione del parere della Commissione paritetica provinciale non rileva, non essendo "la citata disposizione applicabile alla fattispecie di cui alla presente controversia ed avendo comunque la resistente amministrazione scolastica provveduto ad acquisire il parere favorevole sul progetto del Provveditore agli studi di Cosenza, a sua volta preceduto dal parere del Consiglio scolastico distrettuale e di quello provinciale".

Quanto al primo dei motivi riportati, l’art. 4 l. 11 gennaio 1996 n. 23 prevede, in particolare:

". Gli enti territoriali competenti sono tenuti all’affidamento dei lavori nel termine di centoventi giorni dalla comunicazione della concessione del mutuo." (comma 7)

" I termini di cui ai commi 4, 5, 7 e 8 hanno carattere perentorio. Qualora gli enti territoriali non provvedano agli adempimenti di loro competenza, provvedono automaticamente in via sostitutiva le regioni o le province autonome di Trento e di Bolzano, in conformità alla legislazione vigente. Decorsi trenta giorni, in caso di inadempienza delle regioni o delle province autonome di Trento e di Bolzano, provvede automaticamente in via sostitutiva il commissario del Governo" (comma 9).

Come è dato osservare, la prevista perentorietà del termine comporta non già l’illegittimità dell’atto adottato, bensì l’esercizio di potere in via sostitutiva da parte di altra autorità; il che non esclude, contemporaneamente, l’esercizio del potere da parte dell’ente originariamente attributario del medesimo, fintanto che tale sostituzione non sia stata concretamente operata.

Quanto al secondo dei motivi riportati, lo stesso si appalesa infondato, non ritenendosi applicabile al caso di specie (ricadente nell’ambito di applicazione della l. n. 1/1978), le diverse e specifiche disposizioni di cui alla l. n. 641/1967.

Quanto al terzo dei motivi riportati, occorre osservare – in ciò confermando la sentenza di I grado – che i pareri prescritti dalle leggi citate devono essere obbligatoriamente resi, ma limitatamente alle opere di edilizia scolastica realizzate in attuazione delle leggi medesime, non assurgendo cioè tali adempimenti procedimentali a regole generali dei procedimenti propedeutici e connessi alla realizzazione di opere di edilizia scolastica (Cons. Stato, sez. IV, 17 luglio 2002 n. 3991).

6. Gli appellanti lamentano, riproponendo il motivo n. 9 del terzo ricorso per motivi aggiunti (anche sub k) dell’esposizione in fatto) la "omessa comunicazione di avvio del procedimento di approvazione del progetto e di localizzazione dell’opera pubblica", censurando la sentenza del TAR, che si sarebbe limitata a rilevare "che vi sarebbe stata una comunicazione di avvio del procedimento (quella del 22 marzo 2002) cui sarebbe seguita una ulteriore comunicazione di avvio del procedimento di occupazione", laddove tale comunicazione "risale al marzo 2002, cioè ad epoca antecedente all’approvazione regionale della variante (23 dicembre 2002), e come tale essa risultava illegittima ed improduttiva di effetti.

Si è già avuto modo di affermare in precedenza che, in sede di adozione di variante urbanistica e di approvazione del progetto di opera pubblica ex l. n. 1/1978, le garanzie partecipative sono dovute sia per l’adozione di variante puntuale, allorchè essa incida specificamente su aspettative di singoli proprietari fondate sullo strumento urbanistico vigente, sia in virtù degli adempimenti per finalità partecipative imposti alla pubblica amministrazione dagli art. 10 e 11 l. 22 ottobre 1971 n. 865, e consistenti nel deposito degli atti nella segreteria del comune, nell’avviso agli espropriandi e nella notizia al pubblico dell’avvenuto deposito, con fissazione di un termine per l’eventuale presentazione di osservazioni scritte da parte degli interessati; e ciò vale anche nel caso di procedimenti svolti ai sensi dell’art. 1 l. 3 gennaio 1978 n. 1 (Cons. Stato, sez. IV, 8 giugno 2007 n. 2999; 1 marzo 2006 n. 1004).

Tali garanzie partecipative, così come condivisibilmente affermato dalla sentenza appellata, non rispettate in origine, sono state poi attuate dal Comune di Casole Bruzio, il quale ha correttamente fornito notizia agli appellanti dell’avvio del procedimento, poi conclusosi con l’adozione del decreto dirigenziale regionale di approvazione. Nessun altro obbligo di comunicazione doveva essere assolto dall’amministrazione, risultando peraltro essersi attuata in concreto la partecipazione degli appellanti al procedimento.

Il motivo di appello deve essere, conseguentemente, ritenuto infondato, così come risultano altrettanto infondati, alla luce delle complessive considerazioni sinora esposte, i motivi sub g) ed i) dell’esposizione in fatto.

Per tutte le ragioni sin qui esposte, il secondo ed il terzo ricorso per motivi aggiunti sono infondati e devono essere, pertanto, respinti.

7. In conclusione, il Collegio deve esaminare la domanda di risarcimento del danno proposta con il ricorso introduttivo del giudizio di I grado, in precedenza accolto con la presente decisione.

Preliminarmente, il Collegio deve rigettare il motivo di appello (sub b) dell’esposizione in fatto), con il quale si deduce l’error in iudicando, nella parte in cui il TAR ha estromesso dal giudizio di I grado il Sindaco e il Responsabile del settore tecnico, posto che "le persone fisiche in questione sono state evocate in giudizio ai sensi dell’art. 28 Cost. come responsabili diretti dei danni causati ai ricorrenti unitamente al Comune".

In disparte ogni considerazione sull’esatto ambito di applicazione del principio sancito dall’art. 28 Cost., occorre osservare che – come ha affermato la sentenza di I grado – la individuazione della "posizione di parte necessaria della lite va compiuta in base al criterio dell’imputazione sostanziale degli effetti", in questo caso "in capo al Comune".

Ne discende che, mentre non vi è alcun dubbio in ordine alla legittimazione passiva del Comune di Casole Bruzio, relativamente alla proposta domanda di risarcimento del danno, tale legittimazione non può essere riconosciuta anche ai soggetti persone fisiche, titolari di organi, che, in quanto tali, hanno sottoscritto gli atti adottati dagli organi medesimi.

Occorre, peraltro, osservare che, anche a voler configurar una "responsabilità diretta" delle persone fisiche, autonoma o solidale con l’ente nell’ambito della cui organizzazione essi sono titolari di organo, sussiste più di un dubbio in ordine alla giurisdizione del giudice amministrativo sulla controversia avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno laddove proposta nei confronti di dette persone fisiche (argomentando dal’ art. 103 Cost., nonché dagli artt. 7 e 30 Cpa).

Tanto premesso, la domanda di risarcimento del danno è fondata e deve essere, pertanto, accolta, con conseguente riforma, sul punto, dell’impugnata sentenza, nei limiti di seguito esposti.

La sentenza appellata ha ritenuto la domanda di risarcimento del danno inammissibile in quanto essa non può trovare ingresso allorchè "non vi sia certezza in ordine al rilascio del provvedimento autorizzatorio, con la conseguenza che il giudice non può attribuire autonomo rilievo risarcitorio alla mera violazione dell’obbligo di comportamento imposto alla amministrazione, indipendentemente dalla soddisfazione dell’interesse finale".

In disparte ogni considerazione sul se tale rilievo determini effettivamente inammissibilità della domanda risarcitoria (come pronunciato dal I giudice), ovvero, più propriamente, infondatezza della medesima, occorre richiamare, ai fini dell’esame della domanda, quanto già affermato con riferimento alla fondatezza del ricorso introduttivo del giudizio (superando la declaratoria di improcedibilità pronunciata dal TAR).

Si è già, infatti, affermato che non rilevano – anche ai fini dell’esame della domanda risarcitoria – due considerazioni espresse dal primo giudice e ribadite dall’amministrazione nell’atto di costituzione (in particolare, pagg. 1314), e relative:

– la prima, alla non assentibilità del progetto, a prescindere dalla realizzazione dell’opera pubblica, per suo contrasto con l’art. 16 NTA "sul punto specifico delle distanze minime previste per la zona interessata dall’intervento";

– la seconda, alla nuova destinazione del fondo, disposta dal nuovo PRG approvato con delibera 7 maggio 2002 n. 13, a zona F3, "attrezzature di interesse comune e per l’istruzione".

Tali considerazioni non assumono rilievo, in quanto ciò che è centrale (come già in precedenza affermato) è la persistente (al momento della domanda di concessione edilizia) natura edificatoria del suolo di proprietà degli appellanti, così come dagli stessi ribadito (pag. 19 appello).

Ed infatti, per un verso, la contrarietà del progetto al citato art. 16 NTA, peraltro non esternata dal provvedimento di diniego, non nega la edificabilità del fondo, ma, se pur può fondare il rigetto della domanda di permesso di costruire (ma tale non è stata la ragione esternata), rende (avrebbe reso) tuttavia possibile la presentazione di un nuovo progetto.

Con la motivazione assunta, invece, si è in pratica negata l’edificabilità privata del suolo, e si sono indotti gli appellanti a non ritenere più presentabile alcun progetto edilizio, onde ottenerne l’autorizzazione.

Per altro verso, la destinazione dell’area a zona F3, apportata da uno strumento urbanistico approvato in epoca successiva, non incide sulla natura edificatoria del suolo al momento della presentazione della domanda di concessione edilizia.

La presenza e persistenza di tale natura edificatoria, invece espressamente negata dall’amministrazione, pur consapevole di non avere approvato il progetto di opera pubblica e la connessa variante urbanistica secondo la disciplina vigente (ivi compresa la l. n. 1/1978) – al punto di avere successivamente proceduto ex novo, nel 2002, alla (ri)adozione di detti atti – fondano chiaramente una negligenza idonea e sufficiente a sorreggere un giudizio positivo circa la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa dell’amministrazione, integrativo dell’ipotizzato illecito aquiliano..

Alla luce dei rilievi che precedono, e tenuto conto della pacifica sussistenza degli ulteriori elementi costitutivi dell’illecito ex art. 2043 c.c. – essendo evidente l’ingiustizia del danno in virtù della già accertata illegittimità del provvedimento di diniego, ed essendo palese il nesso di causalità fra tale atto e il pregiudizio lamentato dall’appellante, che consiste nel mancato conseguimento del titolo autorizzatorio edilizio per negata edificabilità del suolo di proprietà- si impone la riforma della sentenza impugnata, con l’accoglimento della domanda risarcitoria proposta dall’appellante.

Tale danno consiste nella illegittima compressione delle facoltà connesse al diritto di proprietà, e precisamente dello ius aedificandi, per il periodo intercorrente dalla data di presentazione della domanda di concessione edilizia (20 giugno 2001), alla data di adozione della delibera n. 12/2002 (7 maggio 2002), posto che, a tale data, devono ritenersi operanti le norme di salvaguardia connesse all’adozione della variante urbanistica.

A tale fine, occorre anche osservare che, a fronte della compressione suddetta, non risulta che, per il periodo considerato, gli appellanti abbiano perso la materiale disponibilità del bene, oggetto solo in momento posteriore di immissione in possesso della P.A. per disposta occupazione di urgenza.

Il danno risarcibile consiste dunque:

– in primo luogo, nei costi sostenuti dagli appellanti per la redazione del progetto, nella misura dimostrata dagli stessi, attraverso idonea documentazione, fiscalmente regolare (fatture e simili);

– in secondo luogo, nella già evidenziata compressione delle facoltà edificatorie per il periodo sopra indicato.

Per questa seconda voce, il danno risarcibile può essere quantificato, in via equitativa, in una somma pari ad un decimo del valore venale attualizzato (trattandosi di debito di valore) del bene, tenuto conto della natura edificatoria dell’area al momento della intervenuta compressione dello ius aedificandi, e ciò per ciascuno degli anni di compressione, ovvero, per periodi inferiori all’anno (come nel caso di specie), mediante calcolo in dodicesimi della somma definita in relazione all’anno.

Il riconoscimento del danno per compressione dello ius aedificandi assorbe (per il periodo considerato) la diversa voce di danno richiesta dagli appellati, relativa alla diminuzione di valore del terreno per sopravvenuta modificazione urbanistica comportante in edificabilità.

Non può essere, invece, riconosciuta la voce di danno afferente al valore dell’immobile non costruito, perché ciò richiederebbe una verifica della assentibilità del progetto, in relazione alla sua conformità alle norme edilizie ed urbanistiche, che – come è rilevabile da tutto l’andamento della controversia – è estranea al presente giudizio e, più precisamente, alle ragioni della riconosciuta illegittimità del provvedimento di diniego annullato.

Infine, il Collegio ritiene opportuno precisare che il diritto al risarcimento del danno ora riconosciuto, nei sensi e limiti sopra precisati, prescinde da quanto eventualmente spettante agli appellanti, in dipendenza della intervenuta occupazione ed espropriazione del suolo degli appellanti, ove intervenuta, ovvero in ragione di eventuale occupazione illegittima.

Per un verso, tali vicende sono estranee al presente giudizio (il Collegio apprende della intervenuta realizzazione dell’opera pubblica solo per effetto della memoria conclusionale dell’amministrazione, pagg. 45), per altro verso alcuna domanda di risarcimento del danno è stata proposta con il secondo ed il terzo ricorso per motivi aggiunti (ancorchè rigettati).

In conclusione, occorre ordinare all’Amministrazione appellata, ai sensi dell’art. 34, comma 4, Cpa, di formulare un’offerta risarcitoria sulla base dei criteri sopra individuati, nel termine di sessanta giorni dalla notificazione o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza.

Qualora tra le parti non si raggiunga l’accordo sulla somma da corrispondere, alla determinazione di questa provvederà questa Sezione in sede di ottemperanza, su richiesta di parte.

Stante la natura delle questioni trattate ed i limiti entro i quali è stato accolto l’appello, il Collegio ritiene giusto compensare tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull’appello proposto da C. L. ed altri, come in epigrafe indicati (n. 6289/2004 r.g.), lo accoglie, nei sensi di cui in motivazione, e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata:

a) accoglie il ricorso introduttivo del giudizio di I grado ed il primo ricorso per motivi aggiunti;

b) rigetta il secondo ed il terzo ricorso per motivi aggiunti;

c) accoglie la domanda di risarcimento del danno, nei termini e con le modalità indicati in motivazione, con conseguente condanna del Comune di Casole Bruzio al pagamento di quanto ivi indicato;

d) compensa tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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