Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 04-03-2011) 25-07-2011, n. 29706

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – B.V. è stato raggiunto da ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa il 25 maggio 2010 dal GIP del Tribunale di Reggio Calabria, siccome gravemente indiziato del delitto di partecipazione ad associazione per delinquere di tipo mafioso pluriaggravata (capo TT della rubrica provvisoria), contestatogli per avere l’indagato fornito "un costante contributo per la vita dell’associazione, recandosi ai colloqui con il suocero G. G. e a quelli con G.D. cl. (OMISSIS), aggiornando entrambi sugli avvenimenti più recenti, ricevendo da entrambi direttive, da eseguire direttamente e/o da comunicare ad altri affiliati fuori dal carcere; inoltre, contribuendo al mantenimento della latitanza di G.R., fungendo da staffetta quando quest’ultimo si spostava dai luoghi in cui era nascosto; più in generale mettendosi a completa disposizione degli interessi della cosca, cooperando con gli altri associati nella realizzazione del programma criminoso del gruppo". 2. – Il provvedimento restrittivo è stato confermato dal Tribunale di Reggio Calabria investito dell’istanza di riesame, che ha ritenuto sussistessero gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato, con riferimento all’imputazione mossagli.

2.1. – Più specificamente i giudici del riesame – dopo un preliminare rinvio alle motivazioni dell’ordinanza cautelare ed alla richiesta del PM, valutate come complete ed esaurenti, quanto alla ricostruzione in punto di fatto del compendio indiziario – e dopo aver premesso che il presente procedimento costituiva una "sostanziale prosecuzione" dell’attività investigativa (la cosiddetta operazione (OMISSIS)) che nel luglio 2007 oltre a disvelare, anche in base alle rilevazioni di D.D.A., intraneo alla cosca Cirillo ed alle intercettazioni di alcune conversazioni telefoniche dell’Ingegner D.G., capo Area della impresa esecutrice dei lavori di rifacimento dell’autostrada (OMISSIS), il coinvolgimento delle più importanti ‘ndrine di Rosarno nell’"affare autostrada", aveva pure consentito, nei suoi successivi sviluppi, di "ricostruire importanti capitoli della storia criminale delle cosche calabresi" – hanno valorizzato, ai fini della gravità indiziaria: (a) le intercettazioni ambientali operate all’interno delle sale colloqui di alcune strutture penitenziarie ((OMISSIS)) ove erano stati ristretti G.G., G.D., O.F., S.S.R., G.R. e B.G.; (b) le intercettazioni ambientali captate su di un’autovettura in uso a C.P., persona ritenuta intranea, anche per vincoli parentali, al clan Gallico e uomo di fiducia di G.T..

2.2. – In particolare, per quanto ancora specificamente rileva nel presente giudizio di legittimità, i giudici del riesame, dopo aver rimarcato che il linguaggio utilizzato nei colloqui oggetto di captazione, risultava del tutto chiaro ed esplicito, in quanto le persone intercettate, eccezion fatta per il solo G.D., sempre cauto e sospettoso, avevano maturato "la ragionevole convinzione di non essere sostanzialmente obiettivi di interesse investigativo" e che l’operazione d’interpretazione delle conversazioni doveva avvenire "alla luce degli standard indiziari enucleati nell’art. 273 cod. proc. pen." e non già applicando quelli probatori di cui all’art. 192 cod. proc. pen., non potendo "equipararsi le dichiarazioni eventualmente accusatorie di terze persone ad una chiamata in correità", hanno ritenuto certa la partecipazione del B. all’associazione, valorizzando le seguenti circostanze emerse dal materiale indiziario precedentemente indicato, nonchè, da ultimo, dagli esiti della perquisizione effettuata in data 8 giugno 2010, presso l’abitazione dell’indagato:

1) l’avere l’indagato svolto il ruolo di informatore ed emissario dei boss G.G. e G.D., da anni detenuti;

2) l’avere l’indagato agevolato la latitanza di G.R., reggente dell’omonima consorteria.

2.3. – Con specifico riferimento agli indicati elementi indizianti (contenuto dei colloqui intercorsi tra il B. ed i familiari di G.G.), i giudici del riesame, nel precisare che gli stessi dovevano ritenersi univoci ed idonei "a dimostrare compiutamente" l’appartenenza del B. al gruppo mafioso dei Gallico, dagli stessi emergendo "la reale natura dei rapporti, il grado di fiducia riposto dai componenti del gruppo in lui ed il pieno, consapevole inserimento di quest’ultimo nella vita dell’organizzazione", consideravano, di contro, come non decisive le deduzioni della difesa, basate anche sulle risultanze di investigazioni difensive, volte ad accreditare l’immagine di un B. estraneo all’attività criminale del clan Gallico, ed in particolare alle estorsioni in danno di imprenditori locali, di un partecipe "silente" ai colloqui avuti dalla moglie con il suocero, pronto a rinunciare ad illeciti favori derivategli dai vincoli familiari, evidenziando, a confutazione di tali prospettazioni difensive, come sin dall’epoca del suo fidanzamento con G. L. l’indagato risultava essersi progressivamente inserito nell’attività, anche illecita, della famiglia in cui aveva fatto ingresso, dando prova di lealtà e di assoluta disponibilità, specie avuto riguardo alla tutela della latitanza di G.R., attuale reggente della cosca, circostanza questa emersa, oltre che dall’inequivoco tenore dei colloqui intercettati, anche dal ritrovamento nell’abitazione dell’indagato, di vani occultati e di intercapedini, atte a consentire una rapida e sicura via di fuga alle persone ivi ospitate.

2.4. – Quanto poi alle esigenze cautelari, i giudici del riesame, evidenziata, preliminarmente, l’operatività, nel caso in esame, ex art. 275 c.p.p., comma 3, di una presunzione di pericolosità sociale, hanno precisato che, attesa la natura permanente del reato contestato e stante l’assenza di elementi dimostrativi di un’intervenuta rescissione dei legami dell’indagato con l’organizzazione, tali da consentire di ritenere superata la presunzione di pericolosità, non era determinate la circostanza che i gravi indizi risalissero nel tempo, in quanto "la data di quest’ultimi non equivale a quella di cessazione della consumazione del reato associativo". 3. – Avverso tale pronuncia del tribunale hanno proposto autonomi ricorsi per cassazione, di contenuto pressochè identico, B. V., personalmente, ed il suo difensore, avvocato Giuseppa Orlando, prospettando due motivi d’impugnazione a sostegno della richiesta di annullamento dell’ordinanza impugnata.

3.1. – Con il primo articolato motivo, si deduce, in entrambi i ricorsi, l’illegittimità dell’ordinanza impugnata, per violazione di Legge ( art. 273 c.p.p.) e vizio di motivazione, con riferimento all’affermazione di sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato.

In particolare, dopo un’articolata premessa volta a sostenere, attraverso plurimi riferimenti alla giurisprudenza di questa Corte e della CEDU, come gli indizi a carico dell’indagato destinatario di una misura cautelare debbano essere gravi, precisi e concordanti, e come, anche a ragione delle modifiche legislative "sul giusto processo",qualora i gravi indizi siano integrati dalle dichiarazioni accusatorie di un coimputato o di un imputato in un procedimento connesso o collegato, le stesse devono necessariamente essere riscontrate da "altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità", nei ricorsi si confuta diffusamente l’effettiva rilevanza indiziaria, delle circostanze valorizzate dai giudici del riesame.

3.1.1. – Sintetizzando argomentazioni ben più diffuse, nei ricorsi si evidenzia, quali profili di manifesta illogicità della motivazione dell’ordinanza impugnata: 1) con riferimento all’asserito ruolo di informatore ed emissario di G.G. e G. D. la eccessiva ed enfatica rilevanza attribuita alla frase pronunciata dall’indagato "io mi ammazzo per la famiglia vostra" ed alla sua presenza ai colloqui avuti dalla moglie con il padre, richiedendo il ruolo d’informatore attribuito all’indagato ben altro "substrato indiziario", rivelandosi in particolare non aderente all’effettivo contenuto dei colloqui intercettati l’affermazione del tribunale secondo cui l’indagato avrebbe fornito un dettagliato elenco delle proprietà di un imprenditore assoggetto a pretese estorsive dei G., essendosi in realtà il ricorrente limitato a rispondere ad un quesito rivoltogli dal suocero e concernente oltretutto una circostanza di dominio pubblico; così come nessuna effettiva rilevanza indiziaria poteva fondatamente attribuirsi: vuoi alla circostanza dell’accompagnamento da parte dell’indagato di G.T. a (OMISSIS), evento da ricollegarsi ad un’estemporanea richiesta della donna; vuoi all’asserita compartecipazione ad alcuni fatti estorsivi (in danno di M. P., relativamente all’acquisto di un camion; in danno dell’imprenditore Ma. proprietario dell’albergo in (OMISSIS) in cui si svolse il ricevimento per le nozze dell’indagato, trattandosi di episodi tutt’altro che verificati, tenuto anche conto delle risultanze delle indagini difensive; vuoi dell’asserito ruolo di emissario di G.D., con il quale, invece, il ricorrente non ha avuto mai alcun colloquio;

2) con riferimento al ruolo di protezione della latitanza di G. R. che intanto tale circostanza costituiva soltanto un’ipotesi investigativa non adeguatamente confortata da effettivi e precisi elementi indizianti, atteso il carattere ambiguo della frase "gli fa strada" pronunciata da G.T. con riferimento ad " E.";

la non decisività della frase ("di solito chiamano (OMISSIS)") pronunciata dall’indagato a conferma di quanto riferito al padre dalla figlia, in merito agli spostamenti di G.R.; così come l’accertata esistenza nell’abitazione dell’indagato di un ripostiglio, circostanza in alcun modo riconducibile, secondo i ricorrenti, a finalità di protezione del latitante, trattandosi di un vano tecnico dovuto all’esistenza di un tetto di copertura "spiovente" di un edificio, nella disponibilità dell’indagato molto tempo prima di aver fatto conoscenza con la futura moglie ed i suoi familiari.

3.1.2. – Tali considerazioni, si sostiene in ricorso, ove adeguatamente valutate, avrebbero dovuto condurre i giudici del riesame ad escludere la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico del B. in relazione al reato associativo contestato, per la cui configurabilità è necessario dimostrare l’esistenza non solo di una consapevole "adesione soggettiva" ma anche di un effettivo contributo all’associazione, che ad avviso del ricorrente non potrebbe configurarsi come minimo in quanto esso deve costituire invece "per la sua dimensione qualitativa o per la sua reiterazione quantitativa", indice inequivoco relativamente "al volontario perseguimento degli scopi dell’associazione, nella consapevolezza di innestare sinergicamente la propria condotta su quella degli altri associati". 3.2. – Con il secondo motivo, da parte del ricorrenti si deduce il carattere meramente apparente e manifestamente illogico della motivazione relativa alle esigenze cautelari.

In proposito si osserva, che il percorso motivazionale svolto dai giudici reggini sul punto, si risolve in un mero richiamo alla presunzione di adeguatezza di cui all’art. 275 cod. proc. pen., non rispettoso del principi enunciati in argomento dalla più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenza n. 265 del 21 luglio 2010) e della Corte di Strasburgo (sentenza Pantano, del 6 novembre 2003), specie allorquando, senza tener conto dell’incensuratezza dell’indagato, del documentato svolgimento di una regolare attività lavorativa, della dedotta circostanza che tutti i presunti capi dell’associazione risultano detenuti, e del dato fattuale che i presunti contatti dell’indagato si sono verificati in un periodo molto limitato e risalente nel tempo, ha ritenuto la sussistenza di effettive esigenze cautelari, senza fornire adeguata e specifica confutazione delle argomentazioni difensive, ma limitandosi ad utilizzare mere formule di stile.

Motivi della decisione

1. – L’impugnazione proposta nell’interesse di B.V. deve essere dichiarata inammissibile.

Invero in questa fase del procedimento, ai fini dell’adozione di una misura cautelare, non è richiesto il requisito della precisione e della concordanza, ma solo quello della gravità degli indizi nel senso che questi devono essere tali da lasciar desumere, con elevato grado di probabilità, l’attribuzione del reato all’indagato.

Inoltre, al fine della adozione di una misura cautelare personale, è necessario che gli elementi indiziari sulla base dei quali viene richiesta l’applicazione della misura, siano ancorati a fatti certi, la cui valutazione, se sorretta da adeguata motivazione, non può essere censurata in sede di legittimità, trattandosi di giudizio riguardante la rilevanza e la congruità degli elementi indiziari, che rientra nella sfera esclusiva del giudice di merito.

Nel caso in esame il Tribunale si è adeguato al suddetto principio, ancorando il proprio giudizio ad elementi specifici risultanti dagli atti – e solo sommariamente illustrati nel paragrafo 1.1 dell’esposizione in fatto – tanto da trarre dalla foro valutazione globale un giudizio in termini di qualificata probabilità circa l’attribuzione dei reati contestati all’indagato. Orbene – a fronte del giudizio espresso dal Tribunale fondato su elementi specifici risultanti dagli atti (intercettazioni ambientali) – il ricorrente ha proposto una lettura diversa e "riduttiva" del contenuto di tali intercettazioni, basata su di una rivalutazione di circostanze di fatto (colloqui in ambito carcerario; esito di perquisizioni;

emergenze investigative) non proponibile in questa sede.

In presenza di un percorso motivazionale adeguato, aderente alle risultanze processuale e rispettoso di principi ormai consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il contenuto di una intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di terza persona, non è in alcun modo equiparabile alla chiamata in correità e pertanto, se va anch’esso attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non è però soggetto, nella predetta valutazione, ai canoni di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3 (in termini, Sez. 4, Sentenza n. 35860 del 28/09/2006, dep. il 26/10/2006, Rv. 235020, imp. Della Ventura) e che per la sussistenza del reato associativo non è necessaria l’effettiva commissione dei reati-fine, ma è sufficiente l’esistenza della struttura organizzativa e del carattere criminoso del programma, tutte le argomentazioni prospettate con il primo motivo di impugnazione, nelle loro poliformi articolazioni, non superano la soglia della ricostruzione alternativa e meramente congetturale.

1.2. – Infondate risultano, infine, anche le censure sollevate in ricorso con riferimento alla ritenuta sussistenza per i giudici del riesame di esigenze cautelari giustificatrici dell’adozione della misura cautelare in concreto applicata all’indagato. Per il reato associativo vige, infatti, la presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, e correttamente il Tribunale ha ritenuto, in considerazione anche della natura e particolare gravità dei fatti contestati, che in assenza di concreti elementi dimostrativi di un effettivo recesso dell’indagato dall’associazione, nulla consentiva, pur in presenza del dato dell’incensuratezza, di ritenerla superata.

La stessa norma esclude quindi che possa essere applicata una diversa misura cautelare.

2.- Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue la condanna per legge del ricorrente, al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla cassa delle ammende, in mancanza di elementi indicativi dell’assenza di colpa (Corte Cost, sent. n. 186 del 2000), di una somma, congruamente determinabile in Euro 1000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della soma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Dispone trasmettersi, a cura della Cancelleria, copia del presente provvedimento al direttore dell’Istituto penitenziario ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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