Cass. pen., sez. V 26-09-2007 (19-09-2007), n. 35548 Criteri di individuazione – Comportamento comunicativo – Sindacato di legittimità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Torino ha confermato la dichiarazione di colpevolezza del frate domenicano G. G. in ordine al delitto di ingiuria, contestatogli per avere invitato a "non rompere le palle" i carabinieri impegnati in un controllo notturno presso la comunità di recupero per tossicodipendenti da lui diretta. Ricorre per cassazione G. G. e deduce violazione di legge e vizio di motivazione della decisione impugnata, sostenendo che, per i suoi rapporti di confidenza con i carabinieri, la frase controversa, entrata ormai nel pur volgare linguaggio quotidiano, non aveva effettivo contenuto offensivo.
Il ricorso è inammissibile.
Nella giurisprudenza di questa corte è indiscusso che "al fine di accertare se l’espressione utilizzata sia idonea a ledere il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 594 c.p. occorre fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alle personalità dell’offeso e dell’offensore nonchè al contesto nel quale detta espressione sia stata pronunciata ed alla coscienza sociale" (Cass., sez. 5^, 3 giugno 2005, Braconi, m.
232339, Cass., sez. 7, 16 ottobre 2001, Bastianelli, m. 220643).
Infatti il significato delle parole dipende dall’uso che se ne fa e dal contesto comunicativo in cui si inseriscono. Tuttavia il contesto sociale della comunicazione può valere a definire non solo il significato in sè delle parole, incluso l’eventuale loro generica portata offensiva, ma anche il significato dell’azione che con quelle parole risulti in concreto effettivamente compiuta.
Occorre in realtà distinguere se viene in discussione solo il significato di una comunicazione testuale, come può accadere ad esempio in materia di diffamazione a mezzo stampa, ovvero il significato di un comportamento comunicativo nel suo complesso, come avviene appunto in tema di ingiuria. Più precisamente occorre stabilire se rileva solo ciò che si è voluto dire ovvero anche ciò che si è voluto fare con le parole controverse.
Nel primo caso si tratta così di accertare se un determinato enunciato sia effettivamente offensivo della reputazione altrui. E quindi si pone solo una questione di qualificazione giuridica, che può essere risolta direttamente anche dal giudice di legittimità.
Nel secondo caso si tratta di stabilire quale fu l’effettivo comportamento in discussione. E quindi si pone innanzitutto una questione di fatto, estranea al sindacato di legittimità.
Infatti l’eventuale riferimento al costume sociale non può certo valere ad attribuire impropriamente ai giudici il compito di stabilire quale sia il limite di volgarità tollerabile. Può essere necessario solo per accertare quali comportamenti siano effettivamente addebitabili alle parti, perchè occorre appunto accertare i fatti prima di definirne la rilevanza giuridica.
Per questa ragione, quando il giudizio penale richiede l’interpretazione di comportamenti comunicativi, le regole del linguaggio e della comunicazione costituiscono il criterio di inferenza (premessa maggiore) che, muovendo dal gesto comunicativo (premessa minore), consente di pervenire alla conclusione interpretativa. Sicchè le valutazioni del giudice del merito sono censurabili solo quando si fondino su criteri interpretativi inaccettabili (difetto della giustificazione esterna) ovvero applichino scorrettamente tali criteri (difetto della giustificazione interna). La stessa individuazione del contesto comunicativo che contribuisce a definire il significato di un’affermazione, invero, comporta una selezione dei fatti e delle situazioni rilevanti, che è propria del giudizio di merito. E, quando l’interpretazione del significato di un comportamento comunicativo è sorretta da un’adeguata motivazione, essa è incensurabile nel giudizio di legittimità (Cass., sez. 5^, 11 febbraio 1997, La Rocca, m. 207862, Cass., sez. 5^, 4 aprile 1995, Scalfari, m. 201762).
Nel caso in esame i giudici del merito hanno plausibilmente ritenuto che padre G. intendesse contrastare l’operazione dei carabinieri, qualificandola come inutilmente vessatoria e quindi attribuendo sostanzialmente ai militari la responsabilità di un abuso. Sicchè il giudizio di colpevolezza risulta ragionevolmente giustificato e incensurabile in questa sede.
Non è infatti il significato in sè della frase "avete rotto le palle" a venire in discussione, perchè, come dimostra la casistica giurisprudenziale, quella frase può essere utilizzata in funzione delle azioni più disparate. Nè viene in discussione l’accettabilità sociale di un tale linguaggio, perchè l’art. 594 c.p. non punisce la volgarità in sè. Ciò che rileva è il significato dell’azione compiuta dal frate con quelle parole; e questo significato spetta ai giudici del merito accertarlo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 500,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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