Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 14-07-2011) 27-07-2011, n. 29999 Poteri della Cassazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza emessa in data 27 marzo 2008, il Tribunale di Cosenza che ha condannato il Sig. C. in relazione ai reati previsti: a) dall’art. 572 c.p. in danno della moglie e della figlia; b) dagli artt. 81 cpv., 609-bis, 609-ter e 609-septies c.p. nei confronti della figlia. Fatti commessi fino al mese di (OMISSIS). La pena, applicata la continuazione con i reati oggetto della sentenza n. 67/98 del Tribunale di Cosenza (irrevocabile il 16 ottobre 2001), è stata fissata in complessivi anni undici di reclusione. L’imputato è stato altresì condannato alle pene accessorie di legge nonchè al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, da liquidarsi in separata sede.

La Corte di Appello, pronunciando sulla rituale impugnazione del Sig. C., ha respinto tutti i motivi di gravame. Ha ritenuto non sussistere l’identità dei fatti rispetto a quelli giudicati con la sentenza del 1998; ha escluso che difettino le prove circa la responsabilità penale dell’imputato; ha ritenuto correttamente applicato il regime delle circostanze e determinata la pena.

Avverso tale decisione ricorre personalmente il Sig. C., lamentando:

1. manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione ai sensi dell’art. 607 c.p.p., lett. e) per avere la Corte territoriale omesso di effettuare il severo controllo che deve essere dedicato alle dichiarazioni accusatorie delle persone offese che scelgono di costituirsi parte civile ed omesso di considerare che difettano riscontri obiettivi a tali dichiarazioni. Inoltre, appare non conforme al dettato normativo il rinvio "per relationem" che la motivazione opera su punti essenziali alla decisione di primo grado;

2. errata applicazione delle disposizioni in tema di determinazione della pena, posto che la Corte territoriale ha effettuato aumenti di pena particolarmente pesanti senza alcuna esplicitazione delle ragioni che supportano tale scelta.

Motivi della decisione

Il contenuto dei motivi di ricorso, fondati esclusivamente sul vizio riconducibile all’art. 606 c.p.p., lett. e) impone alla Corte di rilevare in via preliminare che il giudizio di legittimità rappresenta lo strumento di controllo della corretta applicazione della legge sostanziale e processuale e non può costituire un terzo grado di giudizio volto alla ricostruzione dei fatti oggetto di contestazione. Si tratta di principio affermato in modo condivisibile dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali, n. 2120, del 23 novembre 1995-23 febbraio 1996, Fachini (rv 203767) e quindi dalla decisione con cui le Sezioni Unite hanno definito i concetti di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione (n. 47289 del 2003, Petrella, rv 226074).

Una dimostrazione della sostanziale differenza esistente tra i due giudizi può essere ricavata, tra l’altro, dalla motivazione della sentenza n. 26 del 2007 della Corte costituzionale, che (punto 6.1), argomentando in ordine alla modifica introdotta dalla L. n. 46 del 2006 al potere di impugnazione del pubblico ministero, afferma che la esclusione della possibilità di ricorso in sede di appello costituisce una limitazione effettiva degli spazi di controllo sulle decisioni giudiziali in quanto il giudizio avanti la Corte di cassazione è "rimedio (che) non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito, consentito (invece) dall’appello".

Se, dunque, il controllo demandato alla Corte di cassazione non ha "la pienezza del riesame di merito" che è propria del controllo operato dalle corti di appello, ben si comprende come il nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., lett. e) non autorizzi affatto il ricorso a fondare la richiesta di annullamento della sentenza di merito chiedendo al giudice di legittimità di ripercorrere l’intera ricostruzione della vicenda oggetto di giudizio.

Tale impostazione è stata ribadita, anche dopo la modifica della lett. e) dell’art. 606 c.p.p. apportata dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, comma 1, lett. b) dalle sentenze della Seconda Sezione Penale, n.23419 del 23 maggio-14 giugno 2007, PG in proc. Vignaroli (rv 236893) e della Prima Sezione Penale, n. 24667 del 15-21 giugno 2007, Musumeci (rv 237207). Appare, dunque, del tutto convincente la costante affermazione giurisprudenziale secondo cui è "preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti" (fra tutte:

Sezione Sesta Penale, sentenza n. 22256 del 26 aprile-23 giugno 2006, Bosco, rv 234148).

Sotto un diverso profilo la Corte rileva che il rinvio "per relationem" da parte del giudice di appello alla motivazione della sentenza di primo grado può integrare il vizio previsto dall’art. 606 c.p.p., lett. e) solo ove si sostanzi in una omessa risposta alle censure mosse con i motivi di appello, costituendo, invece, una corretta modalità di rinvio alle parti della prima motivazione che espongono il materiale probatorio e ricostruiscono la vicenda storica. Del resto, questa Corte ha avuto modo di affermare che in caso di due decisioni di merito fra loro conformi ben può il giudice di legittimità attingere anche alla motivazione della sentenza di primo grado nella parte in cui costituisce premessa alla sentenza di appello.

Muovendo da tali premesse, la Corte considera, in primo luogo, che la motivazione della sentenza impugnata non incorre nel vizio di carenza o illogicità manifesta della motivazione. Se è vero che in alcuni passaggi la motivazione rinvia a specifici passi argomentativi della prima decisione puntualmente indicati, deve rilevarsi che essa non manca di affrontare in modo chiaro i temi proposti coi motivi di appello.

Essa esamina i profili di attendibilità del racconto delle persone offese ed esclude motivatamente l’esistenza di intenti calunniatori (pag. 2), esclude l’esistenza di contraddizioni o di accuse incompatibili con la vicenda carceraria dell’imputato (pag. 3), esclude che vi sia coincidenza fra i fatti oggetto del presente procedimento e quelli decisi con la sentenza del Tribunale di Cosenza del 1998, fatti per i quali la motivazione ricorda come lo stesso ricorrente li abbia definiti "correttamente" posti in continuazione.

Non può, dunque, affermarsi che la Corte di Appello si sia sottratta all’obbligo di valutare criticamente le dichiarazioni accusatorie, per le quali ha valutato sussistere sia una intrinseca coerenza sia plurimi riscontri esterni, tutti elementi che la prima sentenza esplicita alle pagine 7, 10, 11 e 14 e che, al contrario, i motivi di appello ignorano.

In secondo luogo, deve rilevarsi che i motivi di ricorso nella sostanza richiedono a questo giudice di operare una valutazione del materiale probatorio diversa da quella effettuata dai giudici di merito e lo fanno senza esplicitare quali ragioni renderebbero in concreto manifestamente illogico o contraddittorio il ragionamento che ritiene le dichiarazioni delle persone offese sorrette da coerenza interna e da specifici, plurimi riscontri esterni.

Una volta escluso che il ragionamento esposto dai giudici di appello sia viziato da contraddittorietà interna o da manifesta illogicità, questa Corte non può spingere il proprio controllo alla valutazione di merito del materiale probatorio e alla ricostruzione dei fatti e delle responsabilità, così che il primo motivo di ricorso deve esser giudicato non accoglibile.

Quanto, infine al secondo motivo di ricorso attinente il trattamento sanzionatorio. la Corte di Appello ha chiaramente formulato un giudizio di gravità delle condotte e di congruità del trattamento sanzionatorio che si fonda sugli elementi di fatto che il primo giudice ha puntualmente indicato a pag. 19 della motivazione. Si tratta di rinvio che rende manifesto e trasparente il collegamento tra i fatti, la personalità del ricorrente e la sanzione inflitta, con la conseguenza che risulta infondata la censura mossa alla esaustività della motivazione.

Alla luce delle considerazioni fin qui esposte il ricorso deve essere respinto e il ricorrente condannato, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 2.000,00, oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione de le spese sostenute dalla parte civile nel presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro duemila, oltre accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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