Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 13-07-2011) 27-07-2011, n. 29992 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Confermando la decisione del primo Giudice, la Corte di Appello di Milano, con sentenza 3 maggio 2010, ha ritenuto R.A. responsabile del reato previsto dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73 (T.U. Stup.) perchè in, concorso con il fratello M., deteneva illegalmente circa un chilo di eroina.

Per quanto concerne i temi trattati nel ricorso in Cassazione, i Giudici hanno disatteso la eccezione difensiva di incompetenza territoriale rilevando, in fatto, che la droga era stata acquistata dal R.M. in (OMISSIS) e trasportata altrove per occultare il precedente reato di acquisto; esisteva, quindi, la connessione teleologica perchè un reato era stato commesso per occultare uno precedente ed il reato fine e quello mezzo erano stati commessi dalla stessa persona ( R.M.).

In merito alla utilizzazione della testimonianza della coimputata P., i Giudici hanno rilevato che sussistevano i presupposti per il recupero delle dichiarazioni rese in sede di Polizia a sensi dell’art. 500 c.p.p., comma 4 perchè la donna era stata sottoposta a minacce gravi.

Per l’annullamento della sentenza, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo violazione di legge e rilevando: – che il reato addebitatogli è stato commesso a (OMISSIS) (nella circoscrizione di (OMISSIS)) e non sussisteva la connessione teleologica;

-che il meccanismo dell’art. 500 c.p.p., comma 4 non è stato utilizzato dal primo Giudice e la Corte di Appello non poteva modificare il percorso probatorio del Tribunale in carenza dello appello del Pubblico Ministero.

Il ricorrente sostiene che erroneamente la Corte ha affermato la competenza dei Giudici di Milano in applicazione del criterio della connessione tra procedimenti legati dal nesso teleologico che è utilizzabile solo quando il reato mezzo e fine siano stati commessi da una medesima persona; nel caso in esame, il primo reato non è stato perpetrato dall’imputato, ma dal fratello M.. La complessa problematica sulla interpretazione dell’art. 12 c.p.p., lett. c e sulla necessità, o meno, che vi sia identità tra l’autore del reato mezzo e di quello fine ( sulla quale esiste un contrasto esegetico in sede di legittimità) non è rilevante nella ipotesi che ci occupa; invero, non è stato contestato al ricorrente nè al fratello (come risulta dalla sentenza nei suoi confronti emessa ed allegata agli atti) di avere commesso un reato per eseguirne un altro. Secondo il capo di imputazione, la droga per cui è processo sarebbe stata fin dallo inizio illegalmente acquistata dall’imputato in concorso con il fratello in luogo ignoto. Tuttavia, secondo la ricostruzione storica dei fatti operata dai Giudici di merito, R. A. si è impossessato della droga con l’accordo del M. (che aveva precedentemente acquistato la merce a (OMISSIS)), sottraendola al possessore, in (OMISSIS).

Questa puntualizzazione – contrariamente allo assunto del ricorrente – non è rilevante ai fini della determinazione della competenza territoriale.

Il reato di detenzione di sostanza stupefacente è stato, comunque, commesso dai due fratelli in concorso tra di loro a nulla rilevando che l’accordo sia intervenuto ab initio o in itinere della condotta criminosa; pertanto, è riscontrabile la connessione prevista dall’art. 12 sub a) cod. proc. pen. con la conseguenza che è applicabile la regola del successivo art. 16 che attribuisce la competenza per territorio al giudice competente per il primo reato (commesso, secondo la prospettazione dello stesso ricorrente, in (OMISSIS)). In merito alla residua censura, si osserva che la dichiarazione "recuperata" (ex art. 513 cod. proc. pen. dal primo Giudice ed ex art. 500 c.p.p., comma 4 dalla Corte di Appello) concerne la imputata P., giudicata nel presente processo per un reato probatoriamente collegato a quello contestato a R.. Le pregresse dichiarazioni rese dalla imputata (rimasta contumace nel giudizio) nella fase delle indagini, delle quali si è data lettura per il disposto dell’art. 513 cod. proc. pen., potevano essere utilizzate contra se e contra alios (nonostante il mancato consenso del difensore del R. espresso alla udienza avanti il Tribunale del 21 aprile 2009) perchè ricorrevano i presupposti richiesti dall’art. 500 c.p.p., comma 4.

Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, l’applicazione del canone probatorio dalla menzionata norma implica indagini a forma libera, attivate su sollecitazione di parte o di ufficio, per la ricerca di elementi concreti dai quali si possa desumere l’emersione di fatti illeciti sul dichiarante sottoposto a pressioni (con violenza, minaccia, promesse di denaro o altre utilità) al fine di non deporre il vero o di testimoniare il falso.

A tale scopo, gli elementi raccolti nel dibattimento o altrove, devono raggiungere un quantum di consistenza non coincidente nè con il mero sospetto nè con la prova "al di là di ogni ragionevole dubbio"; sono sufficienti emergenze indiziarie che – valutate secondo i parametri della ragionevolezza, plausibilità logica – appalesino l’esistenza di situazioni che hanno compromesso la genuinità dello esame testimoniale (ex plurimis; Cass. Sez. 2 sentenza 38894/2008).

Nel caso in esame, i Giudici hanno evidenziato l’esistenza di un elemento sintomatico dal quale era ragionevole dedurre il condizionamento della P. che era stata minacciata, anche di morte, dall’imputato e dal fratello (e la circostanza non è contestata nei motivi di ricorso); pertanto, la conclusione sulla possibilità di ricorrere alla procedura prevista dall’art. 500 c.p.p., comma 4 è sorretta da argomentazione congrua e corretta.

Il Tribunale aveva recuperato ed utilizzato anche nei confronti del R. le dichiarazioni della teste, con il meccanismo previsto dall’art. 513 cod. proc. pen., senza ulteriori specificazioni e la Corte di Appello ha precisato la ragione del loro utilizzo completando la motivazione carente sul tema del primo Giudice.

Di conseguenza, non è riscontrabile alcun aggravamento della posizione dell’imputato che, ex art. 597 c.p.p., comma 3, richiedesse la impugnazione del Pubblico Ministero.

Per le esposte considerazioni, la Corte rigetta il ricorso con le conseguenze di legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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