Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 19-05-2011) 27-07-2011, n. 29940Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

D.D.M. ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe, che, nel riformare quella di primo grado relativamente ai reati di corruzione e rivelazione di segreto di ufficio contestatigli al capo I fino al 28 dicembre 2002, perchè estinti per prescrizione, e riducendo comunque la pena inflittagli, l’ha per il resto ritenuto colpevole dei reati di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, rivelazione di segreto di ufficio, concorso in cessione di sostanze stupefacenti, favoreggiamento personale tentata concussione, violenza privata e lesioni, illegale detenzione di munizioni da guerra.

Fatti commessi nell’esercizio e abusando della sua qualità soggettiva di militare dell’Arma dei carabinieri, in servizio presso la Stazione CC di Isorella (nel periodo inizio anno 2002 – aprile 2004).

A supporto della condanna vengono valorizzate, in modo convergente, in primo e secondo grado, plurime dichiarazioni accusatone e gli esiti dell’attività intercettiva, in particolare eseguita su utenze in uso all’imputato, ma anche quella svolta nell’ambito di diverso procedimento penale, utilizzata ex art. 270 c.p.p., trattasi, in particolare, di intercettazioni effettuate nell’ambito del diverso procedimento a carico, tra l’altro, di soggetto indagato per spaccio di stupefacenti ed anche di corruzione del D.D..

Le dichiarazioni accusatone sono coordinate tra loro ed apprezzate singolarmente per vendicarne l’attendibilità e la genuinità.

Con il ricorso si articolano quindici motivi, dove si propongono, in parte, doglianze già introdotte in appello e già disattese da quel giudice.

Saranno per comodità esaminate facendo subito seguire le ragioni per cui, ad avviso della Corte, non possono essere condivise, imponendosi la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Con il primo motivo, si ripropone l’eccezione di inutilizzabilità di talune intercettazioni siccome asseritamente disposte in violazione del disposto dell’art. 268 c.p.p., comma 3.

Si riportano in proposito, per alcuni decreti, per stralcio, le motivazioni adottate, di cui si contesta la legittimità. Si sostiene, in particolare, che in ordine alla insufficienza ed inidoneità degli impianti in uso presso la Procura ci si sarebbe limitati a riprodurre la clausola normativa, senza in concreto motivare sulle "ragioni" della inidoneità e insufficienza. Non si contesta, invece, la motivazione sulle ragioni dell’urgenza, spiegate secondo quanto riportato per stralcio con riferimento alla "necessità di disporre adeguati servizi di polizia giudiziaria, tra i quali attività esterna di osservazione e pedinamento".

Con una memoria aggiuntiva, a firma dell’avvocato Schiffo, si approfondisce il motivo, stavolta allegando in copia n. tre decreti adottati dal PM di Brescia che si assumono viziati per carenza di motivazione sul presupposto dell’insufficienza/inidoneità degli impianti segnatamente, i decreti: RIT n. 606/03 emesso in data 25 settembre 2003 emesso nell’ambito del procedimento penale n. 13575/03 a carico di D.D.M. e E.H.; RIT n. 584/02 emesso in data 17 ottobre 2002 nell’ambito del procedimento penale n. 13564/02 a carico di persone da identificare; RIT n. 793/03 emesso in data 25 novembre 2003 nell’ambito del citato procedimento penale n. 13575/03.

Il motivo è inaccoglibile.

Innanzitutto vale il rilievo che, in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, in ordine alla motivazione del decreto che il pubblico ministero deve adottare, per giustificare l’uso di impianti diversi da quelli installati nella Procura della Repubblica, sotto il duplice profilo della inadeguatezza di quelli in dotazione all’ufficio di Procura e delle ragioni di eccezionale urgenza, deve ritenersi corretta e congruamente motivata quella che, sotto il primo profilo, evidenzi l’insufficienza o l’inadeguatezza degli impianti interni rispetto alla specifica indagine probatoria ed alla necessità di acquisire, con sollecitudine, eventuali elementi utili alle indagini (Sezione 1^, 28 aprile 2009, Proc. gen. App. Bari ed altri in proc. Speranza ed altro, non massi mata).

Per l’effetto qui ci si trova in presenza di motivazione che regge al vaglio di legittimità proprio apprezzando il complesso dei passaggi argomentativi: in tutti e tre i decreti allegati, il PM di Brescia ha correlato l’esigenza dell’utilizzo degli impianti in uso presso la polizia giudiziaria – spiegando in tal modo la ragione dell’inidoneità, evidentemente funzionale, degli impianti della Procura – alla necessità di garantire una pertinente attività investigativa, con l’immediata attivazione di attività esterna di osservazione e pedinamento, rispetto ad un’investigazione complessa che vedeva già attività intercettazioni per le quali era stato autorizzato l’utilizzo degli impianti allocati presso le forze dell’ordine.

In realtà la doglianza non può trovare accoglimento per altra, assorbente ragione.

Infatti, in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, qualora venga eccepita in sede di legittimità l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, siccome asseritamente eseguite fuori dai casi consentiti dalla legge o qualora non siano state osservate le disposizioni previste dall’art. 267 c.p.p., e art. 268 c.p.., commi 1 e 3, ( art. 271 c.p.p., comma 1), è onere della parte non solo indicare specificamente l’atto asseritamente affetto dal vizio denunciato circostanza qui assolta, ma anche spiegare le ragioni per cui dalla pretesa inutilizzabilità di quelle specifiche operazioni intercettive sarebbe derivato un vulnus rispetto alla tenuta del provvedimento qui, la decisione di condanna.

Nella specie, non è bastevole l’avere riportato i decreti taluni dei decreti che hanno riguardato l’ampio compendio intercettivo utilizzato, perchè, ad impedire l’accoglimento della doglianza, è assorbentemente carente la rappresentata dimostrazione di come le pretese intercettazioni inutilizzabili vulnerino la complessiva tenuta del compendio indiziario. Ciò che qui risulta evidente in un procedimento in cui la condanna è principalmente basata su dichiarazioni accusatone e su un’attività intercettiva plurima, anche derivante dall’acquisizione di intercettazioni svolte in altro procedimento.

Vale del resto, anche il principio della incomunicabilità della inutilizzabilità che abbia riguardato taluno degli esiti delle intercettazioni per difetto dei provvedimenti autorizzativi. Ciò perchè, in materia di inutilizzabilità non trova applicazione il principio dettato dall’art. 185 c.p.p., comma 1, secondo cui la nullità di un atto rende invalidi tutti gli atti consecutivi che da quello dipendono, onde l’inutilizzabilità probatoria del contenuto di una intercettazione telefonica ( art. 271 c.p.p.), per inosservanza delle disposizioni di legge, non esclude che quel contenuto possa valere come "notizia di reato", dando impulso ad ulteriori indagini, che poi il giudice può legittimamente utilizzare per la valutazione del quadro probatorio. In altri termini, dascun decreto autorizzativo è dotato di piena autonomia e può ricevere impulso da qualsiasi notizia di reato, pur desunta da precedenti intercettazioni inutilizzabili, derivandone che il vizio di cui in ipotesi sia affetto l’originario decreto intercettivo non si comunica automaticamente a quelli successivi, correttamente adottati, vuoi che si tratti delle proroghe del primo decreto, vuoi che si tratti di decreti autonomamente emessi sulla base di elementi aliunde acquisiti (Sezione 4^, 4 dicembre 2006, Proc. gen. App. Roma ed altri in proc. Vacca ed altri, rv. 236414; Sezione 4^, 22 febbraio 2008, Masalmeh ed altri, non massimata sul punto).

In altri e decisivi termini, anche se si volesse accedere alla tesi difensiva dell’insufficienza della motivazione ma si è detto come motivazione sufficientemente adeguata vi sia, ne deriva l’inaccoglibilità del motivo per carenza della spiegazione di quali elementi indiziari siano stati acquisiti nel corso delle singole intercettazioni contestate e di come tali elementi, a non volerli considerare, farebbero venire meno la "tenuta" della decisione che, invece, come del resto si vederà infra, corrispondendo sulle successive doglianze, pare ampiamente satisfattiva e tale da reggere al vaglio di legittimità.

Con il secondo motivo, ci si duole delle intercettazioni svolte in altro procedimento di cui si è detto supra, di cui si sostiene la illegittimità per violazione dell’art. 270 c.p.p., oltre che l’illegittimità per violazione dell’art. 430 c.p.p., sarebbero state introdotte come attività integrativa di indagine, pur essendo state svolte in epoca anteriore alla richiesta di rinvio a giudizio, onde il PM avrebbe dovuto produrle già in fase di indagine e comunque in occasione del deposito degli atti ex art. 415 bis c.p.p..

Anche tale motivo è inaccoglibile, a fronte di una decisione che ha correttamente affrontato il tema.

Per un corretto inquadramento, va preliminarmente ricordato quando possa e debba parlarsi di intercettazioni eseguite in un "procedimento diverso", ai sensi e per gli effetti dell’art. 270 c.p.p..

Secondo una interpretazione ormai consolidata, la nozione di "diverso procedimento", nel quale, a norma dell’art. 270 c.p.p., comma 1, è vietata l’utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, "salvo che questi risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza", non equivale a quella di "diverso reato" e non si estende, quindi, fino ad escludere la possibilità di utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti concernenti indagini strettamente connesse e collegate, sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato in ordine al quale il mezzo di ricerca della prova è stato disposto. Con la precisazione ulteriore che la diversità del procedimento di cui parla l’art. 270, citato deve assumere rilievo di carattere sostanziale e non può essere ricollegata a dati meramente formali, quali la materiale distinzione degli incartamenti relativi ai due procedimenti o il loro diverso numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato (ex pluribus, Sezione 6^, 16 marzo 2004, Benevento ed altri, non massimata sul punto; Sezione 6^, 11 marzo 2003, Filippi, non massimata sul punto; Sezione 1^, 17 dicembre 2002, Semeraro; Sezione 5^, 21 marzo 2002, Argenta).

Ebbene, qui, il giudicante ha soffermato l’attenzione sia sul dato della "connessione" tra i due procedimenti, sia sul fatto che si verteva in procedimento anche per reati per cui era previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.

Nè potrebbe sostenersi un vulnus per la difesa, ove si consideri che le intercettazioni di che trattasi risultano ritualmente introdotte nel processo, in modo garantito e che rispetto ad esse la difesa ha potuto articolare le proprie difese.

Infatti, al di là del richiamo formale all’istituto di cui all’art. 430 c.p.p., è senz’altro consentito alle parti introdurre in dibattimento, mettendoli a disposizione di controparte, che può difendersi come meglio crede anche articolando mezzi di prova in senso contrario, ulteriori elementi valorizzagli a supporto della propria tesi.

Del resto, per contraddire l’assunto del ricorrente basterebbe ricordare che in tema di attività integrativa di indagine consentita ex art. 430 c.p.p., al pubblico ministero anche dopo la emissione del decreto che dispone il giudizio, i presupposti di natura processuale per ritenere che la documentazione possa essere inserita nel fascicolo del pubblico ministero sono: la pertinenza degli atti integrativi di indagine alla vicenda processuale, la finalizzazione di tali atti alle richieste del pubblico ministero al giudice dei dibattimento, la garanzia di conoscenza e disponibilità degli atti stessi mediante il deposito in segreteria della documentazione con facoltà di prenderne visione ed est rame copia.

Tutte situazioni qui verificatesi, avendo la difesa potuto disporre degli atti prodotti in modo da soddisfare le proprie esigenze difensive.

Con il terzo e quarto motivo ci si duole della mancata perizia su un computer sequestrato all’imputato.

Per contraddire la fondatezza dei motivi connessi, basta ricordare che la perizia è mezzo di prova neutro ed è sottratta al potere dispositivo delle parti, che possono attuare il diritto alla prova anche attraverso proprie consulenze. La sua assunzione è pertanto rimessa al potere discrezionale del giudice e non è riconducibile al concetto di prova decisiva, con la conseguenza che il relativo diniego non è sanzionarle ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), e, in quanto giudizio di fatto, se assistito da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità, anche ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), (tra le tante, Sezione VI, 25 novembre 2008, Bretoni, non massimata).

Qui, a tacer d’altro, il giudice ha ampiamente giustificato il proprio convincimento, ponendo del resto in evidenza (per giustificare l’inutilità dell’accertamento), l’assorbente rilievo che già la decisione di primo grado non aveva basato la condanna sul contenuto del computer, cui non veniva attribuita valenza ricostruttiva dei fatti. Nè qui, al di là della rappresentazione dei motivi, sono documentate specifiche ragioni che avrebbero dovuto portare ad una decisione di segno opposto.

Con il quinto motivo si lamenta la mancata escussione di un testimone (un maresciallo dei CC), che la Corte di merito, condividendo l’assunto del Tribunale, ha ritenuto testimone di contorno, che avrebbe semmai dovuto confermare circostanze già chiarite da altri.

Basta rilevare, per argomentare l’inaccoglibilità del motivo, che il vizio di mancata assunzione di prova decisiva rileva solo quando la prova richiesta e non ammessa, confrontata con le argomentazioni addotte in motivazione a sostegno della decisione, risulti "decisiva", cioè tale che, se esperita, avrebbe potuto determinare una diversa decisione. In questa prospettiva, il diritto della parte a vedersi ammettere una prova contrastante con l’accusa, la cui mancata assunzione è denunciabile in sede di legittimità, va rapportato, per verificarne il fondamento, alla motivazione della sentenza impugnata ed in tale quadro viene ad essere priva di fondamento la censura che denunzi il rigetto, sul punto, dell’istanza difensiva, allorquando tale rigetto risulti sorretto da argomentazioni logiche, idonee a dimostrare che la controprova dedotta dalla parte non avrebbe potuto modificare il peso delle prove dell’accusa (Sezione 6^, 6 maggio 2009, Esposito ed altro, non massimata).

Nè in ricorso si spiegano diversamente le ragioni della "decisività" dell’escussione.

Con il sesto motivo ci si duole dell’escussione come testimone di tale L.R. persona offesa nel presente procedimento, che era stato denunciato dal prevenuto per il reato di calunnia. Tale soggetto, al momento dell’escussione, era si sostiene ancora sottoposto ad indagini, onde semmai, doveva essere assunto ex art. 210 c.p.p..

La Corte di merito, per vero, rigettava la identica doglianza proposta con l’appello vuoi affermando, in fatto, che non era stato dimostrato che, al momento della escussione, non fosse stato già definito il procedimento penale per calunnia a carico del testimone, vuoi sostenendo, che, comunque, l’escussione non garantita pur astrattamente ipotizzabile non poteva essere eccepita dal prevenuto, ma semmai solo della persona escussa, trattandosi di ipotizzabile violazione di una disciplina di garanzia posta nel precipuo ed esclusivo interesse di quest’ultimo.

Anche questo motivo non può essere accolto.

Come è noto, in materia valgono i principi affermati dalle Sezioni unite, nella nota sentenza 17 dicembre 2009, De Simone, rv. 246375- 76, secondo cui la disciplina limitativa della capacità testimoniale di cui all’art. 197, comma 1, lett. a) e b), all’art. 197 bis ed all’art. 210 c.p.p., non è applicabile alle persone sottoposte a indagini in un procedimento connesso o relativo a reato collegato nei cui confronti sia stato emesso provvedimento di archiviazione.

Infatti, l’esigenza del diritto di difesa, da cui deriva il diritto al silenzio e la conseguente disciplina limitativa della capacità di testimoniare, presuppone un’"accusa" dalla quale occorra difendersi o dalla quale il soggetto abbia dovuto difendersi, ciò che non può ravvisarsi nell’ipotesi in cui il soggetto sia stato iscritto nel registro degli indagati e sia stato poi fatto oggetto di archiviazione senza che l’autorità giudiziaria sia riuscita ad addivenire alla formulazione di una specifica accusa meritevole di ulteriore sviluppo, e che magari è stata il frutto di una mera iniziativa pretestuosa o, peggio, fraudolenta, di un terzo interessato. In senso contrario, non potrebbe invocarsi l’argomento della possibile riapertura delle indagini, trattandosi di una eventualità (per "esigenza di nuove investigazioni") sostanzialmente assimilabile, ed anzi probabilisticamente inferiore, a quella della possibile "apertura" delle indagini nei confronti di qualsiasi soggetto (per notizia di reato individualmente attribuito).

In realtà, i principi delle Sezioni unite non sono qui direttamente invocabili, per farne discendere l’illegittimità dell’acquisizione delle dichiarazioni, per l’empirico rilievo "di fatto" della carenza dimostrativa dei presupposti di applicabilità delle modalità assistite per l’esame. La Corte di merito, infatti, ha evidenziato e sul punto non può qui tornarsi che la difesa non aveva adeguatamente dimostrato che il procedimento a carico de LAKANAL non fosse ancora definito. E’ situazione che non può rivalutare il giudice della Cassazione.

A ciò dovendosi aggiungere il principio già richiamato dalla Corte di merito secondo cui l’eventualmente ipotizzabileviolazione delle disposizioni di cui all’art. 210 c.p.p., nell’esame di persona indagata o imputata in un procedimento connesso non determina la inutilizzabilità delle dichiarazioni nel procedimento principale, ma una nullità a regime intermedio, ai sensi dell’art. 180 c.p.p., che non può essere eccepita dall’imputato del procedimento principale per assenza di interesse all’osservanza della disposizione violata (Sezione 1^, 11 febbraio 2010, Visentin, rv.246329).

Con il settimo motivo si prospetta testualmente "manifesta illogicità, assenza o comunque insufficienza della motivazione risultante dal testo della sentenza ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in ordine all’infondatezza dell’assunto difensivo".

In realtà, non è dato cogliere specifiche censure diverse da un generale e generico dissenso sull’apprezzamento del compendio probatorio sviluppato, convergentemente, sia in primo che in secondo grado.

Il motivo, per vero generico, è inaccoglibile perchè, come è noto, in tema di ricorso per cassazione, allorquando si prospetti il difetto di motivazione, l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non consente alla Corte di legittimità una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perchè è estraneo al giudizio di cassazione il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati probatori (Sezione 6^, 6 maggio 2009, Esposito ed altro).

Ma è inaccoglibile anche laddove deduce, senza articolare in vero specifiche ragioni, il preteso travisamento della prova. Ciò per il principio pacifico secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, alla luce della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, è ora sindacabile il vizio di "travisamento della prova", che si ha quando nella motivazione si fa uso di un dato di conoscenza considerato determinante, ma non desumibile dagli atti del processo, o quando si omette la valutazione di un elemento di prova decisivo sullo specifico tema o punto in trattazione: ta vizio, peraltro, può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, ma non nel caso in cui la sentenza di appello abbia confermato l’anteriore decisione (cosiddetta "doppia conforme"), posto in questo caso il limite posto dal principio devolutivo, che non può essere valicato, con coeva intangibilità della valutazione di merito del risultato probatorio, se non nell’ipotesi in cui il giudice di appello abbia individuato – per superare le censure mosse al provvedimento di primo grado – atti o fonti conoscitive mai prima presi in esame, ossia non esaminati dal primo giudice (Sezione 6^, 10 maggio 2007, Contrada, non massimata sul punto).

Con il l’ottavo motivo ci si duole della condanna per i reati di corruzione e rivelazione di segreto di ufficio, contestando la lettura fornita delle intercettazioni e delle espressioni ivi menzionate.

E’ motivo qui improponibile.

Basta ricordare che, in tema di intercettazioni, il significato attribuito al linguaggio eventualmente criptico utilizzato dagli interlocutori, e la stessa natura convenzionale conferita ad esso, costituiscono valutazioni di merito insindacabili in cassazione;

mentre la censura di diritto può riguardare soltanto la logica della chiave interpretativa, nel senso che le valutazioni effettuate dal giudice di merito sul contenuto delle comunicazioni intercettate sono censurabili in sede di legittimità se ed in quanto si fondino su criteri interpretativi inaccettabili ovvero quando applichino scorrettamente tali criteri (Sezione 4^, 11 marzo 2009, Biliardi, non massimata).

Mentre evocano questioni di fatto, importanti censure inammissibili sulla lettura delle prove, gli ulteriori argomenti afferenti la valutazione del comportamento professionale dell’imputato, nei rapporti con le sue fonti confidenziali.

Con il nono e decimo motivo connessi si contesta l’addebito concorsuale nei fatti di droga, che la Corte di merito, recependo l’assunto del primo giudice, ha motivato spiegando che la condotta del prevenuto nei confronti degli spacciatori non poteva qualificarsi come di mera inerzia o di accidia nella condotta repressiva, bensì si sostanziava in un vero e proprio fiancheggiamento e in una fattiva collaborazione, ove la condotta omissiva rispetto all’obbligo istituzionale di repressione dei reati realizzava una consapevole attività di agevolazione, rilevante per fondare l’addebito concorsuale.

Si contesta anche il diniego dell’attenuante del fatto di lieve entità.

L’assunto è in vero argomentato in fatto, in modo qui non valutabile, perchè è compito del giudice di merito apprezzare le prove, attraverso l’analisi del comportamento dell’imputato come principalmente ricostruito attraverso dichiarazioni in particolare, quella di tale B.A. e il comportamento assunto nei confronti dei colleghi Carabinieri in particolare, le circostanze dei rapporti con la Stazione CC di Chiari.

In questa ottica, ineccepibile è la ricostruzione della condotta omissiva non certo come mera connivenza magari colposa, ma come contributo efficiente, volontariamente tenuto in spregio dei propri doveri pubblici di operatore di p.g..

Basta ricordare il principio pacifico secondo cui la distinzione tra connivenza non punibile e concorso di persone nel reato va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, nel secondo detto comportamento può manifestarsi anche in forme che agevolino la condotta illecita, anche solo assicurando all’altro concorrente stimolo all’azione o un maggior senso di sicurezza nella propria condotta, palesando chiara adesione alla condotta delittuosa (tra le tante, Sezione 5^, 5 ottobre 2007, Congiu ed altro, non massimata):

laddove, l’agevolazione consapevole dell’attività di spaccio è stata, come detto, ampiamente argomentata.

Ciò che vale anche con riguardo alla posizione specifica riguardata con il decimo motivo, su cui la Corte di merito si è ampiamente soffermata, disattendendo sul punto anche la richiesta del procuratore generale.

Corretto è, poi, il diniego dell’attenuante del fatto di lieve entità.

Come è noto, in tema di sostanze stupefacenti, la circostanza attenuante del fatto di lieve entità ( D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5) può essere riconosciuta solo in ipotesi di "minima offensività penale" della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla norma (mezzi, modalità e circostanze dell’azione), con la conseguenza che, ove venga meno anche uno soltanto degli indici previsti dalla legge, diviene irrilevante l’eventuale presenza degli altri. Ciò in quanto la finalità dell’attenuante si ricollega al criterio di ragionevolezza derivante dall’articolo 3 della Costituzione, che impone – tanto al legislatore, quanto all’interprete – la proporzione tra la quantità e la qualità della pena e l’offensività del fatto (Sezione 4^, 13 maggio 2010, Lucresi, non massimata).

Qui il giudicante ha ampiamente motivato ponendo in luce, negativamente, sia la dimensione delle singole condotte "favorite", sia la gravità della condotta, riguardante un operatore di p.g. Nè è dato ravvisare in ricorso spendibili argomenti per supportare il giudizio di "lievità" del fatto che, come detto, sta alla base del trattamento sanzionatorio attenuato.

L’undicesimo e il dodicesimo motivo mirano a contestare la condanna per il favoreggiamento personale e per i reati di lesioni e violenza privata.

Non possono trovare accoglimento perchè articolati su una opinabile ricostruzione del compendio probatorio come letto dai giudici di merito, in modo conforme in primo e secondo grado. Valgono i limiti di deducibilità di cui supra si è detto.

Inaccoglibile è anche il tredicesimo motivo, relativo al munizionamento da guerra.

La sentenza è corretta laddove ricostruisce la disciplina applicabile ai militari, attraverso un disamina anche del regolamento ufficiale dell’Arma dei carabinieri: corretto e assolutamente satisfattivo è l’assunto in forza del quale che il militare non gode di un regime giuridico più favorevole rispetto alla detenzione delle munizioni esorbitanti rispetto alla ordinaria dotazione di servizio.

Il quattordicesimo motivo contesta la determinazione della pena per la continuazione.

Non può essere accolto perchè introduce il tea della dosimetria della pena, di competenza del giudice di merito, censurabile solo in caso di illegalità della pena: caso qui non ricorrente anzi, il giudicante di secondo grado risulta avere, in dettaglio, specificato i singoli aumenti.

Analoghe considerazioni valgono per l’ultimo motivo, che riguarda la mancata concessione nel massimo delle attenuanti generiche.

In tema di determinazione della misura della pena, la valutazione del giudice di legittimità, in ordine all’efficacia ed alla completezza degli argomenti svolti in sede di merito, non può andare scissa dal risultato decisorio sotto il duplice profilo della pena in concreto irrogata e del giudizio globalmente espresso, come manifestazione del convincimento del giudice di merito. In questa prospettiva, la relativa motivazione può essere anche sintetica, quando le necessarie argomentazioni siano già state adeguatamente svolte dal giudice nell’esame di altri punti (Sezione 6^, 9 febbraio 2010, Protasi, non massimata).

In questa prospettiva, il giudicante ha spiegato le ragioni poste alle base del trattamento sanzionatone, riducendo non solo la pena per le già concesse non nel massimo attenuanti generiche, ma come detto ha finanche dettagliato i singoli aumenti per la continuazione.

La questione non può certo porsi in sede di legittimità.

La declaratoria di inammissibilità prevale su quella di estinzione dei reati anteriori al 19.11.2003 per prescrizione maturata dopo la sentenza di secondo grado (v., Sezioni unite 22 marzo 2005, Bracale, rv. 231164).

Segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1000 (mille) a titolo di sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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