Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 23-06-2011) 27-07-2011, n. 29981 Reato continuato e concorso formale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) Con sentenza resa in data 17 settembre 2010 la Corte di Appello di Firenze confermava la sentenza del Tribunale di Lucca del 26.11.2009, con la quale P.L. era stato condannato alla pena di mesi 3 di reclusione ed Euro 300,00 di multa per il reato di cui all’art. 81 cpv. c.p. e L. n. 638 del 1983, art. 2.

Riteneva la Corte, disattendendo i motivi di appello, che vi fosse la prova della responsabilità dell’imputato e che il reato non fosse ancora prescritto, essendovi stata, prima del decorso dei cinque anni, interruzione del termine di prescrizione con la contestazione all’imputato, in data 6.2.2007, dell’accertamento.

2) Ricorre per cassazione il P., denunciando la inosservanza o erronea applicazione della legge penale.

L’imputato, come rilevato in sede di discussione e di conclusioni, aveva eccepito di non aver avuto la lettera di contestazione, essendo stata la ricevuta di ritorno, datata 6.2.2007, sottoscritta da P.I., e la notifica effettuata in Lucca, Montuolo, via Pisana n.c. 3929 presso la sede della ditta cessata in data 27.12.205. I Giudici di merito avrebbero dovuto quindi dichiarare la improcedibilità dell’azione penale o comunque la prescrizione.

Con il secondo motivo denuncia la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, non essendosi tenuto conto che mancava la prova dell’effettivo pagamento delle retribuzioni ai dipendenti e, comunque, delle difficoltà dell’azienda che cessava la sua attività in data 27.12.2005 e non come erroneamente ritenuto dalla Corte nel febbraio 2007. Deduce infine la mancata concessione dell’indulto ex L. n. 241 del 2006. 3) Il ricorso è manifestamente infondato.

3.1) Quanto all’eccepita prescrizione, va ricordato che la L. 7 dicembre 2005, n. 251, art. 10, come risultante dall’intervento della Corte Costituzionale n. 393 del 23.11.2006, stabilisce che "se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti ed ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di Cassazione".

Inoltre tale disciplina transitoria, che esclude l’applicazione delle nuove disposizioni in tema di prescrizione del reato introdotte dalla medesima legge ai procedimenti pendenti in grado di appello al momento della sua entrata in vigore, deve essere intesa nel senso che tale esclusione riguarda non solo le disposizioni che investono i nuovi criteri di calcolo dei termini prescrizionali, ma anche quelle che hanno comunque come effetto la loro riduzione, tra cui, in particolare, la disposizione che, eliminando dall’art. 158 cod. pen. ogni riferimento al reato continuato ha fatto decorrere il termine di prescrizione per i reati uniti da tale vincolo dalla consumazione di ciascuno di essi e non più dalla data di cessazione della continuazione (cfr. ex multis Cass. Pen. sez. 4 n. 41811 del 23.1.2007; Cass. Sez. 3 n. 12019 del 7.2.2007; Cass. Sez. 5, 20.1.2006).

Il processo era pendente ancora in primo grado al momento della entrata in vigore della L. n. 251 del 2005, risultando la sentenza del Tribunale emessa in data 26.11.2009, per cui trova applicazione la disciplina dettata in tema di reato continuato dall’art. 158 c.p..

3.1.1) La Corte territoriale ha però, correttamente, evidenziato che neanche per le omissioni più remote, risalenti al maggio 2003, era ancora maturata la prescrizione, essendo stata questa interrotta con la notifica dell’accertamento avvenuta in data 6.2.2007 e quindi prima del decorso del termine di cinque anni. A maggior ragione non era poi decorso il termine massimo di anni 7 e mesi 6.

Con i motivi di appello non era stata minimamente contestata la "validità" della notifica dell’accertamento, per cui la questione viene inammissibilmente proposta per la prima volta in sede di legittimità. A parte il fatto che, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, non vengono neppure allegati gli elementi fattuali (rinvenibili secondo l’assunto del ricorrente nel fascicolo del P.M.) si cui è fondata l’eccezione.

3.2) Nè tanto meno può parlarsi di improcedibilità dell’azione penale.

A parte il fatto che anche tale questione viene sollevata per la prima volta in questa sede, è pacifico, secondo la giurisprudenza di questa Corte, che il termine per sanare (ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità prevista dalla L. n. 638 del 1983, art. 3, comma 1 bis) decorre,in ogni caso,dalla notifica del decreto penale o del decreto di citazione a giudizio. Secondo la giurisprudenza assolutamente prevalente di questa Corte, infatti, "In tema di omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali, nel caso non risulti certa la contestazione o la notifica dell’avvenuto accertamento delle violazioni, il termine di tre mesi concesso al datore di lavoro per provvedere al versamento dovuto- rendendo operante la causa di non punibilità prevista dalla L. 11 novembre 1983, n. 638, art. 2 comma 1 bis, come modificato dal D.Lgs. n. 211 del 1994 – decorre dalla notifica del decreto di citazione per il giudizio" (o eventualmente dalla notifica dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p.) cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 41277 del 28.9.2004; conf.

Cass. sez. 3 n. 27258 del 16.5.2007; sez. 3 n. 38501 del 25.9.2007;

sez. 3 n.4723 del 12.12.2007). Con la notifica del decreto di citazione o dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p., invero, "l’interessato ha avuto sicura conoscenza dell’accertamento previdenziale svolto nei suoi confronti ed è posto in grado di sanare le contestate violazioni" (Cass. sez. 3 n. 38501/2007 cit.).

3.3) In relazione al secondo motivo va rilevato che la giurisprudenza di questa Corte, dopo la sentenza a sezioni unite n. 27641 del 2003, ritiene ormai pacificamente che non sia configurabile il reato di cui alla L. n. 638 del 1983, art. 2, comma 1 senza il materiale esborso delle somme dovute al dipendente.

Quanto all’onere della prova di tale esborso, trattandosi di elemento costitutivo del reato non c’è dubbio che esso gravi sulla pubblica accusa, anche se può assolverlo sia mediante il ricorso a prove documentali o testimoniali oppure attraverso la prova indiziaria.

La prova dell’avvenuto pagamento può essere, quindi, desunta indirettamente da dati documentali (ad esempio estratti dai libri paga) a meno che non si provi l’avvenuta falsificazione (cfr. Cass. pen. sez. 3, 12.1.1996 n. 2971).

La Corte territoriale ha evidenziato che indizio di chiaro valore probatorio è rappresentato dai modelli DM/10 "redatti in base alle comunicazioni provenienti dall’impresa dell’imputato", il quale dichiarava di aver trattenuto le quote a carico del lavoratore.

3.4) Infine, alcun rilievo ha la dedotta difficoltà in cui versava l’impresa.

In tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali, infatti, la giurisprudenza di questa Corte ha escluso ogni rilevanza dello stato di dissesto dell’impresa. "Lo stato di dissesto dell’imprenditore -il quale prosegua ciononostante nell’attività d’impresa senza adempiere all’obbligo previdenziale e neppure a quello retributivo- non elimina il carattere di illiceità penale dell’omesso versamento dei contributi. Infatti i contributi non costituiscono parte integrante del salario ma un tributo, in quanto tale da pagare comunque ed in ogni caso, indipendentemente dalle vicende finanziarie dell’azienda. Ciò trova la sua "ratio" nelle finalità, costituzionalmente garantite, cui risultano preordinati i versamenti contributivi e anzitutto la necessità che siano assicurati i benefici, assistenziali e previdenziali a favore dei lavoratori. Ne consegue che la commisurazione del contributo alla retribuzione deve essere considerata un mero criterio di calcolo per la quantificazione del contributo stesso" (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 11962 del 16.7.1999).

3.5) La richiesta di indulto non era contenuta nei motivi di appello, per cui la Corte non era tenuta a provvedere d’ufficio, potendo ogni valutazione in proposito essere riservata alla fase esecutiva.

3.6) Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento a favore della cassa delle ammende di sanzione pecuniaria, che pare congruo determinare in Euro 1.000,00, ai sensi dell’art. 616 c.p.p..

E’ appena il caso di ricordare che l’inammissibilità del ricorso preclude la possibilità di dichiarare la prescrizione maturata dopo la emissione della sentenza impugnata.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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