T.A.R. Veneto Venezia Sez. III, Sent., 04-08-2011, n. 1346

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Società ricorrente espone di essere proprietaria di un albergo sito a Venezia, nel Sestiere di Castello 3045, presso il quale è già attivo un esercizio di somministrazione di alimenti e bevande il cui accesso è consentito solo agli ospiti della struttura ricettiva, e di aver presentato il 21 settembre 2007 istanza al Comune di Venezia per il rilascio di una autorizzazione alla apertura di un esercizio di tipo "B" per rendere possibile l’offerta del servizio anche a clienti non alloggiati.

Con provvedimento prot. n. 405763 del 3 ottobre 2007, la domanda è stata respinta per il rilievo che il numero delle autorizzazioni è contingentato e non vi è disponibilità né di nuove licenze né di licenze derivanti da autorizzazioni cessate.

Con il ricorso originario tale diniego, unitamente agli atti connessi, è impugnato per le seguenti censure:

I) violazione dell’art. 10 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241;

II) difetto di istruttoria, contraddittorietà e travisamento per l’erronea indicazione delle esatte generalità del richiedente;

III) violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 del Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, dell’art. 41 della Costituzione e del principio del giudicato in relazione alla decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 21 giugno 2007, n. 3330;

IV) violazione e falsa applicazione dell’art. 3 del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248;

V) insufficienza e genericità della motivazione, difetto di istruttoria e violazione dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 e dell’art. 2 della legge 5 gennaio 1996, n. 25, per la mancata attualizzazione dei parametri numerici;

VI) violazione e falsa applicazione dell’art. 5 della legge 25 agosto 1991, n. 287, difetto di motivazione, difetto di presupposti, illogicità, irragionevolezza, perplessità, contraddittorietà, travisamento ed erronea valutazione dei fatti per la mancata considerazione che l’aumento delle attività di tipo artigianale non è idonea ad incidere sulla valutazione della congruità dell’offerta di servizi non assimilabili a tale attività.

Si è costituito in giudizio il Comune di Venezia il quale, alla Camera di consiglio fissata per l’esame della domanda cautelare, ha depositato in giudizio il provvedimento prot. n. 2007.495953 del 28 novembre 2007, con il quale è stato annullato in autotutela il precedente diniego, che si richiamava al contingentamento disposto con ordinanza sindacale prot. n. 36876 del 17 marzo 1997, annullata dalla decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 21 giugno 2007, n. 3330, e sulla base della nuova ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007, ha formulato un nuovo diniego.

L’ordinanza da ultimo citata ha reintrodotto per l’intero territorio comunale il contingentamento numerico delle licenze, prevedendo che le autorizzazioni di pubblico esercizio possano essere rilasciate solo nei casi di cessazione, revoca o decadenza, e ponendo particolari limitazioni relativamente al Sestiere di San Marco, che rappresenta l’area di maggiore interesse storico artistico della città, ai fini della salvaguardia a tutela dei beni culturali ed ambientali e dell’incontrollata espansione in tale area di attività monoculturali legate al turismo.

Con motivi aggiunti il nuovo diniego, unitamente all’atto presupposto costituito dall’ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007, e ad altri atti ritenuti connessi, è impugnato per le seguenti censure:

I) violazione dell’art. 10 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241;

II) violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 del Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, dell’art. 41 della Costituzione e del giudicato costituito dalla decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 21 giugno 2007, n. 3330;

III) violazione dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, contraddittorietà e perplessità;

IV) elusione della decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 21 giugno 2007, n. 3330;

V) violazione e falsa applicazione dell’art. 3 del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248;

VI) insufficienza e genericità della motivazione, difetto di istruttoria e violazione dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 e dell’art. 2 della legge 5 gennaio 1996, n. 25, per la mancata attualizzazione dei parametri numerici;

VII) contraddittorietà, illogicità e disparità di trattamento per l’omessa considerazione della qualità del servizio che può essere reso dal bar dell’hotel che rimane aperto oltre le ore 22.

Alla pubblica udienza del 13 marzo 2008, il Collegio ha ritenuto che, seppure ad una sommaria delibazione, nonostante potessero rivelarsi fondate e meritevoli di accoglimento le censure di cui al quinto dei motivi aggiunti, il ricorso non avrebbe comunque potuto essere accolto, in quanto con legge regionale 21 settembre 2007, n. 29, era stato reintrodotto un sistema di contingentamento numerico delle licenze.

Con ordinanza della Sezione 10 luglio 2008, n. 1979, è stata quindi rimessa alla Corte Costituzionale la questione della conformità o meno a Costituzione delle norme di cui agli artt. 33, 34 e 38 della legge regionale 21 settembre 2007, n. 29.

La Corte Costituzionale con ordinanza 24 aprile 2009, n. 122, ha dichiarato la questione manifestamente inammissibile per mancanza di rilevanza nel giudizio a quo relativamente agli artt. 33 e 34, e manifestamente inammissibile per un non adeguato sviluppo argomentativo del denunciato contrasto con i parametri costituzionali invocati relativamente alla norma transitoria di cui all’art. 38 della legge regionale.

Nel frattempo la Sezione, in altro giudizio, con ordinanza 9 gennaio 2009, n. 29, ha nuovamente sollevato con diversa motivazione la questione di legittimità costituzionale del solo art. 38 della legge regionale 21 settembre 2007, n. 29.

Alla pubblica udienza del 21 gennaio 2010, fissata per la trattazione nel merito del ricorso in epigrafe, con ordinanza n. 16 del 10 febbraio 2010, la Sezione ha disposto la sospensione del processo in attesa della definizione da parte della Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale.

La Corte Costituzionale con ordinanza 24 novembre 2010, n. 339, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione indicando tuttavia un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma.

Alla pubblica udienza del 9 giugno 2011, la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

1. Preliminarmente deve essere dichiarata l’improcedibilità del ricorso originario perché è stato proposto avverso il primo diniego, annullato in autotutela dal secondo diniego impugnato con i motivi aggiunti, e non residua pertanto alcun interesse o utilità alla sua definizione.

2. Nel merito il ricorso è fondato nel senso di seguito illustrato.

2.1 Non è fondata e deve essere respinta la censura proposta con diverse argomentazioni al secondo, terzo e quarto dei motivi aggiunti con la quale la Società ricorrente lamenta la violazione o l’elusione del giudicato o comunque delle statuizioni contenute nella decisione del Consiglio di Stato Sez. V, 21 giugno 2007, n. 3330.

La censura è analoga a quella già scrutinata e respinta con le sentenze della Sezione 14 ottobre 2008, n. 3209, 21 aprile 2010, n. 1494, e 13 dicembre 2010, n. 6450, le cui considerazioni ad avviso del Collegio sono condivisibili non essendo sufficienti, per una soluzione di segno opposto, le tesi prospettate nell’odierno giudizio dalla Società ricorrente, che in parte debbono peraltro ritenersi superate dalla sopravvenuta decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 5 maggio 2009, n. 2808.

Al fine di rendere più chiaro il significato della tesi prospettata dalla ricorrente è necessario premettere che, con deliberazione consiliare 4 maggio 1993, n. 70, il Comune di Venezia aveva demandato al Sindaco la definizione del numero di nuovi pubblici esercizi autorizzabili in ciascuna delle tre macrozone del territorio comunale (costituite dal Centro storico, l’Estuario e la Terraferma).

In seguito l’ordinanza sindacale 17 marzo 1997, n. 36876, confermate le tre macrozone, aveva rideterminato il numero di autorizzazioni assentibili.

La predetta deliberazione consiliare e, in via derivata l’ordinanza sindacale, sono state annullate dalla citata decisione 21 giugno 2007, n. 3330, della V Sezione del Consiglio di Stato, per la considerazione che il Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, recante la riforma della disciplina concernente il settore del commercio, avrebbe tacitamente abrogato per incompatibilità tutte le disposizioni su cui si fondava il contingentamento degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande.

Il Comune di Venezia, ritenendo non condivisibili le argomentazioni della decisione, con l’ordinanza sindacale 20 luglio 2007, n. 384, ha disposto che nel territorio del Comune possono essere rilasciate nuove autorizzazioni di pubblico esercizio esclusivamente nei casi di cessazione, revoca o decadenza.

La tesi che l’ordinanza sindacale 20 luglio 2007, n. 384 comporterebbe una violazione o elusione del giudicato non può essere condivisa, in quanto muove da un’erronea commistione tra quelli che sono gli effetti caducatori derivanti dall’annullamento dell’atto indivisibile a contenuto generale, i quali, pur senza intaccare il potere dell’Amministrazione di provvedere, espandono la propria efficacia erga omnes, e gli effetti conformativi del giudicato, che statuiscono vincoli e limiti alla successiva azione amministrativa, producendo effetti preclusivi – e vietando pertanto di assumere nuovi provvedimenti di contenuto analogo a quelli annullati – solo nei confronti di coloro che sono stati parti in quel giudizio.

Infatti, come è stato osservato (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 15 giugno 2004, n. 3939) "la sfera di efficacia soggettiva di una pronuncia giurisdizionale amministrativa di annullamento va differenziatamente individuata a seconda che si abbia riguardo alla sua parte dispositiva – cassatoria dell’atto, ovvero a quella ordinatoria – prescrittiva, statuente limiti e vincoli per la successiva azione dell’Amministrazione. Infatti, in ordine alla prima parte, in quanto comportante l’eliminazione dal mondo giuridico di una entità obiettiva quale il provvedimento impugnato, la pronuncia non può che operare, necessariamente, erga omnes, essendo l’istituto dell’annullamento ontologicamente insuscettibile di produrre la caducazione di un atto per taluni e non per altri (fenomeno, questo, cui è nell’ordinamento preordinato il diverso istituto della disapplicazione degli atti illegittimi, quale notoriamente contemplato dagli artt. 4 e 5 L. 20 marzo 1865 n. 2248, all. E; circa la sfera soggettiva di efficacia delle decisioni di annullamento nella parte cassatoria, cfr. in particolare Cons. Stato, V Sez., 28 dicembre 1989 n. 910; V Sez., 1 marzo 1989 n. 153; V Sez., 25 novembre 1988 n. 749; VI Sez., 12 maggio 1981 n. 211; VI Sez., 16 febbraio 1979 n. 81; VI Sez., 24 ottobre 1978 n. 1093; VI Sez., 12 maggio 1978 n. 628). Al contrario, relativamente alla parte ordinatoria – prescrittiva, la pronuncia si atteggia come tipicamente inerente al rapporto giuridico dedotto in giudizio (al rapporto, cioè, corrente tra la potestà pubblica riguardata, segnatamente, nei limiti di legittimità imposti alla sua esplicazione e l’interesse legittimo della parte privata azionato), che viene esaminato ed in ordine al quale prescrizioni e vincoli sono posti negli stretti limiti degli interessi sostanziali fatti valere dall’istante, delle censure dedotte e delle contrapposte eccezioni sollevate. Donde l’applicabilità in parte qua, per ragioni ermeneutiche e sistematiche suffragate dal canone costituzionale di cui all’art. 24, primo comma, Cost., del principio proprio delle pronunce giurisdizionali civili – pur esse, di norma, tipicamente inerenti a rapporti – secondo cui il giudicato fa stato unicamente fra le parti, i loro eredi ed aventi causa ( art. 2909 Cod. civ.; cfr. in questo senso: Cons. Stato, IV Sez., 6 marzo 1990 n. 169)".

Pertanto, riferendosi agli atti oggetto d’impugnazione in questa sede, non è corretto affermare che essi siano stati emessi in violazione ovvero in elusione del giudicato formatosi a seguito della decisione della V Sezione del Consiglio di Stato 21 giugno 2007, n. 3330, atteso che il Comune, com’era nei suoi poteri, rispetto a soggetti che, come la parte ricorrente dell’odierna controversia, non erano parti in quel giudizio, ha deciso di non recepire l’interpretazione proposta dal Consiglio di Stato con quella che, allo stato, resta una decisione isolata, che deve peraltro intendersi superata sia dalla normativa statale e regionale sopravvenute, quali il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248 e la legge regionale 21 settembre 2007, n. 29, che dalla stessa giurisprudenza del medesimo Consiglio di Stato, il quale, con la decisione della Sez. V, 5 maggio 2009, n. 2808, ha ricondotto la liberalizzazione del settore non al Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, ma al decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248.

Le censure di violazione ed elusione del giudicato devono pertanto essere respinte.

3. Nell’ambito del secondo dei motivi aggiunti la Società ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 del Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, anche in relazione ai principi contenuti nel Trattato dell’Unione Europea e dell’art. 41 della Costituzione, perché il citato Dlgs. 114 ha abrogato la legge 25 agosto 1991, n. 287.

Si tratta di censure analoghe a quelle già esaminate e giudicate non fondate con le sentenze della Sezione 4 marzo 2010, n. 1495 e 13 dicembre 2010, n. 6450.

Come già osservato in quella sede per il loro esame è necessario svolgere alcune premesse di carattere generale.

Nell’ambito della materia del commercio la disciplina degli esercizi pubblici di somministrazione di alimenti e bevande ha storicamente sempre avuto una rilevanza autonoma:

– per la diversa natura della prestazione ricevuta dal consumatore che non si esaurisce nell’attività di rivendita di merci precedentemente acquistate, ma in un più complesso servizio, ove le materie prime sono spesso soltanto una componente talvolta marginale, che è ordinariamente usufruito in appositi locali dotati di attrezzature idonee a consentire la consumazione sul posto;

– per le peculiari problematiche legate alla natura dei prodotti venduti, atteso che dagli alimenti e dagli alcolici possono derivare diverse criticità per la sicurezza dei consumatori, per il contesto urbano o per l’ordine pubblico;

– per la funzione di aggregazione sociale svolta da tale tipologia di esercizi, cui si riconnettono le norme volte ad assicurare la sorvegliabilità dei locali e una speciale disciplina degli orari volta anche a prevenire pregiudizi per la quiete pubblica.

Tali elementi di specialità hanno impedito (ed impediscono tutt’ora) di ritenere il settore della somministrazione alimenti e bevande interamente sovrapponibile alla materia del commercio.

La stessa legge 11 giugno 1971, n. 426, sul commercio, al suo interno teneva separate le norme sul commercio in senso stretto, all’ingrosso ed al dettaglio, da quelle riguardanti la somministrazione al pubblico di alimenti o bevande in sede fissa.

In seguito i caratteri di specialità si sono accentuati con l’approvazione delle leggi 25 agosto 1991, n. 287 e 5 gennaio 1996, n. 25.

Il Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, ha liberalizzato la materia del commercio, ma non è intervenuto sul settore della somministrazione di alimenti e bevande, che ha continuato ad essere regolato sulla base dei principi del contingentamento e della programmazione economica previsti dalle leggi 25 agosto 1991, n. 287 e 5 gennaio 1996, n. 25.

Tale conclusione è confermata dalla definizione dell’ambito di applicazione del Dlgs. 114 cit. (l’art. 4, comma 1, lett. b, afferma che per "commercio al dettaglio" si intende "l’attività svolta da chiunque professionalmente acquista merci in nome e per conto proprio e le rivende, su aree private in sede fissa o mediante altre forme di distribuzione, direttamente al consumatore finale") e dalla mancata abrogazione espressa delle norme sulla somministrazione ad opera dell’art. 26, comma 6, del Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, il quale, all’opposto, menziona la legge 25 agosto 1991, n. 287, al solo fine di fare salve dall’abrogazione le norme in materia di iscrizione al registro degli esercenti il commercio per l’attività di somministrazione contenute nella legge 11 giugno 1971, n. 426, e del DPR 4 agosto 1988, n. 375, recante il relativo regolamento di esecuzione.

Può pertanto affermarsi che il Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, non ha abrogato la normativa relativa alla disciplina della somministrazione alimenti e bevande (cfr. Tar Veneto, Sez. III, 4 ottobre 2008, n. 3209).

In senso contrario si era espressa una pronuncia rimasta isolata (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 21 giugno 2007, n. 3330) e che deve intendersi superata sia dalla normativa statale e regionale sopravvenute (cfr. il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248 e la legge regionale 21 settembre 2007, n. 29), che dalla stessa giurisprudenza del medesimo Consiglio di Stato, il quale, con decisione della Sez. V, 5 maggio 2009, n. 2808, nell’applicare la medesima normativa ad una fattispecie del tutto analoga a quella precedentemente scrutinata, ha ricondotto l’effetto abrogativo della previgente normativa in materia di somministrazione alimenti e bevande non al Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, che riguarda il commercio, ma al decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248, che per sua espressa previsione si applica anche al settore dei pubblici esercizi di somministrazione di alimenti e bevande.

Ciò comporta che devono essere respinte le censure con le quali la Società ricorrente lamenta la violazione dei principi in materia di liberalizzazione previsti dal Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114.

4. E’ invece fondato e meritevole di accoglimento il quinto dei motivi aggiunti, con il quale la Società ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248.

Il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248, all’art. 3, comma 1, ha disposto che, oltre alle attività commerciali come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, anche quelle di somministrazione di alimenti e bevande devono potersi svolgere senza "il rispetto di limiti riferiti a quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite a livello territoriale sub regionale"; all’art. 3, comma 3, ha abrogato dalla sua entrata in vigore, e cioè dal 4 luglio 2006 "le disposizioni legislative e regolamentari statali di disciplina del settore della distribuzione commerciale incompatibili con le disposizioni di cui al comma 1"; all’art. 3, comma 4, infine, ha disposto che "le regioni e gli enti locali adeguano le proprie disposizioni legislative e regolamentari ai principi e alle disposizioni di cui al comma 1 entro il 1 gennaio 2007".

Come ha ormai chiarito la giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 5 maggio 2009, n. 2808, che ha confermato Tar Lombardia, Milano, Sez. IV, 12 novembre 2007 n. 6259, ma vedi anche Tar Lazio, Roma, Sez. II, 6 ottobre 2010, n. 32688; Tar Sicilia, Palermo, Sez. III, 17 maggio 2010, n. 6884), per effetto di tali norme le disposizioni regionali e degli enti locali fondate sul rispetto di predeterminati limiti quantitativi non più compatibili con la legislazione statale in materia di concorrenza (che ai sensi dell’art. 117, primo comma, lett. e, della Costituzione e dell’art. 1, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131, prevale ed ha effetto abrogante delle difformi normative statali e locali anche di dettaglio) dal 1 gennaio 2007 hanno perso efficacia.

Successivamente al decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248, la Regione Veneto con legge regionale 21 settembre 2007, n. 29, pubblicata sul B.U.R. n. 84 del 25 settembre 2007, ha disciplinato l’esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande.

A regime, superato il periodo transitorio, la legge regionale ha previsto una programmazione comunale che non si richiama a limiti quantitativi, in quanto volta essenzialmente a "individuare le aree di particolare interesse storico ed artistico, incluse quelle di particolare interesse archeologico ed architettonico, nonché le aree di particolare interesse ambientale e quelle tipizzate da consolidate tradizioni locali nelle quali l’attività di somministrazione di alimenti e bevande è vietata o sottoposta a limitazioni per incompatibilità con la natura delle aree stesse" (in tali termini dispone l’art. 34).

Per quanto riguarda il regime transitorio, il citato art. 38 ha invece disposto che "fino all’adozione da parte dei comuni dei parametri e dei criteri di cui all’articolo 34, ai fini del rilascio delle autorizzazioni, continuano ad applicarsi i parametri e i criteri attualmente vigenti".

Questa Sezione, come ricordato nella narrativa in fatto, con ordinanza collegiale 9 gennaio 2009, n. 29, ha sollevato la questione della legittimità costituzionale della norma transitoria.

Nell’ordinanza il Collegio muovendo da un’interpretazione letterale della norma ha ritenuto che la medesima abbia avuto l’effetto di aver convalidato, rendendola applicabile fino all’adozione dei nuovi atti di programmazione comunale conformi alla normativa regionale sopravvenuta, l’ordinanza sindacale del Comune di Venezia n. 384 del 20 luglio 2007, che ha reintrodotto il contingentamento numerico dei pubblici esercizi e che è stata emanata successivamente al 1 gennaio 2007, data in cui si erano già prodotti gli effetti abrogativi del menzionato decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, in ciò violando i limiti propri della propria competenza legislativa regionale in materia di commercio e invadendo quelli statali in materia di tutela della concorrenza.

La Corte Costituzionale con ordinanza n. 339 del 24 novembre 2010, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione perché l’ordinanza di rimessione non ha dato conto delle "ragioni in virtù delle quali, nonostante l’ampia formulazione lessicale della disposizione, il richiamo dalla stessa operato ai parametri ed ai criteri "attualmente vigenti" debba essere riferito a quelli contenuti negli atti di programmazione comunali adottati anteriormente alla data della sua emanazione, anziché a quelli stabiliti dalla norma statale".

In tal modo la Corte ha anche indicato un’interpretazione adeguatrice della norma regionale avvalorandola da quanto emerge dall’esame dei lavori preparatori della legge "in considerazione dell’espresso richiamo operato nel corso degli stessi alla scelta "di mantenere una programmazione di settore di competenza comunale che, in ogni caso, segni il superamento dei semplici parametri numerici di cui alla legge n. 25 del 1996" (Relazione di accompagnamento al progetto di legge regionale n. 117, DGR 2/DDL del 17 gennaio 2006); in secondo luogo, per il fatto che la norma transitoria, nel testo contenuto nel disegno di legge, prevedeva che "fino all’adozione da parte dei comuni dei parametri e dei criteri di cui all’articolo 30, ai fini del rilascio delle autorizzazioni, continuano ad applicarsi i parametri numerici previsti dall’articolo 2, comma 1, della legge 5 gennaio 1996, n. 25" (art. 35, comma 1, del citato disegno di legge), mentre quest’ultimo inciso è stato, invece, significativamente sostituito con l’espressione "continuano ad applicarsi i parametri e i criteri attualmente vigenti" (art. 38, comma 1, della legge Regione Veneto n. 29 del 2007), e cioè con una locuzione suscettibile di evidenziare l’intento del legislatore regionale di escludere, anche in via transitoria, l’applicabilità del criterio della cui legittimità costituzionale dubita il TAR".

E’ evidente che dal punto di vista formale l’ordinanza di inammissibilità della Corte Costituzionale per insufficienza della motivazione dell’ordinanza di rimessione non costituisce, per la tipologia di pronuncia utilizzata, un vincolo circa le soluzioni interpretative da adottare.

Tuttavia nel caso all’esame le ragioni di inammissibilità formalmente processuali formulate dalla Corte contengono anche la sollecitazione a sperimentare la possibilità di una diversa interpretazione esente da dubbi di incostituzionalità, di cui la pronuncia della Corte Costituzionale si fa essa stessa latrice, e delle quali è pertanto necessario tener conto nel presente giudizio, concludendo nel senso che:

– dalla data del 1 gennaio 2007 devono ritenersi senz’altro abrogati e non più legittimamente proponibili limitazioni di programmazione economica di stampo dirigistico fondate sul rispetto di predeterminati limiti quantitativi non conformi al principio della libera concorrenza;

– sotto questo profilo l’ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007, in quanto intervenuta successivamente all’abrogazione delle norme che conferivano ai Sindaci il potere di svolgere in materia una attività di programmazione economica, deve essere dichiarata illegittima per la parte in cui ha riproposto questa tipologia di contingentamento;

– alla norma transitoria di cui all’art. 38 della legge regionale 21 settembre 2007, n. 29, intervenuta successivamente all’adozione dell’impugnata ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007, non può essere attribuito il significato di avere comportato la convalida di quest’ultima ordinanza, perché la norma di legge non si riferisce ai criteri e parametri previsti dalla disciplina comunale, ma a quelli vigenti previsti dalla normativa statale e, segnatamente, a quelli risultanti dalle abrogazioni implicite apportate dal decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248;

– dalla lettura dell’ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007, emerge che le restrizioni previste autonomamente per il Sestiere di San Marco, che si fondano su precedenti atti amministrativi, costituiscono limitazioni volte a tutelare interessi pubblici di carattere generale che, in quanto tali, non si pongono in una relazione di incompatibilità con le disposizioni previste dal decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248, e non devono pertanto ritenersi abrogate o illegittime (cfr. Tar Veneto, Sez. III, 21 aprile 2010, n. 1494, e 13 dicembre 2010, n. 6450; tale conclusione peraltro trova oggi conforto nell’art. 64 del Dlgs. 26 marzo 2010, n. 59).

In definitiva, assorbita ogni altra questione non espressamente esaminata, in accoglimento del quinto dei motivi aggiunti, deve essere parzialmente annullata l’ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007, nella parte in cui ha introdotto delle limitazioni non motivate da ragioni di tutela di interessi di carattere generale, e quindi per la parte in cui introduce limitazioni relative ad aree diverse da quelle comprese nel Sestiere di San Marco e conseguentemente deve essere annullato il diniego alla domanda proposta dalla Società ricorrente volta ad ottenere il rilascio di una nuova autorizzazione per l’insediamento di un pubblico esercizio di somministrazione di alimenti e bevande che riguarda un locale non ubicato nel Sestiere di San Marco, che si fonda sulla predetta ordinanza.

Deve invece essere respinta la domanda di risarcimento dei danni subiti, in quanto la vicenda all’esame si è caratterizzata per la presenza di elementi che conducono ad escludere, in base a criteri oggettivi, la sussistenza in capo al Comune dei requisiti minimi di imputazione e di rimproverabilità del fatto complessivamente considerato, cosicché il danno che si è determinato risulta addebitabile ad un errore scusabile circa la permanenza o meno della possibilità per l’ente locale di mantenere il contingentamento numerico delle licenze.

Si è infatti manifestata un’obiettiva oscurità dei testi normativi (infatti il Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, non ha espressamente definito il proprio ambito di applicazione in relazione al settore degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, così come la legge regionale 21 settembre 2007, n. 29, non ha chiarito in modo espresso il significato da attribuire alla norma transitoria rispetto al decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248, e questo, a sua volta, non ha operato abrogazioni espresse della precedente disciplina del settore), non vi è stata omogeneità negli orientamenti interpretativi espressi dagli organi giudiziari (la decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 21 giugno 2007, n. 3330 ha ricondotto la liberalizzazione del settore al Dlgs. 31 marzo 1998, n. 114, mentre la decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 5 maggio 2009, n. 2808, l’ha ricondotta al decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248), e si sono registrate anche positive azioni di soggetti istituzionalmente competenti in materia, volte ad attribuire al decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248, il significato di non aver comportato il superamento del contingentamento numerico degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande (cfr. la circolare n. 3603 del 28 settembre 2006 e la risoluzione del 10 ottobre 2006, n. 8791 del Ministero Attività produttive, nonché la circolare regionale n. 3 del 31 dicembre 2007).

Esclusa l’addebitabilità al Comune del danno per carenza dell’elemento soggettivo, la domanda di risarcimento deve essere respinta.

La novità e complessità delle questioni trattate giustificano l’integrale compensazione delle spese tra le parti del giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, terza Sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo dichiara improcedibile relativamente al ricorso originario, accoglie i motivi aggiunti e, per l’effetto, annulla in parte, nel senso precisato in motivazione, l’ordinanza sindacale n. 384 del 20 luglio 2007, nonché il provvedimento 28 novembre 2007, prot. 2007.495953, e respinge la domanda di risarcimento.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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