Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 08-06-2011) 26-07-2011, n. 29891 Reato continuato e concorso formale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 6 maggio 2010, la Corte d’Appello di Trieste riformava parzialmente la sentenza assolutoria emessa il 6 aprile 2001 dal Tribunale di Gorizia nei confronti di M.C. ed appellata dal Procuratore della Repubblica di Gorizia e dal Procuratore Generale di Trieste, condannando la predetta per i reati di cui all’art. 40 c.p., comma 2, art. 81 cpv e art. 609 quater, comma 1 e ultimo, risultanti dalla diversa qualificazione dei fatti di cui all’imputazione.

La predetta era infatti accusata di aver disposto o consentito, anche dietro pagamento di somme di denaro o comunque di non aver impedito che le figlie minori, di sei e otto anni, frequentassero l’abitazione di M.S., separatamente giudicato, per essere sottoposte ad abusi sessuali consistiti in baci, leccate, palpamenti e carezze dati e ricevuti, dopo essersi denudati, sulla bocca ed in altre parti intime del corpo, ivi compreso il pene, in una circostanza previamente cosparso di marmellata, nonchè nel farsi orinare addosso.

Avverso tale decisione la predetta proponeva ricorso per cassazione.

Con un primo motivo di ricorso deduceva la violazione di legge ed il vizio di motivazione, rilevando che la condotta omissiva mediante omissione ritenuta dalla Corte d’Appello presuppone la perfetta conoscenza o conoscibilità delle condotte poste in essere dal soggetto agente ma anche un preventivo accordo che, al contrario, la stessa Corte territoriale ha escluso, incorrendo in una palese contraddizione.

Altrettanto errato era il riferimento al dolo eventuale, che indicava come sintomo ulteriore di illogicità della motivazione, in quanto la sua sussistenza avrebbe comportato necessariamente la punizione a titolo di responsabilità diretta in concorso morale con l’agente.

Le conclusioni cui la Corte territoriale era pervenuta evidenziavano anche, a suo dire, la violazione dell’art. 521 c.p.p., in quanto l’imputazione originaria era differente rispetto alla condotta per la quale era intervenuta la condanna dovendosi leggere la frase "e comunque nel non impedire …", riportata nella rubrica, come riferita ad una attività diretta, commissiva e non anche come inerente all’art. 40 c.p., comma 2.

Con un secondo motivo di ricorso deduceva la violazione di legge e l’omessa motivazione, affermando che il materiale istruttorio acquisito non poteva ritenersi idoneo a sostenere una sentenza di condanna in quanto costituito da elementi contraddittori e non univoci.

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

Occorre preliminarmente ricordare che la giurisprudenza di questa Corte (in parte richiamata anche dalla decisione impugnata) è uniformemente orientata nel ritenere che il genitore esercente la potestà sul figlio minore vittima di abusi sessuali ricopra una posizione di garanzia a tutela dell’intangibilità sessuale del figlio che rende operante la clausola di equivalenza di cui all’art. 40 c.p., comma 2.

A tali conclusioni si è giunti sia con riferimento ad abusi commessi da terzi (Sez. 3^ n.36824, 22 settembre 2009; Sez. 3^ n. 4331, 2 febbraio 2006), sia in ambito familiare, dal coniuge (Sez. Ili n.11243, 24 marzo 2010; Sez. 3^ n. 4730, 30 gennaio 2008; Sez. Ili n. 3124,26 gennaio 2006).

Si è peraltro precisato (Sez. 3^ n. 36824Y2010, cit.) che l’art. 30 Cost. e art. 147 c.c., pongono ciascun genitore in una formale posizione di garanzia dalla quale discende un generale dovere di sorveglianza e di tutela, comprensivo dell’obbligo di preservare il minore da reati commessi ai suoi danni. La eventuale responsabilità omissiva del genitore ai sensi dell’art. 40 c.p., comma 2, non nasce dal mero vincolo parentale, essendo richiesta la sussistenza dell’elemento psicologico, la conoscenza della posizione di garanzia ricoperta, la cognizione dell’evento dannoso che è suo dovere impedire e la possibilità di attivarsi efficacemente per inibirlo.

La lettura dei condivisibili principi appena richiamati rende evidente l’infondatezza del primo motivo di ricorso.

Con accertamento in fatto del tutto coerente ed immune da cedimenti logici, la Corte territoriale ha rilevato che la ricorrente ed il M., autore materiale degli abusi sulle bambine, vivevano in due abitazioni distanti a poche decine di metri ed intrattenevano una relazione connotata dalla prestazioni sessuali a pagamento da parte della donna. Quest’ultima, consapevole da tempo delle attenzioni sessuali rivolte dall’uomo alle figlie, tanto che le aveva richiesto (pur ricevendo un rifiuto) di consentire ad una delle figlie di praticargli in sua presenza un coito orale, continuò a permettere che le bambine si recassero da sole presso l’abitazione dell’uomo, omettendo qualsiasi intervento dopo aver appreso degli abusi, provvedendo poi a porre in essere una serie di iniziative volte a dissociare la sua posizione da quella dell’amante dopo l’avvio dei primi accertamenti.

Prudentemente i giudici dell’appello hanno escluso che tutta una serie di elementi evidenziati dai pubblici ministeri appellanti potessero essere con certezza valutati come indicativi di uno specifico accordo tra la donna ed il M., finalizzato ad offrire a quest’ultimo le figlie per avere con loro rapporti sessuali ma hanno ritenuto incontrovertibilmente dimostrato che la ricorrente, venendo meno agli obblighi che il ruolo di genitore le imponeva, rimase inerte pur nella consapevolezza degli abusi ripetutamente perpetrati nei confronti delle figlie.

Il solido apparato argomentativo che sostiene la sentenza impugnata non risulta intaccato neppure dalle dedotte violazioni di legge indicate in ricorso.

Appare del tutto corretto, infatti, l’inquadramento della condotta della donna, enucleata dalla Corte territoriale nella prolungata inerzia a fronte della piena cognizione degli abusi sessuali perpetrati dall’amante in danno delle figlie ma che non erano stati, tuttavia, previamente concordati.

Altrettanto corretta appare la qualificazione dell’elemento soggettivo nella figura del dolo eventuale, individuabile nella consapevole accettazione del rischio degli abusi sessuali, nè si rinviene alcuna violazione dell’art. 521 c.p.p., atteso che il fatto storico così come riportato nell’imputazione risulta immutato e, del tutto legittimamente, diversamente qualificato dai giudici del gravame.

Anche l’infondatezza del secondo motivo di ricorso appare di macroscopica evidenza.

La ricorrente si limita infatti ad una generica critica sulle modalità di valutazione del complessivo compendio probatorio da parte dei giudici dell’appello senza formulare alcuna specifica censura sulle motivazioni espresse dai giudici del gravame.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto disposto d’ufficio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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