Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 31-05-2011) 26-07-2011, n. 29923

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza pronunciata in data 8 giugno 2010, la Corte di appello di Trieste confermava la sentenza in data 22 ottobre 2008 del Tribunale di Udine, appellata da T.R., condannato, con le attenuanti generiche, alla pena di mesi dieci di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile T. V., in quanto responsabile del reato di cui all’art. 572 c.p., per avere maltrattato la figlia V., che veniva da lui abitualmente percossa e umiliata con espressioni di disprezzo o con altre condotte (in (OMISSIS)).

2. Osservava la Corte di appello che la prova della responsabilità dell’imputato derivava in primo luogo dalla testimonianza della figlia dell’imputato e dalla madre di questa, Ti.Ro., poi separatasi.

Da dette testimonianze, giudicate attendibili, in quanto non indicative di un sentimento di particolare astio nei confronti dell’imputato, oggettivamente equilibrate e sostanzialmente coincidenti, emergeva che il T., per circa dieci anni, aveva mantenuto un atteggiamento di ostilità nei confronti della figlia maggiore, diversamente dal suo comportamento nei confronti della figlia minore M.. In particolare egli insultava e deprimeva frequentemente la figlia V., dicendole che non valeva niente, rivolgendole epiteti quali "incapace", "incompetente", "fallita", "stronza", "cretina". Era anche avvenuto che, in preda a una inconsulta ira, egli aveva percosso la figlia per motivi futili, quali un brutto voto da lei riportato a scuola, le sue frequentazioni, un incidente domestico e in genere le sue abitudini di vita. Tali dichiarazioni erano riscontrate da quelle, sia pure de relato, della nonna materna di V., P.M., e della teste C.M.; e non risultavano smentite da quelle, alquanto evasive, della figlia minore M..

3. Nel corso del dibattimento di appello la persona offesa, T. V., faceva pervenire dichiarazione con la quale comunicava che i "dissapori" con il padre si erano risolti e che essa intendeva rinunciare alla costituzione di parte civile.

4. Ricorre per cassazione l’imputato, con atto sottoscritto dal difensore, avv. Paolo Dal Zilio, che espone i seguenti motivi:

4.1. Carenza e contraddittorietà della motivazione in punto di valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni delle testi T.V., Ti.Re. e P.M..

Le dichiarazioni in questione erano, lacunose, imprecise e per nulla concordanti, data la divergenza su molti aspetti rilevanti.

Non si è valutata inoltre l’attendibilità delle stesse, essendosi affermato apoditticamente, contrariamente al tenore delle deposizioni, che le testi non nutrivano alcun motivo di rancore nei confronti dell’imputato. Quanto alla P., anch’essa chiaramente ostile all’imputato, si è trattato di una teste de relato che si è limitata a riferire quanto dettole dalla figlia e dalla nipote.

4.2. Insufficiente valutazione della deposizione di T.M., e degli altri testi della difesa, che hanno smentito la tesi accusatoria, affermando di non avere mai assistito a condotte violente dell’imputato nei confronti della figlia V.. Non poteva dubitarsi dell’attendibilità della figlia M., posto che questa, dopo la separazione, era andata a vivere con la madre e la sorella, nè di quella del padre dell’allora fidanzato di V., che aveva certamente ricevuto le confidenze di quest’ultima.

4.3. Erronea qualificazione giuridica del fatto, che, semmai, doveva essere ricondotto alla ipotesi di cui all’art. 571 c.p., essendosi al più trattato di atti minimi di violenza fisica o morale scatenati dalla condotta sregolata di V., che saltava frequentemente la scuola e rientrava a casa tardi nonostante la sua giovane età. 4.4, Illegittima conferma delle statuizioni civili, dato che la parte civile non era comparsa nel giudizio di appello e aveva rimesso la querela, con ciò manifestando implicitamente la volontà di desistere dall’azione civile.

Motivi della decisione

1. Il ricorso merita accoglimento, non essendo stato pienamente dato conto dalla Corte di appello dell’estremo della abitualità della condotta contestata.

2. Come è noto, ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 572 c.p., occorre che l’agente sottoponga le persone di famiglia ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita (v. tra le tante Sez. 6, n. 7192 del 04/12/2003, Camiscia, Rv.

228461); dovendo dunque escludersi che la compromissione del bene protetto si verifichi in presenza di fatti isolati – anche se reiterati – che ledono ovvero mettono in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia, essendo invece necessario, per la configurabilità del reato, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile (Sez. 6, n. 37019 del 27/05/2003, Caruso, Rv. 226794).

Con particolare riferimento all’elemento soggettivo del reato, va ribadito che il dolo del delitto in esame, pur essendo di tipo generico, non richiedendo che l’agente sia animato dal fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e volontà di sottoporre la stessa ad un’attività vessatoria (v. Sez. 6, n. 16836 del 18/02/2010, M., Rv. 246915; Sez. 6, n. 27048 del 18/03/2008, D. S., Rv. 240879, si deve però atteggiare come espressione di una volontà unitaria e programmatica, nel senso da fungere da elemento unificatore della pluralità di atti lesivi della personalità della vittima e da concretizzarsi nella inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte (Sez. 6, n. 6541 dell’11/12/2003, Bonsignore, Rv. 228276).

3. Ora, la sentenza impugnata, pur avendo ineccepibilmente accertato che l’imputato usò di frequente manifestazioni di disprezzo nei confronti della figlia maggiore, spesso indirizzandole epiteti offensivi e, talvolta, percuotendola, non ha offerto adeguata dimostrazione circa l’abitualità di una simile condotta nè circa l’elemento soggettivo in capo all’imputato, inquadrabile nell’ambito di una volontà sopraffattrice unitaria.

I giudici di appello hanno dato puntuale conto delle ripetute e certamente riprovevoli reazioni del T. a fronte di una condotta di vita della figlia che ad avviso dell’imputato non era confacente alla sua età e ai suoi doveri familiari e sociali; ma non hanno chiaramente evidenziato da quali elementi di prova potesse desumersi che tale atteggiamento fosse programmaticamente diretto a umiliarla e vessarla e non costituisse invece la manifestazione di inconsulte reazioni irose nell’ambito di momenti di tensione familiari, qualificati come "dissapori" dalla stessa persona offesa nell’atto con il quale ha dichiarato di rinunciare a ogni istanza nei confronti del padre, tanto da indurre il Procuratore generale di udienza a concludere per l’assoluzione dell’imputato per insussistenza del fatto.

4. La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Trieste per nuovo giudizio sul punto sopra evidenziato.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Trieste per nuovo giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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