T.A.R. Veneto Venezia Sez. III, Sent., 04-08-2011, n. 1348 Carenza di interesse sopravvenuta Procedimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Società ricorrente espone di aver presentato l’1 dicembre 2008 un’istanza per il rilascio di un’autorizzazione per l’apertura di un esercizio di somministrazione di alimenti e bevande in un immobile sito a San Mauro 312 nell’isola di Burano del Comune di Venezia.

Il Comune con provvedimento prot. n. 28534 del 22 gennaio 2009, richiamata l’ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007, ha respinto l’istanza per la mancanza di nuove licenze o della disponibilità di licenze derivanti dalla cessazione di altre autorizzazioni già rilasciate.

In fatto va premesso che il Consiglio di Stato, con decisione della Sez. V, 21 giugno 2007, n. 3330, aveva annullato la disciplina comunale avente ad oggetto il contingentamento numerico delle licenze previsto dalla legge 25 agosto 1991, n. 287 e dall’art. 2 della legge 5 gennaio 1996, n. 25.

La citata ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007 ha reintrodotto per l’intero territorio comunale il contingentamento numerico delle licenze, prevedendo che le autorizzazioni di pubblico esercizio possano essere rilasciate solo nei casi di cessazione, revoca o decadenza, e ponendo particolari limitazioni relativamente al Sestiere di San Marco, che rappresenta l’area di maggiore interesse storico artistico della città, ai fini della salvaguardia a tutela dei beni culturali ed ambientali e dell’incontrollata espansione in tale area di attività monoculturali legate al turismo.

Con il ricorso in epigrafe tali provvedimenti sono impugnati per le seguenti censure:

I) elusione e violazione del giudicato amministrativo in relazione alla decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 21 giugno 2007, n. 3330 e sviamento;

II) violazione e falsa applicazione dell’art. 4 del Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, anche in relazione ai principi contenuti nel Trattato dell’Unione Europea e dell’art. 41 della Costituzione, fermo restando che il citato Dlgs. 114 ha abrogato la legge 25 agosto 1991, n. 287;

III) contraddittorietà, difetto di istruttoria e di motivazione e sviamento per il mancato rispetto dei criteri e parametri menzionati dall’art. 2 della legge 5 gennaio 1996, n. 25;

IV) violazione e falsa applicazione dell’art. 50 del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, per l’incompetenza del Sindaco a disciplinare i pubblici esercizi già oggetto di annullamento da parte della menzionata decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 21 giugno 2007, n. 3330;

V) illogicità, irragionevolezza, difetto di motivazione perché il diniego pone a suo fondamento un provvedimento d’urgenza adottato sei mesi prima;

VI) illegittimità del provvedimento prot. n. 28534 del 22 gennaio 2009 derivata dall’illegittimità dell’ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007;

VII) carenza di motivazione e contraddittorietà laddove il diniego richiama la legge regionale 21 settembre 2007, n. 29, perché l’art. 38 di tale legge, nella parte in cui afferma che in materia di somministrazione di alimenti e bevande continuano ad applicarsi i parametri e i criteri vigenti alla data della sua entrata in vigore, non può riferirsi a quelli illegittimamente reintrodotti dall’ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007, in quanto la legge regionale è entrata in vigore quando la normativa statale aveva già abrogato le norme antecedenti che autorizzavano il ricorso a forme di contingentamento numerico delle licenze.

Si è costituito in giudizio il Comune di Venezia concludendo per la reiezione del ricorso.

Alla pubblica udienza del 4 marzo 2010 con ordinanza n. 59 del 21 aprile 2010 è stata disposta la sospensione del processo in attesa della definizione da parte della Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 38 della legge regionale 21 settembre 2007, n. 29, alla medesima rimessa con ordinanza Tar Veneto, Sez. III, 9 gennaio 2009, n. 29.

La Corte Costituzionale con ordinanza 24 novembre 2010, n. 339 ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione.

Alla pubblica udienza del 9 giugno 2011, in prossimità della quale il Comune ha eccepito la sopravvenuta carenza di interesse al ricorso perché la Società ricorrente ha aperto un esercizio di somministrazione di alimenti e bevande al medesimo indirizzo oggetto dell’istanza che ha dato origine alla controversia (acquisendo l’autorizzazione n. 7312 del 28 aprile 1999 e trasferendola all’indirizzo di S. Mauro 312 a Burano), la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

1. Preliminarmente deve essere respinta l’eccezione di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse sollevata dal Comune.

Come è noto tale formula riguarda le ipotesi in cui l’interesse all’azione viene meno durante lo svolgimento del processo perché sopravvengono nuove circostanze che rendano con certezza irrilevante per il ricorrente un’eventuale sentenza di accoglimento, nel senso che dalla stessa egli non potrebbe più trarre alcuna utilità o risultato vantaggioso anche solo strumentale.

Nel caso all’esame la circostanza che nei locali oggetto dell’istanza si sia momentaneamente insediata un’attività riconducibile ad un’altra autorizzazione commerciale non esclude che, a seguito del contenuto eliminatorio del provvedimento impugnato, possano scaturire effetti vantaggiosi per la parte ricorrente o comunque propedeutici alla proposizione di un’eventuale futura domanda di risarcimento.

L’eccezione pertanto deve essere respinta.

2. Nel merito il ricorso è fondato nel senso di seguito illustrato.

2.1 Non è fondata e deve essere respinta la censura proposta con diverse argomentazioni al primo e quarto motivo, con la quale la Società ricorrente in sostanza lamenta la violazione o l’elusione del giudicato o comunque delle statuizioni contenute nella decisione del Consiglio di Stato Sez. V, 21 giugno 2007, n. 3330.

La censura è analoga a quella già scrutinata e respinta con le sentenze della Sezione 14 ottobre 2008, n. 3209, 21 aprile 2010, n. 1494, e 13 dicembre 2010, n. 6450, le cui considerazioni ad avviso del Collegio sono condivisibili non essendo sufficienti, per una soluzione di segno opposto, le tesi prospettate nell’odierno giudizio dalla Società ricorrente, che in parte debbono peraltro ritenersi superate dalla sopravvenuta decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 5 maggio 2009, n. 2808.

Al fine di rendere più chiaro il significato della tesi prospettata dalla ricorrente è necessario premettere che, con deliberazione consiliare 4 maggio 1993, n. 70, il Comune di Venezia aveva demandato al Sindaco la definizione del numero di nuovi pubblici esercizi autorizzabili in ciascuna delle tre macrozone del territorio comunale (costituite dal Centro storico, l’Estuario e la Terraferma).

In seguito l’ordinanza sindacale 17 marzo 1997, n. 36876, confermate le tre macrozone, aveva rideterminato il numero di autorizzazioni assentibili.

La predetta deliberazione consiliare e, in via derivata l’ordinanza sindacale, sono state annullate dalla citata decisione 21 giugno 2007, n. 3330, della V Sezione del Consiglio di Stato, per la considerazione che il Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, recante la riforma della disciplina concernente il settore del commercio, avrebbe tacitamente abrogato per incompatibilità tutte le disposizioni su cui si fondava il contingentamento degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande.

Il Comune di Venezia, ritenendo non condivisibili le argomentazioni della decisione, con l’ordinanza sindacale 20 luglio 2007, n. 384, ha disposto che nel territorio del Comune possono essere rilasciate nuove autorizzazioni di pubblico esercizio esclusivamente nei casi di cessazione, revoca o decadenza.

La tesi che l’ordinanza sindacale 20 luglio 2007, n. 384 comporterebbe una violazione o elusione del giudicato non può essere condivisa, in quanto muove da un’erronea commistione tra quelli che sono gli effetti caducatori derivanti dall’annullamento dell’atto indivisibile a contenuto generale, i quali, pur senza intaccare il potere dell’Amministrazione di provvedere, espandono la propria efficacia erga omnes, e gli effetti conformativi del giudicato, che statuiscono vincoli e limiti alla successiva azione amministrativa, producendo effetti preclusivi – e vietando pertanto di assumere nuovi provvedimenti di contenuto analogo a quelli annullati – solo nei confronti di coloro che sono stati parti in quel giudizio.

Infatti, come è stato osservato (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 15 giugno 2004, n. 3939) "la sfera di efficacia soggettiva di una pronuncia giurisdizionale amministrativa di annullamento va differenziatamente individuata a seconda che si abbia riguardo alla sua parte dispositiva – cassatoria dell’atto, ovvero a quella ordinatoria – prescrittiva, statuente limiti e vincoli per la successiva azione dell’Amministrazione. Infatti, in ordine alla prima parte, in quanto comportante l’eliminazione dal mondo giuridico di una entità obiettiva quale il provvedimento impugnato, la pronuncia non può che operare, necessariamente, erga omnes, essendo l’istituto dell’annullamento ontologicamente insuscettibile di produrre la caducazione di un atto per taluni e non per altri (fenomeno, questo, cui è nell’ordinamento preordinato il diverso istituto della disapplicazione degli atti illegittimi, quale notoriamente contemplato dagli artt. 4 e 5 L. 20 marzo 1865 n. 2248, all. E; circa la sfera soggettiva di efficacia delle decisioni di annullamento nella parte cassatoria, cfr. in particolare Cons. Stato, V Sez., 28 dicembre 1989 n. 910; V Sez., 1 marzo 1989 n. 153; V Sez., 25 novembre 1988 n. 749; VI Sez., 12 maggio 1981 n. 211; VI Sez., 16 febbraio 1979 n. 81; VI Sez., 24 ottobre 1978 n. 1093; VI Sez., 12 maggio 1978 n. 628). Al contrario, relativamente alla parte ordinatoria – prescrittiva, la pronuncia si atteggia come tipicamente inerente al rapporto giuridico dedotto in giudizio (al rapporto, cioè, corrente tra la potestà pubblica riguardata, segnatamente, nei limiti di legittimità imposti alla sua esplicazione e l’interesse legittimo della parte privata azionato), che viene esaminato ed in ordine al quale prescrizioni e vincoli sono posti negli stretti limiti degli interessi sostanziali fatti valere dall’istante, delle censure dedotte e delle contrapposte eccezioni sollevate. Donde l’applicabilità in parte qua, per ragioni ermeneutiche e sistematiche suffragate dal canone costituzionale di cui all’art. 24, primo comma, Cost., del principio proprio delle pronunce giurisdizionali civili – pur esse, di norma, tipicamente inerenti a rapporti – secondo cui il giudicato fa stato unicamente fra le parti, i loro eredi ed aventi causa ( art. 2909 Cod. civ.; cfr. in questo senso: Cons. Stato, IV Sez., 6 marzo 1990 n. 169)".

Pertanto, riferendosi agli atti oggetto d’impugnazione in questa sede, non è corretto affermare che essi siano stati emessi in violazione ovvero in elusione del giudicato formatosi a seguito della decisione della V Sezione del Consiglio di Stato 21 giugno 2007, n. 3330, atteso che il Comune, com’era nei suoi poteri, rispetto a soggetti che, come la parte ricorrente dell’odierna controversia, non erano parti in quel giudizio, ha deciso di non recepire l’interpretazione proposta dal Consiglio di Stato con quella che, allo stato, resta una decisione isolata, che deve peraltro intendersi superata sia dalla normativa statale e regionale sopravvenute, quali il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248 e la legge regionale 21 settembre 2007, n. 29, che dalla stessa giurisprudenza del medesimo Consiglio di Stato, il quale, con la decisione della Sez. V, 5 maggio 2009, n. 2808, ha ricondotto la liberalizzazione del settore non al Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, ma al decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248.

Le censure di violazione ed elusione del giudicato devono pertanto essere respinte.

2.2 Quanto all’infondatezza della censura di cui al quarto motivo di violazione e falsa applicazione dell’art. 50 del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, per l’incompetenza del Sindaco ad adottare la disciplina locale dei pubblici esercizi, è sufficiente osservare che la competenza ad adottare tale tipo di ordinanze è attribuita specificatamente al Sindaco dall’art. 2, comma 1, della legge 5 gennaio 1996, n. 25, e la competenza del Sindaco ad esercitare le funzioni attribuitegli quale autorità locale nelle materie previste da specifiche disposizioni di legge è espressamente prevista dall’art. 50, comma 4, del Dlgs. 18 giugno 2000, n. 267.

3. Con il secondo motivo la Società ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 del Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, anche in relazione ai principi contenuti nel Trattato dell’Unione Europea e dell’art. 41 della Costituzione, perché il citato Dlgs. 114 ha abrogato la legge 25 agosto 1991, n. 287.

Si tratta di censure analoghe a quelle già esaminate e giudicate non fondate con le sentenze della Sezione 4 marzo 2010, n. 1495 e 13 dicembre 2010, n. 6450.

Come già osservato in quella sede per il loro esame è necessario svolgere alcune premesse di carattere generale.

Nell’ambito della materia del commercio la disciplina degli esercizi pubblici di somministrazione di alimenti e bevande ha storicamente sempre avuto una rilevanza autonoma:

– per la diversa natura della prestazione ricevuta dal consumatore che non si esaurisce nell’attività di rivendita di merci precedentemente acquistate, ma in un più complesso servizio, ove le materie prime sono spesso soltanto una componente talvolta marginale, che è ordinariamente usufruito in appositi locali dotati di attrezzature idonee a consentire la consumazione sul posto;

– per le peculiari problematiche legate alla natura dei prodotti venduti, atteso che dagli alimenti e dagli alcolici possono derivare diverse criticità per la sicurezza dei consumatori, per il contesto urbano o per l’ordine pubblico;

– per la funzione di aggregazione sociale svolta da tale tipologia di esercizi, cui si riconnettono le norme volte ad assicurare la sorvegliabilità dei locali e una speciale disciplina degli orari volta anche a prevenire pregiudizi per la quiete pubblica.

Tali elementi di specialità hanno impedito (ed impediscono tutt’ora) di ritenere il settore della somministrazione alimenti e bevande interamente sovrapponibile alla materia del commercio.

La stessa legge 11 giugno 1971, n. 426, sul commercio, al suo interno teneva separate le norme sul commercio in senso stretto, all’ingrosso ed al dettaglio, da quelle riguardanti la somministrazione al pubblico di alimenti o bevande in sede fissa.

In seguito i caratteri di specialità si sono accentuati con l’approvazione delle leggi 25 agosto 1991, n. 287 e 5 gennaio 1996, n. 25.

Il Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, ha liberalizzato la materia del commercio, ma non è intervenuto sul settore della somministrazione di alimenti e bevande, che ha continuato ad essere regolato sulla base dei principi del contingentamento e della programmazione economica previsti dalle leggi 25 agosto 1991, n. 287 e 5 gennaio 1996, n. 25.

Tale conclusione è confermata dalla definizione dell’ambito di applicazione del Dlgs. 114 cit. (l’art. 4, comma 1, lett. b, afferma che per "commercio al dettaglio" si intende "l’attività svolta da chiunque professionalmente acquista merci in nome e per conto proprio e le rivende, su aree private in sede fissa o mediante altre forme di distribuzione, direttamente al consumatore finale") e dalla mancata abrogazione espressa delle norme sulla somministrazione ad opera dell’art. 26, comma 6, del Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, il quale, all’opposto, menziona la legge 25 agosto 1991, n. 287, al solo fine di fare salve dall’abrogazione le norme in materia di iscrizione al registro degli esercenti il commercio per l’attività di somministrazione contenute nella legge 11 giugno 1971, n. 426, e del DPR 4 agosto 1988, n. 375, recante il relativo regolamento di esecuzione.

Può pertanto affermarsi che il Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, non ha abrogato la normativa relativa alla disciplina della somministrazione alimenti e bevande (cfr. Tar Veneto, Sez. III, 4 ottobre 2008, n. 3209).

In senso contrario si era espressa una pronuncia rimasta isolata (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 21 giugno 2007, n. 3330) e che deve intendersi superata sia dalla normativa statale e regionale sopravvenute (cfr. il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248 e la legge regionale 21 settembre 2007, n. 29), che dalla stessa giurisprudenza del medesimo Consiglio di Stato, il quale, con decisione della Sez. V, 5 maggio 2009, n. 2808, nell’applicare la medesima normativa ad una fattispecie del tutto analoga a quella precedentemente scrutinata, ha ricondotto l’effetto abrogativo della previgente normativa in materia di somministrazione alimenti e bevande non al Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, che riguarda il commercio, ma al decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248, che per sua espressa previsione si applica anche al settore dei pubblici esercizi di somministrazione di alimenti e bevande.

Ciò comporta che devono essere respinte le censure con le quali la Società ricorrente lamenta la violazione dei principi in materia di liberalizzazione previsti dal Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114.

4. E’ invece fondato e meritevole di accoglimento il settimo motivo di ricorso.

L’art. 38 della legge regionale 21 settembre 2007, n. 29 dispone che in materia di somministrazione di alimenti e bevande continuano ad applicarsi i parametri e i criteri vigenti alla data dell’entrata in vigore della legge regionale.

La Società ricorrente lamenta che il provvedimento impugnato abbia motivato il diniego richiamandosi in modo improprio e contraddittorio a tale norma, perché questa, contrariamente a quanto afferma il Comune, non può riferirsi ai parametri e criteri reintrodotti dall’ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007, adottata quando ormai erano già state abrogate dal decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248, le norme di legge che autorizzavano il contingentamento numerico, e l’ordinanza deve pertanto ritenersi illegittima.

4.2 La censura coglie nel segno e va accolta.

Il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248, all’art. 3, comma 1, ha disposto che, oltre alle attività commerciali come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, anche quelle di somministrazione di alimenti e bevande devono potersi svolgere senza "il rispetto di limiti riferiti a quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite a livello territoriale sub regionale"; all’art. 3, comma 3, ha abrogato dalla sua entrata in vigore, e cioè dal 4 luglio 2006 "le disposizioni legislative e regolamentari statali di disciplina del settore della distribuzione commerciale incompatibili con le disposizioni di cui al comma 1"; all’art. 3, comma 4, infine, ha disposto che "le regioni e gli enti locali adeguano le proprie disposizioni legislative e regolamentari ai principi e alle disposizioni di cui al comma 1 entro il 1 gennaio 2007".

Come ha ormai chiarito la giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 5 maggio 2009, n. 2808, che ha confermato Tar Lombardia, Milano, Sez. IV, 12 novembre 2007 n. 6259, ma vedi anche Tar Lazio, Roma, Sez. II, 6 ottobre 2010, n. 32688; Tar Sicilia, Palermo, Sez. III, 17 maggio 2010, n. 6884), per effetto di tali norme le disposizioni regionali e degli enti locali fondate sul rispetto di predeterminati limiti quantitativi non più compatibili con la legislazione statale in materia di concorrenza (che ai sensi dell’art. 117, primo comma, lett. e, della Costituzione e dell’art. 1, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131, prevale ed ha effetto abrogante delle difformi normative statali e locali anche di dettaglio) dal 1 gennaio 2007 hanno perso efficacia.

Successivamente al decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248, la Regione Veneto con legge regionale 21 settembre 2007, n. 29, pubblicata sul B.U.R. n. 84 del 25 settembre 2007, ha disciplinato l’esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande.

A regime, superato il periodo transitorio, la legge regionale ha previsto una programmazione comunale che non si richiama a limiti quantitativi, in quanto volta essenzialmente a "individuare le aree di particolare interesse storico ed artistico, incluse quelle di particolare interesse archeologico ed architettonico, nonché le aree di particolare interesse ambientale e quelle tipizzate da consolidate tradizioni locali nelle quali l’attività di somministrazione di alimenti e bevande è vietata o sottoposta a limitazioni per incompatibilità con la natura delle aree stesse" (in tali termini dispone l’art. 34).

Per quanto riguarda il regime transitorio, il citato art. 38 ha invece disposto che "fino all’adozione da parte dei comuni dei parametri e dei criteri di cui all’articolo 34, ai fini del rilascio delle autorizzazioni, continuano ad applicarsi i parametri e i criteri attualmente vigenti".

Questa Sezione, con ordinanza collegiale 9 gennaio 2009, n. 29, ha sollevato la questione della legittimità costituzionale della norma transitoria.

Nell’ordinanza il Collegio muovendo da un’interpretazione letterale della norma ha ritenuto che la medesima abbia avuto l’effetto di aver convalidato, rendendola applicabile fino all’adozione dei nuovi atti di programmazione comunale conformi alla normativa regionale sopravvenuta, l’ordinanza sindacale del Comune di Venezia n. 384 del 20 luglio 2007, che ha reintrodotto il contingentamento numerico dei pubblici esercizi e che è stata emanata successivamente al 1 gennaio 2007, data in cui si erano già prodotti gli effetti abrogativi del menzionato decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, in ciò violando i limiti propri della propria competenza legislativa regionale in materia di commercio e invadendo quelli statali in materia di tutela della concorrenza.

La Corte Costituzionale con ordinanza n. 339 del 24 novembre 2010, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione perché l’ordinanza di rimessione non ha dato conto delle "ragioni in virtù delle quali, nonostante l’ampia formulazione lessicale della disposizione, il richiamo dalla stessa operato ai parametri ed ai criteri "attualmente vigenti" debba essere riferito a quelli contenuti negli atti di programmazione comunali adottati anteriormente alla data della sua emanazione, anziché a quelli stabiliti dalla norma statale".

In tal modo la Corte ha anche indicato un’interpretazione adeguatrice della norma regionale avvalorandola da quanto emerge dall’esame dei lavori preparatori della legge "in considerazione dell’espresso richiamo operato nel corso degli stessi alla scelta "di mantenere una programmazione di settore di competenza comunale che, in ogni caso, segni il superamento dei semplici parametri numerici di cui alla legge n. 25 del 1996" (Relazione di accompagnamento al progetto di legge regionale n. 117, DGR 2/DDL del 17 gennaio 2006); in secondo luogo, per il fatto che la norma transitoria, nel testo contenuto nel disegno di legge, prevedeva che "fino all’adozione da parte dei comuni dei parametri e dei criteri di cui all’articolo 30, ai fini del rilascio delle autorizzazioni, continuano ad applicarsi i parametri numerici previsti dall’articolo 2, comma 1, della legge 5 gennaio 1996, n. 25" (art. 35, comma 1, del citato disegno di legge), mentre quest’ultimo inciso è stato, invece, significativamente sostituito con l’espressione "continuano ad applicarsi i parametri e i criteri attualmente vigenti" (art. 38, comma 1, della legge Regione Veneto n. 29 del 2007), e cioè con una locuzione suscettibile di evidenziare l’intento del legislatore regionale di escludere, anche in via transitoria, l’applicabilità del criterio della cui legittimità costituzionale dubita il TAR".

E’ evidente che dal punto di vista formale l’ordinanza di inammissibilità della Corte Costituzionale per insufficienza della motivazione dell’ordinanza di rimessione non costituisce, per la tipologia di pronuncia utilizzata, un vincolo circa le soluzioni interpretative da adottare.

Tuttavia nel caso all’esame le ragioni di inammissibilità formalmente processuali formulate dalla Corte contengono anche la sollecitazione a sperimentare la possibilità di una diversa interpretazione esente da dubbi di incostituzionalità, di cui la pronuncia della Corte Costituzionale si fa essa stessa latrice, e delle quali è pertanto necessario tener conto nel presente giudizio, concludendo nel senso che:

– dalla data del 1 gennaio 2007 devono ritenersi senz’altro abrogati e non più legittimamente proponibili limitazioni di programmazione economica di stampo dirigistico fondate sul rispetto di predeterminati limiti quantitativi non conformi al principio della libera concorrenza;

– sotto questo profilo l’ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007, in quanto intervenuta successivamente all’abrogazione delle norme che conferivano ai Sindaci il potere di svolgere in materia una attività di programmazione economica, deve essere dichiarata illegittima per la parte in cui ha riproposto questa tipologia di contingentamento;

– alla norma transitoria di cui all’art. 38 della legge regionale 21 settembre 2007, n. 29, intervenuta successivamente all’adozione dell’impugnata ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007, non può essere attribuito il significato di avere comportato la convalida di quest’ultima ordinanza, perché la norma di legge non si riferisce ai criteri e parametri previsti dalla disciplina comunale, ma a quelli vigenti previsti dalla normativa statale e, segnatamente, a quelli risultanti dalle abrogazioni implicite apportate dal decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248;

– dalla lettura dell’ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007, emerge che le restrizioni previste autonomamente per il Sestiere di San Marco, che si fondano su precedenti atti amministrativi, costituiscono limitazioni volte a tutelare interessi pubblici di carattere generale che, in quanto tali, non si pongono in una relazione di incompatibilità con le disposizioni previste dal decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248, e non devono pertanto ritenersi abrogate o illegittime (cfr. Tar Veneto, Sez. III, 21 aprile 2010, n. 1494, e 13 dicembre 2010, n. 6450; tale conclusione peraltro trova oggi conforto nell’art. 64 del Dlgs. 26 marzo 2010, n. 59).

In definitiva, assorbita ogni altra questione non espressamente esaminata, in accoglimento del settimo motivo di ricorso, deve essere parzialmente annullata l’ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007, nella parte in cui ha introdotto delle limitazioni non motivate da ragioni di tutela di interessi di carattere generale, e quindi per la parte in cui introduce limitazioni relative ad aree diverse da quelle comprese nel Sestiere di San Marco e, per il vizio di illegittimità derivata dedotto con il sesto motivo, deve essere annullato il diniego alla domanda proposta dalla Società ricorrente volta ad ottenere il rilascio di una nuova autorizzazione per l’insediamento di un pubblico esercizio di somministrazione di alimenti e bevande che riguarda un locale non ubicato nel Sestiere di San Marco.

La novità e complessità delle questioni trattate giustifica l’integrale compensazione delle spese tra le parti del giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, terza Sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo accoglie e, per l’effetto, annulla in parte, nel senso precisato in motivazione, l’ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007, nonché il provvedimento prot. n. 28534 del 22 gennaio 2009.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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