Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 03-05-2011) 25-07-2011, n. 29677

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Napoli, con sentenza in data 7 maggio 2010, confermava la condanna pronunciata il 15 gennaio 2008 dal Tribunale di Nola nei confronti di R.G. e C.C., dichiarati colpevoli del delitto di cui all’art. 640 c.p., perchè – come recita il capo di imputazione – in qualità di avvocati ed in concorso tra loro, agendo materialmente il R., usando artifizi e raggiri, nella specie ingenerando nella persona offesa Ci.

M.R. in più occasioni il timore che la causa civile, promossa dalla medesima anche a nome dei figli minori ed intesa al risarcimento del danno conseguente alla morte del marito, conclusasi favorevolmente in primo grado, venisse riformata in senso sfavorevole qualora fosse stata riconosciuta nella causa la circostanza che la vittima al momento del sinistro guidava con patente scaduta di validità, ed inducendo, intenzionalmente, l’inesperta Ci. in stato di soggezione psicologica e, inoltre, inducendo la stessa in errore col dire falsamente che l’onorario concordato con il cognato G.A. era pari al 10% della somma liquidata in sentenza per ciascun difensore e, quindi, complessivamente pari al 20%, compresa la quota dovuta al C., falsamente inserito tra i legali incaricati della difesa nella causa civile, infine, inducendo la medesima Ci. con falsi pretesti ad aprire un conto deposito cointestato con esso R., che consentiva ai due avvocati di assicurarsi, fuori dal controllo della Ci., il pagamento dell’intera somma pretesa ingiustificatamente ed illegalmente a titolo di onorario, con priorità rispetto alla somma di L. 830.000.000 alla fine corrisposta alla Ci. da parte della società assicuratrice condannata, si procurava l’ingiusto profitto di L. 157.000.000 il R. e di L. 135.000.000 il C., con pari danno patrimoniale della parte offesa Ci. e dei suoi figli, dalla medesima rappresentati. Oltre alla pena di anni uno mesi otto di reclusione ed euro mille di multa ciascuno, R. e C. venivano condannati al risarcimento dei danni in favore della parte civile, con provvisionale di Euro 50.000.

Propongono ricorso per cassazione gli imputati personalmente con un unico atto, deducendo mancanza e manifesta illogicità della motivazione, nonchè inosservanza della legge penale.

I ricorrenti affermano che la sentenza impugnata non risponderebbe alle doglianze di cui all’atto di gravame e che la prova della colpevolezza sarebbe insufficiente e contraddittoria; evidenziano il contrasto tra quanto affermato nel capo di imputazione che definisce abusiva l’opera professionale dell’avv. C. e quanto, invece, si da conto in motivazione di un onorario spettante anche allo stesso avvocato.

I ricorrenti, inoltre, sostengono l’assoluta verosimiglianza di quanto da loro affermato, vale a dire che successivamente alla prima dazione di denaro di L. 300 milioni avvenuta brevi manu a favore della Ci., si concordò il pagamento degli onorari con il prelievo da un conto cointestato sul quale confluirono le rimanenti somme del complessivo risarcimento.

I ricorrenti sottolineano, ancora, che essi hanno sempre disconosciuto la quantificazione degli onorari nella misura del 10%, come, invece, affermato da un teste inattendibile per avere fattivamente coadiuvato alla tesi accusatoria. Su tale punto la Corte di Appello non si sarebbe pronunciata.

I ricorrenti contestano anche la illegittimità del profitto, poichè l’opera da essi profusa in qualità di avvocati della Ci. sarebbe stata di dimensioni tali da giustificare la quantificazione degli onorari in funzione del valore della causa. Infine, i ricorrenti ritengono illegittima la mancata applicazione dell’indulto ed errato il calcolo della prescrizione i cui termini sarebbero decorsi già prima della celebrazione dell’udienza di secondo grado.

Motivi della decisione

I motivi di ricorso sono manifestamente infondati ovvero non consentiti nel giudizio di legittimità e devono essere dichiarati inammissibili. I motivi di ricorso sono manifestamente infondati per la parte in cui contestano l’esistenza di un apparato giustificativo della decisione, che invece esiste; non consentiti per la parte in cui pretendono di valutare, o rivalutare, gli elementi probatori al fine di trarre proprie conclusioni in contrasto con quelle del giudice del merito chiedendo alla Corte di legittimità un giudizio di fatto che non le compete.

Secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali. I motivi proposti tendono, appunto, ad ottenere una inammissibile ricostruzione dei fatti mediante criteri di valutazione diversi da quelli adottati dal giudice di merito, il quale, con motivazione ampia ed esente da vizi logici e giuridici, ha esplicitato le ragioni del suo convincimento.

La Corte di appello, dopo avere sottolineato che "le dichiarazioni testimoniali assunte, ancorchè provenienti da soggetti (persona offesa e cognato della stessa) diversamente interessati all’esito favorevole del giudizio, sono tanto precise e coerenti con il contesto accertato, da escludere ragionevolmente ogni possibilità di mendacio degli stessi", sottolinea che non vi era alcuna necessità di aprire un conto corrente a firma disgiunta con l’avv. R. e che il consenso della persona offesa era stato acquisito con l’inganno; che "se pure vi è stata consapevolezza, mai negata, della Ci. e del G. in ordine alla collaborazione dell’avv. C., cionondimeno l’arbitrario aumento della prestazioni professionali al 20% costituisce innegabile espediente per realizzare profitti indebiti ed ingiusti in danno della Ci.". Quanto all’ingiusto profitto la sentenza impugnata osserva che "al di là dell’incongruo compenso, già valutato dal primo giudice (gli imputati hanno complessivamente trattenuto L. 292.000.000 a fronte di 17.000.000 liquidati dal giudice), resta il fatto che le modalità attraverso le quali i predetti hanno prelevato le somme senza possibilità per la cliente di contestare e soprattutto in contrasto con quanto, sia pure illegittimamente, richiesto e pattuito prima, connotano l’illecita finalità della truffa realizzata dai prevenuti". Per quanto concerne l’indulto, non risulta che vi sia stata richiesta e ben potrà essere valutata l’applicabilità in sede esecutiva.

Il calcolo della prescrizione effettuato dalla sentenza impugnata è del tutto corretto sia perchè all’udienza del 20 dicembre 2005 fu disposto un rinvio per legittimo impedimento del difensore con espressa disposizione di sospensione dei termini di prescrizione sia perchè, comunque, la prescrizione non è maturata prima della pronuncia del giudice di appello e, per quanto riguardo il presente ricorso, l’inammissibilità, quale che ne sia la causa, determina l’inidoneità ad introdurre il rapporto processuale di impugnazione, con la conseguenza della inapplicabilità della prescrizione. Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso, ciascuno al versamento della somma, che si ritiene equa, di Euro 1000,00 a favore della cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 1000,00 alla cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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