Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 10-06-2011) 26-07-2011, n. 29867

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 17 marzo 2010 ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Milano del 24 ottobre 2007 riconoscendo il vizio parziale di mente e ha condannato B.D. per il delitto di tentato furto aggravato disponendo altresì, a pena espiata, la sottoposizione del condannato alla misura di sicurezza della libertà vigilata.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del proprio difensore, lamentando:

a) il mancato riconoscimento del vizio totale di mente;

b) quanto all’applicazione della misura di sicurezza, la mancanza di motivazione e la violazione di legge in merito alla sussistenza della pericolosità sociale, tale da legittimare la sottoposizione alla misura di sicurezza della libertà vigilata.

Motivi della decisione

1. Deve, sicuramente, procedersi all’annullamento dell’impugnata sentenza con rinvio al Giudice del merito competente per nuovo esame sul punto della pericolosità del condannato B..

2. L’esame della sentenza della Corte territoriale permette, invero, di acclarare come non sia stata spesa una parola, ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata, in merito alla pericolosità sociale dell’imputato ai sensi dell’art. 202 c.p., comma 1 e art. 203 c.p..

Nella giurisprudenza si osserva, infatti, come una prognosi di pericolosità sociale rilevante "agli effetti della legge penale", non possa, da un lato, limitarsi a richiamare la valutazione criminologica di un esperto, ma debba fondarsi sulla esistenza delle condizioni che consentano di affermare un persistente pericolo di commissione in futuro di altri reati, basandosi sull’esame della personalità e sugli effettivi problemi psichiatrici rilevati da un perito ma anche sull’analisi dei fatti commessi e su ogni altro parametro indicato dalla legge, in specie dall’art. 133 c.p., al fine di appezzare il pericolo di recidiva.

Ciò in quanto "la valutazione indicata dall’art. 203 c.p., costituisce compito esclusivo del Giudice, il quale non può abdicarvi in favore di altri soggetti nè rinunciarvi, pur dovendo tener conto dei dati relativi alle condizioni mentali dell’imputato ed alle implicazioni comportamentali eventualmente indicate dal perito" (v. Cass. Sez. 1, 07 gennaio 2010 n. 4094 e da ultimo Sez. 1, 14 ottobre 2010 n. 40808).

Nella specie la Corte di Appello, dopo aver affermato la penale responsabilità dell’imputato ed aver riconosciuto l’esistenza di un vizio parziale di mente, ex art. 88 c.p., ha pensato di applicare, ad avvenuta espiazione della pena, la misura di sicurezza della libertà vigilata per un tempo non inferiore a sei mesi senza, però, premurarsi di affermare il necessario presupposto della pericolosità sociale dell’imputato stesso.

3. L’altro motivo del ricorso non è, al contrario, meritevole di accoglimento in quanto la Corte territoriale, questa volta con logica motivazione sorretta da condivisibili principi nella materia, ha ben rigettato la richiesta della difesa di affermazione dell’esistenza di un vizio totale di mente.

In termini va subito premesso come, secondo la più accreditata e sensibile dottrina psichiatrico – forense e medico legale, nonchè per le scienze del comportamento in genere, sia ormai pacifico che le nozioni di "capacità di intendere e di volere" e quella di "vizio di mente" non corrispondano a categorie scientifico – naturalistiche.

Esse altro non sono che convenzioni giuridiche, nate in un periodo storico dominato dall’ideologia positivista ed ancorato a una psichiatria biologica che non è conforme alle moderne correnti psicodinamiche e fenomenologiche: esse peraltro hanno un contenuto sostanziale che la dottrina e la prassi giurisprudenziale necessariamente si sforzano di adeguare ai tempi, come avvenuto in tema di disturbi gravi di personalità.

Su tale tema, infatti, un punto nodale di riferimento è notoriamente dato dalla sentenza n. 9163 del 25 gennaio 2005 delle Sezioni Unite, la quale ha stabilito che anche i "disturbi della personalità", come quelli da nevrosi e da psicopatie, possano costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente, ai fini degli artt. 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla stessa.

Peraltro, la portata dell’affermazione è stata dalla stessa Corte tarata e ridimensionata con le ulteriori precisazioni che sono state date dalle regole – corollario secondo cui non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre "anomalie caratteriali" o gli "stati emotivi e passionali", i quali non rivestano i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente.

E’, inoltre, necessario che tra il disturbo mentale ed il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo casualmente determinato dal primo.

Per riassumere, i disturbi della personalità (nevrosi e psicopatie) possono essere apprezzati alla luce delle norme degli artt. 88 ed 89 c.p., con conseguente pronuncia di totale o parziale infermità di mente dell’imputato, a condizione che essi abbiano – riferiti alla capacità di intendere e di volere – le seguenti qualità, globalmente in grado di incidere sulla capacità di autodeterminazione dell’autore del fatto illecito: a) consistenza e intensità (intese come valore concreto e forte); b) rilevanza e gravità (intese come valore importante); c) rapporto motivante con il fatto commesso (apprezzato come correlazione psico-emotiva rispetto al fatto illecito).

Quanto ai profili definitori della nozione di imputabilità, va precisato che nel nostro sistema, il contenuto sostanziale della imputabilità, argomentandolo dagli artt. 85, 88 ed 89 c.p., sia pacificamente dato dalla capacità di intendere e di volere, non alterata da infermità ablative ( art. 88 c.p.) o gravemente riduttive ( art. 89 c.p.) delle funzioni mentali.

La capacità di intendere, che equivale in pratica ad "un pensare ordinato", va definita quindi come quella serie di abilità che mettono la persona in grado di rendersi conto del valore sociale dell’atto che essa intende compiere, di prefigurarsene le conseguenze, di stabilirne gli effetti ed i mezzi per produrli.

In altri termini, la capacità di intendere si esprime quale complesso armonico di condizioni psichiche che rende l’individuo capace di superare le difficoltà, in situazioni già sperimentate o nuove.

L’intendere, quindi, comporta un uso efficace dei processi di conoscenza e del principio di realtà.

La capacità di volere, a sua volta ed in tale ottica, va definita l’attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, selezionando le spinte ad agire o a non – agire, nel rispetto della propria precedente esperienza nonchè dei valori della cultura di appartenenza, e delle esigenze di razionalità e logicità tra mezzi e fini.

Se, quindi, la capacità di intendere può definirsi un "pensare ordinato" e la capacità di volere può esprimersi in un "determinarsi nelle azioni in modo socialmente adeguato ed accettato", va subito osservato che l’infermità di mente, capace di aggredire ed alterare siffatte due attitudini della persona, deve comportare, per giungere alla soglia di un disturbo penalmente rilevante, un vero e proprio processo patologico, idoneo ad interferire nelle dinamiche di conoscenza e volontà, con conseguente esclusione o grande compromissione della capacità di intendere e/o di volere.

In tale quadro, l’infermità di mente, anche se esprime un concetto più ampio di quello di malattia di mente, deve tuttavia dipendere da una causa patologica, anche non necessariamente inquadrabile nelle figure tipiche della nosografia clinica, ma sempre tale da alterare i processi intellettivi e volitivi con quel rilievo e densità causale che anche i disturbi gravi di personalità – nei termini evidenziati dalle SS.UU. – possono in concreto realizzare.

Nella specie, in definitiva, quanto affermato dalla Corte di Appello in merito al condannato B. è privo di inadeguatezze logico – scientifiche, concernenti un imputato che, tra l’altro e comunque, in fatto, non presenta rilevanti e decisive turbe di "intelligenza emotiva" (intesa questa, soprattutto, come la capacità di essere consapevoli dei propri sentimenti e di comportarsi in modo coerente con essi) o di "intelligenza sociale" (che entra in gioco nelle complesse dinamiche dei rapporti interpersonali) tali, per la loro consistenza e spessore, da alterare il rapporto con la decisione illecita ed i processi di autocontrollo personale.

Si versa, ancora, a fronte di valutazioni adeguate, espresse in sentenza, in termini di ragionevole plausibilità, senza vizi nella struttura argomentativa e nei passaggi inferenziali, tali da integrare quelle patologie della decisione, tutelabili ex art. 606 c.p.p., e, per ciò stesso al di fuori di un possibile intervento censorio di questo Giudice di legittimità.

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente all’applicazione della misura di sicurezza, con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra Sezione della Corte di Appello di Milano. Rigetta il ricorso nel resto.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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