Cons. Stato Sez. V, Sent., 05-08-2011, n. 4704 Infermità per causa di servizio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, Catanzaro, sez. II, con la sentenza n. 228 del 5 febbraio 2004, ha dichiarato inammissibile, per intervenuta decadenza, il ricorso proposto dall’odierno appellante per il riconoscimento del proprio diritto alla percezione dell’equo indennizzo per menomazione ascrivibile alla categoria sesta della tabella A, nonché del diritto di usufruire, quale invalido civile con menomazioni ascrivibili alla sesta categoria, dei benefici previsti per i mutilati ed invalidi di guerra dal R.D. 30 settembre 1922 n. 1290.

Il TAR fondava la sua decisione rilevando che la controversia era correlata ad un rapporto di lavoro instaurato con una pubblica amministrazione devoluto alla giurisdizione del giudice ordinario.

Rilevava ancora il TAR che l’art. 45, comma 17, del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 80, vigente all’epoca della proposizione del ricorso, prevedeva l’attribuzione al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, delle controversie di cui all’art. 68 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, relativo a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998. Le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore a tale data, infatti, restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e devono essere proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000 (formula sostanzialmente analoga all’attuale art. 69, comma 7, d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165).

Poiché, dunque, il legislatore del 1998 ha previsto un termine di decadenza, quello del 15 settembre 2000, per la proposizione della domanda innanzi al giudice amministrativo e, nel caso di specie, il ricorso risulta notificato in data 14 settembre 2000, prima del termine indicato, ma il deposito è stato effettuato solo il 4 ottobre 2000, oltre il detto termine, il TAR ha ritenuta verificata l’anzidetta decadenza.

Secondo l’appellante, tale termine riguarderebbe, invece, la sola notifica del ricorso, non anche il deposito.

Si costituiva l’appellato chiedendo il rigetto dell’appello.

All’udienza pubblica del 28 giugno 2011 la causa veniva trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

Ritiene il Collegio che la sentenza qui gravata debba essere riformata per la parte relativa alla riconosciuta decadenza dall’azione.

Infatti, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, ormai consolidatasi, ai sensi dell’art. 69 comma 7, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, i ricorsi devono essere solo notificati entro il termine di decadenza del 15 settembre 2000 e non anche depositati (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 27 gennaio 2011, n. 625 e Consiglio di Stato, sez. VI, 21 dicembre 2010, n. 9309).

Con una decisione assai recente (18 febbraio 2009 n. 946), la IV Sezione del Consiglio di Stato ha, infatti, esaminato approfonditamente il significato da attribuire al termine del 15 settembre 2000, pervenendo alla conclusione favorevole all’appellante.

In sintesi, la scadenza del 15 settembre 2000 non pone affatto un problema di giurisdizione, in quanto si tratta di un termine di decadenza sostanziale per la proponibilità davanti al giudice amministrativo di domande giudiziali riguardanti controversie pacificamente rientranti nella giurisdizione di quest’ultimo perché relative a questioni attinenti al rapporto di lavoro anteriori al 30 giugno 1998. Data, quest’ultima, che rappresenta l’effettivo momento di passaggio della giurisdizione dall’uno all’altro giudice.

La questione è assolutamente pacifica ed in tal senso si sono pronunciati sia la Corte Costituzionale (26 maggio 2005, n. 213), sia la Corte di Cassazione (Sez. Un., 15 gennaio 2007, n. 616), sia questo Consiglio di Stato, che, in particolare, ha precisato come la norma ha stabilito il termine del 15 settembre 2000 non al fine di delimitare il rapporto tra giurisdizione amministrativa ed ordinaria, bensì allo scopo di fissare un limite interno alla giurisdizione amministrativa nell’ottica della previsione di una decadenza sostanziale dall’azione (Consiglio di Stato, sez. VI, 27 giugno 2005, n. 3394).

Assodato, quindi, che il problema riguarda solo la possibile decadenza dell’azione proposta dalla ricorrente, va ricordato che il momento in cui la controversia debba intendersi proposta è questione non del tutto pacifica.

Nel senso indicato dalla sentenza appellata vi sono, oltre a numerose pronunce di primo grado, anche due decisioni della Quarta Sezione del Consiglio Stato, 31 maggio 2007, n. 2796 e 16 luglio 2007, n. 4002, che muovono dall’orientamento tradizionale, secondo i quale nel processo amministrativo il rapporto processuale può considerarsi instaurato solo all’esito dell’adempimento dell’onere del deposito, non essendo sufficiente il completamento entro detto termine della sola procedura di notifica.

L’assunto riecheggia una ben nota teoria, formatasi intorno alla metà del secolo scorso, secondo la quale nel processo amministrativo, a differenza che nel processo civile, il rapporto processuale è retto dallo schema della vocatio iudicis e non da quello della vocatio in ius. Da ciò dovrebbe derivare l’inapplicabilità, al giudizio amministrativo, dell’art. 39 c.p.c., il cui ultimo comma, fa decorrere la litispendenza dalla notificazione della citazione.

L’assunto, però, è smentito dalla prevalente giurisprudenza amministrativa decisamente schierata nel senso che al fine della corretta discriminazione dei limiti temporali per l’individuazione della giurisdizione in materia di controversie attinenti al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, deve farsi riferimento alla data di notifica dell’atto introduttivo di giudizio e non a quella del successivo perfezionamento del rapporto processuale che si realizza con il deposito del ricorso.

Ed è proprio questo secondo orientamento che è ritenuto diritto vivente dal giudice delle leggi, il quale, a sua volta, ha avuto modo di precisare come nei giudizi a quibus è infatti palesemente irrilevante la previsione di un termine di decadenza, fissato nel 15 settembre 2000, per la proposizione di controversie introdotte con ricorsi notificati anteriormente a detto termine, pur se depositati in data ad esso successiva, giacché, per principio generale del processo, ribadito dalla legge disciplinatrice del processo amministrativo, la controversia deve ritenersi proposta e, conseguentemente, impedita ogni decadenza, con la notifica del ricorso, assumendo il deposito del ricorso rilevanza esclusivamente al fine della sua procedibilità (Corte Costituzionale, 26 maggio 2005, n. 213).

Deve essere ricordato, infatti, che, secondo la Corte costituzionale, al fine della corretta discriminazione dei limiti temporali per l’individuazione della giurisdizione in materia di controversie attinenti al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, deve farsi riferimento alla data di notifica dell’atto introduttivo di giudizio e non a quella del successivo perfezionamento del rapporto processuale che si realizza con il deposito del ricorso, in quanto il richiamo contenuto nell’art. 45, comma 17, seconda parte, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 (e poi nell’art. 69 comma 7, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165) alla data del 15 settembre 2000, deve considerarsi come termine di decadenza per la proponibilità della domanda giudiziale e non come limite temporale della persistenza della giurisdizione.

Il Collegio ritiene di dover aderire alla giurisprudenza prevalente (nello stesso senso anche Consiglio di Stato, sez. VI, 8 agosto 2008, n. 3909; sez. V, 21 giugno 2007, n. 3390; sez. VI, 20 febbraio 2007, n. 911; sez. IV, 3 aprile 2006, n. 1712; sez. VI, 27 giugno 2005; n. 3394 e sez. IV, 14 giugno 2005; n. 3120), in quanto la tesi che, sotto il profilo logicogiuridico, fa discendere dalla scelta del modello processuale c.d. da ricorso la conseguenza che il rapporto processuale si costituirebbe soltanto con il deposito del ricorso e non con la sua notificazione, non considera che la chiave di soluzione del problema sta nello stabilire non il momento in cui il giudice viene concretamente investito dell’onere di decidere la controversia, ma il momento in cui, alla stregua delle norme processuali, debba intendersi concretamente esercitato il diritto d’azione. Diritto, che aldilà della sua connotazione formale, si ricollega, sul piano sostanziale, alla situazione giuridica soggettiva che costituisce il titolo della domanda giudiziale, secondo la formula solenne contenuta nell’art. 24 della Costituzione, in forza del quale tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi.

Ora, se l’azione deve essere intesa come il diritto potestativo di ottenere, non già una sentenza favorevole, bensì una decisione di merito (Cassazione civile, sez. I, 29 settembre 2006, n. 21192), sfuggono le ragioni del perché nel processo civile, sia pur ispirato al modello della vocatio in ius, l’esercizio di tale potere si manifesta con la notifica della citazione, dell’atto cioè con cui l’attore formula la domanda giudiziale e chiama il soggetto che egli assume essere legittimato passivamente a comparire davanti al giudice e, invece, nel processo amministrativo, per il solo fatto che questo è ispirato al modello della vocatio iudicis debba attendersi, per ciò solo, anche l’ulteriore adempimento del deposito del ricorso.

Dal punto di vista strutturale, infatti, i due modelli, per quel che qui interessa, non divergono in modo significativo, perché sia nel processo amministrativo che in quello civile da citazione il giudice in realtà è concretamente investito della controversia solo successivamente alla notifica dell’atto introduttivo del giudizio.

Se a ciò si aggiunga che anche il processo civile conosce procedimenti costruiti sul modello della vocatio iudicis, quale quello di ingiunzione, nei quali la pendenza della lite è sempre determinata dalla notificazione del ricorso alla controparte (art. 643, comma 3, c.p.c), ed il fatto che, nel processo amministrativo, la qualità di parte si acquista indubbiamente al momento della notificazione del ricorso, tanto è vero che, ove il ricorrente non provveda al deposito del ricorso, può farlo autonomamente il legittimato passivo, non fosse altro che per chiedere al giudice di dichiararlo inammissibile, si può agevolmente concludere nel senso che, come precisato dalla Corte Costituzionale, per principio generale del processo, ribadito dalla legge disciplinatrice del processo amministrativo, la controversia deve ritenersi proposta e, conseguentemente, impedita ogni decadenza, con la notifica del ricorso, assumendo il deposito del ricorso rilevanza esclusivamente al fine della sua procedibilità.

D’altro canto, in una questione attinente ad altra fattispecie ma che può rilevare sotto il profilo dell’individuazione del momento in cui debba intendersi proposto il ricorso, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (31 maggio 2002, n. 5), pur confermando l’indirizzo con cui, in passato, aveva precisato la differenza tra il momento della notificazione del ricorso giurisdizionale amministrativo e quello del deposito del medesimo, sottolineando come il primo manifesti esclusivamente la volontà di agire in giudizio, e come il secondo, invece, realizzi concretamente la presa di contatto tra il ricorrente e l’organo giurisdizionale e generi, così, la costituzione del rapporto processuale (Cons. Stato, Ad. Plen., 28 luglio 1980, n. 35), conclude, sia pur per altra via, affermando che il termine per il deposito del ricorso rientra tra quelli processuali, dando così una lettura dell’espressione proposizione del ricorso, contenuta nella norma di cui all’art. 23bis, comma 2, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, aggiunto dall’art. 4 della legge 21 luglio 2000, n. 205, nel senso dello specifico riferimento al solo ricorso notificato.

Si deve osservare, conclusivamente, che la soluzione qui adottata prescinde dall’attuale formulazione del comma 3 dell’art. 39 c.p.c., così come modificato dall’art. 45, comma 3, lett. c), della legge 18 giugno 2009, n. 69, che ha aggiunto, in fine, le parole "ovvero dal deposito del ricorso" e che, pertanto, è attualmente del seguente tenore: "La prevenzione è determinata dalla notificazione della citazione ovvero dal deposito del ricorso".

La norma deve intendersi richiamata nell’ambito del processo amministrativo ai sensi dell’art. 39 del c.p.a., afferente il cd. "rinvio esterno" e, dunque, dovrebbe incidere anche sulla questione qui affrontata in relazione al momento della proposizione del ricorso, che, alla luce di tale modifica normativa, deve intendersi riferita, di nuovo, al deposito del ricorso.

Da tale novità normativa, tuttavia, il Collegio ritiene di poter prescindere, atteso che il ricorso originario è stato presentato prima dell’indicata riforma dell’art. 39 c.p.c.

Sintetizzando gli esiti del complesso argomentativo sopra riportato, il ricorso de quo, essendo stato notificato alla controparte il 14 settembre 2000, è ammissibile.

Il ricorso di primo grado, pertanto, doveva essere giudicato ammissibile e la sentenza meritevole di riforma per questo profilo.

In vista di tale esito, l’appellante ha riproposto la domanda originaria, volta all’accertamento del proprio diritto alla percezione dell’equo indennizzo per menomazione ascrivibile alla categoria sesta della tabella A, nonché del diritto di usufruire, quale invalido civile con menomazioni ascrivibili alla sesta categoria, dei benefici previsti per i mutilati ed invalidi di guerra dal R.D. 30 settembre 1922 n. 1290.

Deve essere evidenziato, sotto il profilo del merito, che l’appellante, ex Vigile Urbano del Comune appellato dall’1.11.1975 al 30.9.1994, aveva già presentato, in data 30.12.1986, istanza per il riconoscimento di equo indennizzo per un infortunio nell’espletamento del servizio, avvenuto in data 2.7.1986, equo indennizzo liquidato dal Comune medesimo utilizzando il criterio del livello di appartenenza dell’indennizzando al momento della richiesta, ex art. 22, comma 27, l. 23 dicembre 1994, n. 724.

L’attuale appellante aveva già proposto ricorso contro tale delibera, sostenendo l’applicazione di un diverso criterio di liquidazione, ma il TAR Calabria, Catanzaro, con la sentenza n. 888 del 1998, aveva respinto il ricorso, confermando la legittimità del criterio di calcolo adottato, sentenza passata quindi in giudicato.

L’appellante ha richiesto l’equo indennizzo in relazione ad ulteriori malattie invalidanti dipendenti da causa di servizio, ottenendo un ulteriore equo indennizzo, basato sul medesimo criterio di calcolo del precedente; tale ultimo equo indennizzo è stato contestato con il ricorso di primo grado deciso con la sentenza qui impugnata.

Secondo il Collegio, il criterio di calcolo adottato dal Comune deve ritenersi esatto.

Come ha già statuito il TAR Calabria, Catanzaro, con la sentenza n. 888 del 1998, e a prescindere dagli effetti in termini di giudicato sul dedotto e il deducibile che tale sentenza spiega sull’odierna controversia, l’equo indennizzo rappresenta un provvedimento di ristoro economico e non previdenziale, che la P.A. emana al dipendente in occasione di menomazioni psicofisiche legate allo svolgimento del proprio servizio; il credito del dipendente ha natura, quindi, meramente indennitaria e, anche ai sensi della sopravvenuta l. 66296, si calcola in relazione alla qualifica funzionale e al livello retributivo del dipendente al momento della presentazione della domanda, avendo tale indennità la funzione di protezione di un rischio professionale collegato allo svolgimento delle specifiche funzioni.

Restano esclusi dal calcolo, quindi, tutti gli eventuali emolumenti aggiuntivi, ivi compresi quelli spettanti per riconoscimento di anzianità.

Men che meno spettano i benefici di anzianità previsti dall’art. 1 della l. 53950 per gli ex combattenti, non trovandosi nella legge e nel sistema alcuna equiparazione tra l’invalidità riconosciuta a causa di servizio e l’indennità riconosciuta per gli invalidi di guerra.

Come ha già statuito questo Consiglio, infatti, nella vigente normativa (l. 15 luglio 1950, n. 539, art. 1; l. 3 aprile 1958, n. 474 art. 5) non è prevista una permanente parificazione tra i mutilati ed invalidi di guerra ed i mutilati ed invalidi per servizio; pertanto, deve essere escluso che qualunque beneficio stabilito dalla legge per i primi debba automaticamente estendersi ai secondi (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 18 luglio 1994, n. 1209).

Ciò determina, di conseguenza, in riforma dell’impugnata sentenza, il rigetto del ricorso di primo grado nel merito.

Sussistono giusti motivi per compensare le spese di lite.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta),

definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto, in riforma dell’impugnata sentenza, rigetta il ricorso di primo grado.

Compensa tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 giugno 2011 con l’intervento dei magistrati:

Calogero Piscitello, Presidente

Carlo Saltelli, Consigliere

Paolo Giovanni Nicolò Lotti, Consigliere, Estensore

Antonio Amicuzzi, Consigliere

Antonio Bianchi, Consigliere

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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