Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 09-06-2011) 26-07-2011, n. 29902 Aggravanti comuni danno rilevante

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Gip presso il Tribunale di Roma, con sentenza del 7/5/2010, dichiarava K.A. colpevole dei reati di cui agli art. 609 bis e ter n. 2, artt. 582 e 585 in relazione all’art. 576 c.p., e art. 61 c.p., n. 2, e lo condannava alla pena di anni 4 di reclusione, oltre pene accessorie, e al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.

La Corte di Appello di Roma, chiamata a pronunciarsi sull’appello avanzato nell’interesse dell’imputato, in riforma del decisum di prime cure, ha rideterminato la pena in anni 3 di reclusione, con conferma nel resto.

Propone ricorso per cassazione l’imputato personalmente, con i seguenti motivi: – ha errato la Corte distrettuale nel non riqualificare il fatto-reato nelle forme del tentativo e nel non riconoscere l’ipotesi del recesso attivo, ex art. 56 c.p., u.c., nonchè nel non riconoscere la circostanza ad effetto speciale, ex art. 609 bis c.p., u.c..

Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile.

La argomentazione motivazionale, adottata dal decidente a sostegno della affermazione di colpevolezza dell’imputato, si palesa logica e corretta, fornendo, peraltro, ampio ed esaustivo riscontro ai motivi di appello libellati.

Con il primo motivo di impugnazione il prevenuto censura la sentenza in punto di errata qualificazione del fatto, che doveva essere inquadrato nella fattispecie del tentativo, ex art. 56 c.p..

L’assunto del ricorrente è totalmente privo di fondamento.

Il giudice di merito rileva che tale richiesta avrebbe avuto senso alla stregua della pregressa disciplina, laddove gli artt. 519 e 521 c.p. trattavano distintamente la violenza carnale e gli atti di libidine violenti, differenziati dall’avvenuto o meno congiungimento carnale. L’intervento legislativo effettuato con L. n. 66 del 1996, ha superato tale impostazione, ricomprendendo i delitti di violenza sessuale nell’area dei delitti contro la persona e prevedendo come violenza sessuale ogni azione diretta alla soddisfazione di pulsioni sessuali contro la volontà della vittima, facendovi rientrare, quindi, tutti quegli atti che siano oggettivamente idonei ad attentare alla libertà sessuale del soggetto passivo.

Nella specie, a giusta ragione il decidente, ritiene, di tutta evidenza, che la condotta posta in essere dal prevenuto, concretatasi nel denudare la donna, palpeggiarla nelle parti intime, morderle il seno, tentare la penetrazione, configura il reato consumato di cui all’art. 609 bis c.p., con conseguente impossibilità di ritenere, peraltro, la sussistenza del recesso attivo, visto che l’evento antigiuridico si era già cristallizzato, allorchè il K. decise di desistere dall’azione intrapresa.

Del pari totalmente priva di pregio si rivela la doglianza attinente alla mancata applicazione dell’art. 609 c.p., comma 3.

Il giudice di merito, correttamente e compiutamente, ha evidenziato come nella fattispecie in esame ostino più circostanze alla concessione della attenuante invocata, quali la particolare violenza adoperata contro la vittima, minacciata con un coltello, alla quale erano procurate lesioni di una certa consistenza; la premeditazione della aggressione, con predisposizione della telecamera per la ripresa; l’avere denudato la donna, rilevando che al fine del riconoscimento dell’attenuante de qua non rileva la semplice assenza di un rapporto sessuale con penetrazione, ma è necessario valutare il fatto nella sua integralità e complessità (Cass. 5/2/09, n. 10085), fatto ritenuto nella specie dal decidente di particolare gravità.

Il comportamento successivo, cioè, l’avere desistito dalla congiunzione carnale, l’avere offerto alla p.o. un bicchiere d’acqua e l’avere chiesto perdono alla donna, può e deve rilevare ex art. 133 c.p., nella valutazione ai fini della determinazione della pena, ma non può incidere sulla valutazione obiettiva di quanto commesso.

Tenuto conto della sentenza del 13/6/2000, n. 186, della Corte Costituzionale, e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che il K. abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, lo stesso, ai sensi dell’art. 616 c.p.p.. deve, altresì, essere condannato al versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 1.000,00.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende; nonchè alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile, liquidate in favore dell’Erario in Euro 1.800,00, oltre accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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