Cassazione civile 20269 del 2010, dep 27 settembre 2010 Minimi tariffari, inderogabilita’, pattuizione, nullita’, avvocati, tariffe forensi (2011-02-24)

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

omissis …

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato in data 16 settembre 1994, l’avv.to M.L.O., in proprio e quale titolare dell’Associazione Professionale "Studio legale Associato degli Avv. Tizio Caio & Sempronio", esponeva al Giudice del lavoro di Napoli di avere stipulato una convenzione con la Spa Alfa e, poi, anche con la soc. Beta per l’espletamento di attività stragiudiziale e giudiziale concernente il recupero dei crediti contenziosi vantati dalle società nei confronti di propri clienti inadempienti.

Aggiungeva che, in seguito all’interruzione del rapporto, unitamente all’Associazione professionale, faceva presente di avere ricevuto, in base alla convenzione, compensi inferiori ai minimi tariffati, inderogabili. Soggiungeva che, mentre erano in corso trattative per una bonaria definizione della vertenza insorta, le due società notificavano un atto di citazione a comparire innanzi al Tribunale di Milano per sentire accertare che nulla era dovuto all’Avv. M.L. ed allo Studio Associato Tizio Caio; – che esso convenuto si costituiva ritualmente e, nella comparsa depositata, eccepiva l’incompetenza per materia e per territorio del giudice adito, chiedeva il rigetto delle domande e spiegava, infine, domanda riconvenzionale per ottenere il pagamento delle competenze dovute; che, con sentenza n. 32/94 del 16.12.93, pubblicata il 10.1.94, il Tribunale di Milano dichiarava la propria incompetenza per essere competente il Pretore di Napoli in funzione di giudice del lavoro; che successivamente, con racc.te del 21.7.93, comunicava alle due società che, in seguito a più attento esame delle parcelle emesse per quelle pratiche ove era stata svolta attività processuale avente ad oggetto la proposizione di pignoramenti presso terzi, gli erano dovuti ulteriori compensi, rispetto a quanto già richiesto, per la somma di L. 27.366.600 da parte della Spa Beta e di L. 15.920.100 da parte della Spa Alfa. Tanto esposto, l’avv.to M.L.O., in proprio e nella qualità, chiedeva emettersi i seguenti provvedimenti:

dichiarare la nullità L. 13 giugno 1942, n. 794, ex art. 24, modificata dalla L. 19 dicembre 1949, n. 957, recepito dall’art. 4, delle vigenti tariffe forensi, delle convenzioni intercorse tra le parti per la determinazione dei compensi forfettari relativi agli incarichi professionali espletati;

determinare in L. 263.284.450 (meno L. 5.001.000 per la pratica P.) gli importi dovuti dalla Spa Alfa ed in L. 228.974.908 quelli dovuti dalla Spa Beta e relativi ai compensi professionali per l’attività svolta in relazione alle causali dedotte in ricorso;

condannare conseguentemente la Spa Alfa e la Spa Beta al pagamento in favore dei ricorrenti della somme segnatamente determinate in L. 263.284.450 e in L. 28.974.908 ovvero di quelle che sarebbero risultate dovute;

4) condannare le convenute società al pagamento della rivalutazione monetaria e degli interessi dalla data di espletamento dei singoli incarichi;

5) in subordine, condannare le convenute al risarcimento dei danni pari all’ammontare degli interessi passivi corrisposti alle banche di cui al capo 47 che precede in L. 33.287.506;

6) rigettare le domande avanzate da Alfa e Beta innanzi all’A.G.O. Tribunale di Milano con il loro atto introduttivo del 10/3/92.

Le società convenute resistevano alle avverse domande, in rito e nel merito, insistendo nell’accoglimento delle domande in precedenza proposte. Con sentenza del 25.5.99, il Giudice adito accoglieva parzialmente la domanda e condannava la Beta s.p.a. al pagamento, nei confronti dei ricorrenti, della somma di L. 40.206.723 (L. 23.611.186 + 5.913.085 + 10.682.452), oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali con decorrenza, quanto agli importi di L. 23.611.186 e L. 10.682.452, dal 3 dicembre 1991 sino al soddisfo, nonchè, quanto all’importo L. 5.913.085, con decorrenza dall’8 maggio 1992 sino al soddisfo; condannava Società Alfa spa, in persona del legale rappresentante p.t., al pagamento, nei confronti dei ricorrenti, della somma di L. 9.016.514, oltre rivalutazione monetaria interessi legali dall’8 maggio 1992 sino al soddisfo; dichiarava inammissibile la domanda riconvenzionale.

Con ricorso depositato il 20.7.00, l’avv.to M.L.O., sempre in proprio e nella sopra indicata qualità, proponeva appello avverso detta decisione, censurandola sotto vari profili, cui resistevano entrambe le società, proponendo appello incidentale, relativamente a somme pretese dalla controparte Rinnovata l’indagine peritale, con sentenza del 13 giugno – 15 settembre 2006, l’adita Corte di appello di Napoli, in parziale accoglimento dell’appello principale, condannava la società Alfa al pagamento, in favore degli appellanti, della somma di Euro 60.160, 5575 (pari a L. 116.487,.082) e la spa Beta al pagamento, in favore degli stessi, della somma di Euro 33.226,5402 (pari a L. 64.335.553) oltre svalutazione monetaria secondo indici ISTAT ed interessi legali sulle somme via via rivalutate dalla maturazione dei crediti al saldo; rigettava l’appello incidentale.

A sostegno della decisione, osservava che l’accordo – convenzione, intervenuto tra le parti in causa alla fine del 1988, doveva ritenersi nullo perchè in violazione del divieto sancito dalla L. n. 794 del 1942, art. 24, essendo l’ammontare del compensi consensualmente predeterminato, inferiore ai minimi tariffari; che non era applicabile la riduzione al di sotto dei minimi – consentita dall’art. 4 della stessa legge "quando la causa risulti di facile trattazione", solo nei confronti della parte soccombente e non anche nei confronti del cliente -, mancando il parere del Consiglio dell’Ordine in tal senso; che inammissibile era la richiesta di ulteriori somme scaturenti dalla rielaborazione delle parcelle, già ritenuta inammissibile dal primo Giudice in quanto domanda nuova; che inammissibile era la domanda riconvenzionale azionata in primo grado dalle società appellate per mancata indicazione degli elementi di fatto e di diritto, come ritenuto in primo grado; che la rinuncia al principio di inderogabilità delle tariffe – dedotta dalle società – non aveva fondamento mancando la necessaria consapevolezza del rinunciante; che da respingersi erano l’eccezione di prescrizione presuntiva e la richiesta degli interessi bancari.

Le società propongono ricorso per cassazione con otto motivi; ricorso che poi viene riprodotto con l’aggiunta dei quesiti.

Resiste al primo ricorso l’avv. O.L. in proprio ed anche come titolare dell’Associazione Professionale "Studio legale Associato degli avv. ti Tizio Caio & Sempronio" con controricorso.

Le società hanno anche depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Sono state depositate note di udienza.

Motivi della decisione

Va preliminarmente disposta la riunione dei due ricorsi proposti dalle Società Alfa e Beta, trattandosi di impugnazioni avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).

Va poi, ancora, preliminarmente rilevato che deve essere dichiarato inammissibile il primo ricorso in quanto privo dei quesiti, così come richiesti dall’art. 366 bis c.p.c., mentre – contrariamente a quanto eccepito dal controricorrente – va ritenuta l’ammissibilità del secondo ricorso, in quanto munito del suddetto requisito. A norma dell’art. 366 c.p.c., infatti, il ricorso per cassazione deve essere proposto, a pena d’inammissibilità, con unico atto avente i requisiti di forma e di contenuto indicati in detta disposizione, con la conseguenza che è inammissibile un nuovo atto successivamente notificato a modifica o ad integrazione del primo, sia se concerna l’indicazione dei motivi, ostandovi il principio della consumazione dell’impugnazione, sia se tendente a colmare la mancanza di taluno degli elementi prescritti, essendo possibile, invece, la proposizione di un nuovo ricorso, ove -come nella specie – non siano decorsi i termini dell’impugnazione, ed esso sia predisposto in sostituzione – non ad integrazione, nè a correzione – di un ricorso viziato ma non ancora dichiarato inammissibile (ex plurimis, Cass. n. 2704/2005; Cass. n. 13817/2002; Cass. n. 10701/1993).

Tanto chiarito, va subito osservato che, con il primo motivo, le società ricorrenti affrontano il tema centrale della controversia, denunciando violazione e/o falsa applicazione dell’art. 15 preleggi, della L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 24, della L. n. 1051 del 1957, art. unico, e dell’art. 2233 c.c., nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

In particolare, sostengono che erroneamente il Giudice di appello avrebbe ritenuto la sopravvivenza della L. n. 794 del 1942, art. 24, poichè l’abrogazione ad opera della disciplina dettata dalla L. n. 1051 del 1957, art. unico, ex art. 15 preleggi, avrebbe riguardato soltanto gli artt. da 1 a 23.

Viceversa, detto art. unico avrebbe delegificato il procedimento di approvazione delle tariffe, rendendo i regolamenti tariffali inidonei a derogare efficacemente all’art. 2233 c.c., fonte principale per la determinazione del compenso spettante ai liberi professionisti. Ma, anche a voler ritenere, sotto l’indicato profilo, ancora vigente l’art. 24 citato, il confronto dell’assetto normativo nazionale con il quadro Europeo avrebbe dovuto condurre alla conclusione di incompatibilità del divieto con il Trattato, dato che la liceità di una tariffa non comporterebbe di per sè la liceità della ben diversa disposizione che fissi la inderogabilità della sua misura minima.

Il motivo è infondato.

Va anzitutto chiarito che, con riferimento alla professione di avvocato, questa Corte, con orientamento pressochè costante, ha ritenuto, ora esplicitamente, ora per implicito, che la L. n. 794 del 1942, se pur deve ritenersi abrogata nei suoi artt. da 1 a 23, ai sensi dell’art. 15 disp. gen., – essendo stata la materia interamente regolamentata per effetto della L. 3 agosto 1957, n. 1051, che ha attribuito al Consiglio nazionale forense la competenza di stabilire, con le modalità ivi previste, i criteri per la determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità spettanti per le prestazioni giudiziali in materia civile-ha lasciato in vita l’art. 24 (V. Cass. n. 12840/2003; Cass. n. 7094/2006; Cass. 28718/2008).

Tale articolo, dopo la significativa dicitura, "Inderogabilità convenzionali degli onorari e dei diritti", statuisce che "Gli onorari e i diritti stabiliti per le prestazioni dei procuratori e gli onorari minimi stabiliti per le prestazioni degli avvocati sono inderogabili".

Sulla base di tale disposizione la giurisprudenza di legittimità ha sancito la nullità dell’accordo con il quale l’avvocato ed il cliente pattuiscono l’onorario spettante al professionista in deroga ai minimi della tariffa forense (v. Cass. n. 3432/2003). In tal modo si è inteso superare la gerarchia di carattere preferenziale, fissata dall’art. 2233 c.c., tra i vari criteri previsti per la determinazione del compenso dovuto per le attività intellettuali, laddove si stabilisce che "il compenso, che non è convenuto tra le parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice".

La vigenza nel nostro ordinamento di una normativa che vieti di derogare convenzionalmente agli onorari minimi determinati da una tariffa forense, trova, del resto, riscontro nelle pronunce della Corte di giustizia, che, in tema di tariffe professionali degli avvocati, ha affermato, con la sentenza 19 febbraio 2002, causa C-35/99, che "gli artt. 5 e 85 del trattato CEE (divenuti art. 10 Ce e 81 Ce) non ostano all’adozione, da parte di uno Stato membro, di una misura legislativa o regolamentare che approvi, sulla base di un progetto stabilito da un ordine professionale, una tariffa che fissa dei minimi e dei massimi per gli onorari dei membri dell’ordine, qualora tale misura statale sia dettata nell’ambito di un procedimento come quello previsto dal R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, come modificato.

La conformità al principio comunitario della libera concorrenza di quelle norme del diritto interno in virtù delle quali è imposta la inderogabilità dei minimi di tariffa forense, costituisce orientamento confermato dalla più recente sentenza della Corte di giustizia del 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, ove, tra l’altro, si sottolinea che una limitazione al principio di libera prestazione dei servizi professionali può essere consentita allorchè "ragioni imperative di interesse pubblico" la giustifichino; ragioni che con riferimento alla inderogabilità dei minimi della tariffa degli avvocati vengono individuate nell’esigenza di garantire la qualità della prestazione professionale a tutela degli utenti consumatori e la buona amministrazione della giustizia. Sussistendo questi obiettivi, l’obbligatorietà dei minimi può essere giustificata, dunque, allorchè sussista il rischio che, per le caratteristiche del mercato, la concorrenza al ribasso sull’offerta economica tra gli operatori possa prgiudicare la qualità della prestazione. A proposito dei servizi legali, la Corte individua come fattore di rischio il "numero estremamente elevato" di professionisti iscritti ed in attività e riconosce al giudice nazionale il compito di determinare se la restrizione della libera prestazione creata dal divieto di derogare convenzionalmente ai minimi tariffari per i servizi legali, previsto dalla legislazione italiana, risponde a ragioni imperative di interesse pubblico ed è strettamente idoneo a garantire da un lato che vi sia corrispondenza tra il livello degli onorari e la qualità delle prestazioni fornite dagli avvocati, dall’altro che la determinazione di tali onorari minimi costituisca un provvedimento adeguato alla tutela dei consumatori e della buona amministrazione della giustizia.

Pur non essendo una garanzia della qualità dei servizi, non si può di certo escludere – ed anzi deve affermarsi – che nel contesto italiano, caratterizzato da una elevata presenza di avvocati, le tariffe che fissano onorari minimi consentano di evitare una concorrenza che si traduce nell’offerta di prestazioni "al ribasso", tali da poter determinare un peggioramento della qualità del servizio. E’ appena il caso di osservare che il D.L. n. 223 del 2006, art. 2, comma 1, convertito in L. n. 248 del 2006, ha abrogato le disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano la fissazione di tariffe obbligatorie fisse o minime per le attività professionali e intellettuali "dalla data di entrata in vigore" della legge stessa; ne consegue che quelle disposizioni conservano piena efficacia in relazione a fatti – come quelli in oggetto – verificatisi prima. (Cass. n. 9878/2008). Con il secondo motivo le ricorrenti, denunciando vizio di motivazione e violazione dell’art. 1362 c.c. e ss., e art. 1418 c.c., lamentano che – anche a voler sostenere la esistenza di minimi inderogabili tariffari – il Giudice di appello abbia ritenuta la invalidità della rinuncia ai minimi tariffari, operata dalla parte controricorrente, a fronte di una continuità di incarichi da parte delle società.

Il motivo è privo di fondamento, avendo il Giudice a quo correttamente argomentato sul punto.

Giova rammentare che – secondo l’orientamento di questa Corte – il principio dell’inderogabilità dei minimi tariffari, stabilito dalla L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 24, sugli onorari di avvocato e procuratore, non trova applicazione nel caso di rinuncia, totale o parziale, alle competenze professionali, allorchè quest’ultima non risulti posta in essere strumentalmente per violare la norma imperativa sui minimi di tariffa. La prestazione d’opera del difensore può, infatti, pure essere gratuita – in tutto o in parte – per ragioni varie, oltre che di amicizia e parentela, anche di semplice convenienza. Sotto questo riflesso la retribuzione costituisce un diritto patrimoniale disponibile e la convenienza relativa può concretarsi, sul piano sostanziale, anche in un accordo transattivo, in quanto tale, pienamente lecito, rientrando esso nella libera autonomia dispositiva delle parti contraenti, alle quali è soltanto inibito di infrangere il divieto legale sancito dal citato art. 24, e cioè quello di predeterminare consensualmente l’ammontare dei compensi professionali in misura inferiore ai minimi tariffari (Cass. n. 7144/1998).

Orbene, la Corte partenopea, nel rigettare l’assunto delle società, dopo avere richiamato la contraria giurisprudenza, ha tenuto ad aggiungere che, in ogni caso, perchè potesse ritenersi intervenuta una rinuncia occorreva, pur sempre, che vi fosse piena consapevolezza da parte del rinunciante dello specifico oggetto della rinuncia medesima, "condizione questa che, nel caso di specie, non può certamente essere ravvisabile nelle lettere dell’avv.to M.L. con le quali lo stesso si limitava a dare atto della definizione della pratica in base al forfait illegittimamente concordato".

Trattasi, dunque, di una valutazione di merito, incensurabile in questa sede, che si innesta su di un corretto principio di diritto, collegato alla natura "parasubordinata" del dedotto rapporto di lavoro, oggetto di più specifica considerazione con l’esame del sesto motivo.

Con il terzo motivo le ricorrenti, denunciando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 47, 48, 50, 416 e 426 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), contestano quanto asserito dalla Corte di appello, e cioè che, in seguito a riassunzione ex art. 50 c.p.c., con il disposto mutamento di rito si sarebbe dovuto precisare quanto non già dedotto nell’atto di citazione. Osserva il Collegio che sulla questione correttamente il Giudice di appello ha osservato che, pur essendo esatto quanto sostenuto dalle società appellate, che ex art. 50 c.p.c., con la riassunzione si continua lo stesso giudizio riassunto, tuttavia stante il cambiamento di rito (da quello ordinario a quello del lavoro, come nel caso de quo) era necessario che le società regolarizzassero, in virtù del principio della immediatezza, oralità e concentrazione che caratterizza il processo del lavoro, nella memoria difensiva di costituzione – primo atto difensivo successivo al cambiamento del rito – e deducessero tutto quanto non già dedotto nell’atto di citazione di cui al giudizio presso il Tribunale di Milano. Lo stesso Giudice ha rimarcato che, in tale atto, infatti le appellate avevano parlato di gravi fatti addebitati al legale, senza tuttavia in concreto precisare in cosa sarebbero consistiti, ed avevano chiesto la restituzione di somme incassate e non dovute con il solo riferimento ad un elenco n. 2 ed ai documenti allegati. Pertanto, non risultando nulla di specifico sulle azionate richieste dalla citazione di cui al pregresso giudizio in Milano, le società avrebbero dovuto, in relazione al cambiamento del rito, regolarizzare ogni deduzione irritualmente e tardivamente proposta inserendola nella memoria di costituzione; adempimento, questo,non avvenuto "neppure venendo articolati mezzi istruttori che d’altronde mancavano anche nell’atto di citazione". Solo con la memoria del 15-5-96, successiva alla sentenza della Cassazione pronunciatasi sulla competenza- e quindi tardivamente erano stati articoli specifici capitoli di prova ma quando ormai si erano già verificate le preclusioni di cui all’art. 416 c.p.c.. Conseguentemente, – prosegue il Giudice a quo – "ogni richiesta istruttoria formulata tardivamente nel presente grado di giudizio non può trovare accoglimento alcuno e deve concordarsi perciò con la inammissibilità della relativa richiesta già dichiarata dal primo giudice". Non ravvisandosi nell’iter argomentativo della Corte di merito i lamentati vizi motivazionali e le dedotte violazioni di legge, la censura va disattesa. Va disatteso anche il quarto motivo, con cui si denuncia violazione e/o falsa applicazione della L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 4, e R.D. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 60, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), censurandosi la impugnata pronuncia, laddove ha escluso la riducibilità degli onorari quando la causa risulti di facile trattazione.

Sul punto, correttamente la Corte di merito ha osservato che, ai sensi del D.M. 5 ottobre 1994, art. 4, ai fini della diminuzione dei minimi di tariffa indicati nelle tabelle, nella ricorrenza della ipotesi specificamente prevista dalla norma – qualora fra la prestazione dell’avvocato e l’onorario previsto dalle tabelle appaia, per particolari circostanze del caso, una manifesta sproporzione – occorre che la parte interessata (e quindi anche il cliente, regolando tale norma proprio il rapporto ira cliente ed avvocato, con esclusione, perciò, di ogni paventato sospetto di illegittimità costituzionale della previsione normativa) esibisca il parere del competente Consiglio dell’Ordine.

Nel caso de quo – prosegue la Corte territoriale – non risultava provato che, in osservanza della citata disposizione, per ogni pratica, ritenuta riferibile alla previsione medesima, fosse stata fatta richiesta da parte delle società – clienti interessate – del parere al competente Consiglio dell’Ordine. A ciò era da aggiungere che il principio dell’inderogabilità delle relative tariffe minime non era suscettibile di soffrire eccezioni in considerazione della natura semplice o ripetitiva di alcuni affari, poichè la cosiddetta standardizzazione delle pratiche, così come il carattere "routinario" delle medesime, avrebbero potuto, se mai, incidere sulla determinazione dei compensi tra il minimo e massimo delle tariffe.

Così argomentando, il Giudice a quo si è adeguato all’orientamento di questa Corte, secondo cui, in materia di onorari e diritti di avvocato e procuratore, la disposizione della L. n. 794 del 1942, art. 24, – che sancisce il principio dell’inderogabilità delle relative tariffe minime, con testuale riferimento alle "prestazioni giudiziali" – va interpretata nel senso dell’estensione di detto principio anche alle "prestazioni stragiudiziali", alla stregua sia della "ratio legis" (collegata ad esigenze di tutela del decoro della professione forense che si prospettano con identico rilievo nei riguardi di entrambi i tipi di prestazione), sia del criterio di adeguamento al precetto costituzionale di uguaglianza, sia, infine, di ragioni sistematiche volte a tutelare il lavoro e il lavoratore anche nelle prestazioni d’opera intellettuale, con analoghe prescrizioni di inderogabilità. Nè la suddetta inderogabilità – cui, quando ne ricorrano i presupposti, si collega automaticamente il doveroso riconoscimento del rimborso forfettario delle spese generali di studio, introdotto dall’art. 15 della tariffa professionale approvata con D.M. 22 giugno 1982 – può soffrire eccezioni in considerazione della natura semplice o ripetitiva di alcuni affari, poichè la cosiddetta standardizzazione della pratiche, così come il carattere "routinario" delle medesime possono, se mai, incidere sulla determinazione dei compensi tra il minimo e il massimo delle tariffe, ma non anche giustificarne la totale disapplicazione (Cass. n. 1912/1999). Con il quinto motivo le ricorrenti, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2956 c.c. in rapporto all’art. 4, comma 2, e art. 5, comma 3, della tariffa forensa, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), lamentano una erronea valutazione della sollevata eccezione di prescrizione presuntiva sull’altrettanto erroneo presupposto che, essendo contestata la "debenza", si ammetteva implicitamente il mancato pagamento, dovendosi, invece, distinguere le ipotesi, in cui le contestazioni del debito contraddicono in punto di fatto l’avvenuto suo soddisfacimento, dalle contestazioni in punto di diritto, dove non si verifica alcuna contraddizione nè ammissione. Sul punto la Corte di Napoli ha correttamente osservato che le società appellate, a fronte della richiesta di differenze (in relazione ai minimi tariffari) azionata dall’Avv.to M.L., si sono difese affermando che tali ulteriori importi non competevano sia per l’intervenuto accordo di forfetizzazione sia, soprattutto, per la semplicità e ripetitività delle cause curate dall’appellante.

Tale comportamento processuale, a parere della Corte di merito, è apparso del tutto incompatibile con l’eccezione di prescrizione presuntiva sollevata, riproposta in sede di gravame, che, presupponendo l’intervenuto pagamento, non consente contestazione alcuna in ordine all’esistenza del credito azionato neppure in relazione a parte degli importi richiesti.

Così argomentando, il Giudice a quo si è adeguato al condivisibile orientamento di questa Corte (Cfr. sent Cass. n. 3105/01) secondo il quale, in tema di prescrizioni presuntive, l’ammissione di non aver estinto il debito da parte del debitore (che comporta il rigetto dell’eccezione di prescrizione presuntiva) può legittimamente risultare anche per implicito dalla contestazione, da parte del debitore stesso, dell’entità della somma richiesta (cfr in senso conforme Cass. 2004/5563; 2001/15132; 2001/10998; 2000/231 l;1999/2257; 1999/13921; 1995/01160).

Con il sesto motivo le ricorrenti denunciando violazione e lo falsa applicazione degli artt. 409 e 429 c.p.c., e del principio dispositivo per la concessione "automatica" della rivalutazione monetaria ex art. 429 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), lamentano che il Giudice di appello abbia applicato in modo assolutamente automatico la rivalutazione monetaria, nonostante, nel caso di specie, sia configurabile un rapporto che, ancorchè ricompreso tra quelli di cui all’art. 409 c.p.c., dalla sentenza 9.1.1996 n. 96 (in sede di regolamento di competenza) si differenzia qualitativamente da quelli "di lavoro dipendente" per non essere assoggettato alla speciale tutela di cui all’art. 36 Cost..

Tale tesi, che, almeno sotto certi aspetti, ha trovato riscontro favorevole in tempi meno recenti sia in dottrina che in giurisprudenza (v. Cass. 23 marzo 1983 n. 2036), ha finito con l’essere successivamente soppiantata da altra ricostruzione della normativa di riferimento, alla quale il Collegio intende aderire. Ed invero -ed a voler trattare più diffusamente la questione in considerazione della ampie argomentazioni svolte dalle ricorrenti sul punto-, va osservato che secondo quest’ultima ricostruzione, pur non negandosi che la rado della estensione del "nuovo rito" ai rapporti c.d. parasubordinati sia riposta in una esigenza di protezione, richiesta anche in questi casi dalla attività lavorativa, – benchè non nelle penetranti forme previste dall’art. 36 Cost., una volta accertata la presenza dei requisiti espressamente richiesti dalla ipotesi normativa (art. 409 c.p.c., n. 3: continuatività, coordinazione, prevalenza personale della prestazione), devono poi operare tutte le garanzie sia di ordine processuale che sostanziale, contemplate dalla legge per detti rapporti.

Deve, infatti, escludersi, già in linea teorica, una scissione degli aspetti garantistici, che il mero rito assicura al lavoratore, da quelli di natura più propriamente sostanziale, previsti dalla legge medesima, essendovi tra gli stessi una stretta e reciproca connessione, in forza di una valutazione operata, una volta per tutte, dal legislatore.

E’ noto che i criteri informatori della speciale disciplina processuale sono espressione di una chiara scelta del legislatore, il quale – come non ha mancato di rilevare la dottrina- ha abbandonato la posizione tradizionale, che vorrebbe limitare il suo intervento ad assicurare il rispetto delle regole del gioco individuale, ed ha preso decisamente posizione a favore della parte socialmente più debole, considerando la tutela che ne consegue un momento necessario dei suoi fini politici generali.

Il processo, tuttavia, come è stato in più occasioni affermato, non è un bene in se stesso, ma è uno strumento per l’attuazione del diritto, e quindi per il raggiungimento degli scopi che un dato ordinamento giuridico si propone; onde il potenziamento dei poteri processuali a favore di una parte costituisce il mezzo per l’attuazione dei diritti sostanziali che a quella parte l’ordinamento attribuisce. Una riprova sul terreno concreto della validità di tale assunto la si ricava dalle argomentazioni adottate dalla Corte Costituzionale proprio in relazione alla disposizione prevista dall’art. 429 c.p.c., comma 3, laddove ha dovuto esaminare l’asserita incostituzionalità in rapporto agli artt. 3 e 35 Cost., in quanto non applicabile ai crediti di lavoro autonomo.

La Corte, con ordinanza 10 maggio 1978, n. 65 (17), ha ritenuto la manifesta infondatezza della questione nel senso che "la norma denunciata è applicabile anche ai rapporti di lavoro autonomo, la cui prestazione si concreti in una attività continuativa e coordinata, prevalentemente personale, e la sua mancata applicazione nei residuali rapporti di lavoro, non è priva di razionale giustificazione poichè in questa ipotesi non sussiste la posizione di debolezza del lavoratore rispetto al datore di lavoro, che rappresenta la ratio del particolare strumento di tutela". Una ratio questa, che – come accennato – è posta alla base dell’intero complesso normativo introdotto dalla L. n. 533 del 1973, diretto a favorire il lavoratore in vario modo, garantendo, ad esempio, l’immediata e concreta percezione delle somme che gli sono dovute, attraverso la previsione sia dell’ordinanza di pagamento, sia della provvisoria esecuzione delle sentenza di primo grado in base finanche alla sola copia del dispositivo. La rilevata stretta compenetrazione tra i profili di rito e quelli di diritto sostanziale e l’altrettanto evidenziata esigenza di uniformità dalla disciplina garantistica per tutti i rapporti previsti dalla L. n. 533, lasciano, dunque, agevolmente comprendere come, nel momento stesso in cui si afferma la sottoposizione della fattispecie in esame a detta legge debba applicarsi altresì la disposizione contenuta nell’art. 429 c.p.c., comma 3.

Deve, dunque, ribadirsi che alla natura parasubordinata del rapporto consegue l’applicazione del disposto dell’art. 429 c.p.c., comma 3, circa la rivalutazione monetaria dei crediti di lavoro, tenuto conto che tale norma – come sottolineato nelle decisioni della Corte costituzionale n. 65 del 1978 e 76 del 1981 – riguarda tutti i rapporti elencati nel precedente art. 409 c.p.c., e quindi anche quelli dei lavoratori autonomi quando siano caratterizzati dalla continuità e dalla coordinazione delle prestazioni eseguite (Cass. S.U. n. 1912/1999; Cass. n. 19206/1999; Cass. n. 7602/1986; Cass. n. 6298/1988; Cass. n. 8838/1992).

Con il settimo motivo le ricorrenti osservano le ricorrenti che nel ricorso introduttivo l’avv. L. aveva richiesto rivalutazione ed interessi sul proprio credito"dalla data di espletamento dei singoli incarichi" ed in via subordinata la domanda di "pagamento degli interessi bancari" ed il giudice di primo grado aveva accolto parzialmente la domanda accordando la rivalutazione e gli interessi "dalle date di messa in mora".

Nel proprio atto di appello l’avv. L. aveva invertito le domande, chiedendo in principalità il "pagamento degli interessi bancari" – senza indicazione di decorrenza ed in subordine limitandosi al pagamento di interessi e rivalutazione senza indicare una diversa decorrenza rispetto alla decisione di primo grado.

Il Giudice di appello ha ritenuto che l’accoglimento della domanda – posta in via principale in primo grado – di rivalutazione ed interessi privasse l’appellante di interesse all’impugnazione e che non fosse consentito in appello "invertire" l’ordine delle domande, accogliendo peraltro la domanda di rivalutazione ed interessi dalla maturazione dei crediti anzichè dalla messa in mora.

Secondo i ricorrenti ai sensi dell’art. 346 c.p.c., la proposizione subordinata della domanda principale equivale a rinunzia.

Inoltre la domanda subordinata (in appello) non poteva essere accolta con una decorrenza diversa, in difetto di apposito gravame.

Il motivo è fondato quanto a quest’ultimo profilo.

Ed invero, in ordine al primo profilo, del tutto correttamente il Giudice a quo ha ritenuto che l’accoglimento della richiesta principale di corresponsione di interessi e rivalutazione monetaria non giustificasse una doglianza volta ad ottenere il riconoscimento degli interessi bancari, la cui richiesta era stata formulata in primo grado solo in via subordinata.

Quanto al secondo profilo va invece ritenuto che, in difetto di gravame, da effettuarsi in maniera specifica (art. 434 c.p.c.) non poteva il giudice di appello fissare una decorrenza diversa da quella accordata dal primo giudice e quindi dalle "date di messa in mora".

Il motivo va, pertanto, accolto, con assorbimento del successivo, con cui, denunciandosi violazione degli artt. 1219, 1224 e 1227 c.c., e dell’art. 429 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, si censura la decisione della Corte partenopea, in punto decorrenza della rivalutazione ed interessi legali, sotto altro aspetto.

Per quanto precede l’impugnata sentenza va annullata in relazione al motivo accolto e non essendo necessari accertamenti di fatto la causa va decisa nel merito con condanna, sulle somme determinate nella sentenza di appello, degli interessi e rivalutazione dalle date di messa in mora, come specificato nella sentenza di primo grado.

La complessità delle questioni oggetto di controversia ed i contrasti giurisprudenziali su talune di esse, induce a compensare tra le parti le spese dell’intero processo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il settimo motivo di ricorso, dichiara assorbito l’ottavo e rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, condanna le ricorrenti al pagamento, sulle somme determinate nella sentenza di appello, degli interessi e rivalutazione dalle date di messa in mora, come specificato nella sentenza di primo grado. Compensa le spese dell’intero processo.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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