Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 14-07-2011) 28-07-2011, n. 30205 Determinazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

P.G. ricorre, a mezzo del suo difensore avverso la sentenza 26 novembre 2009 della Corte di appello di Palermo la quale, in parziale riforma della sentenza 20 febbraio 2009 del Giudice dell’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Palermo, in data 20 febbraio 2009, riconosciuta al P. la circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6 ha per lui ridotta la pena inflitta ad anno uno e mesi dieci di reclusione, con conferma nel resto per il reato di cui all’art. 411 cod. pen..

La sua posizione, collegata a quella dei coimputati R., C. e Pe., già giudicati con sentenza 19 maggio 2011 di questa sezione, era stata stralciata per difetto di notifica.

1.) il capo di imputazione sub B. P., R., C. e Pe. (gli ultimi tre già giudicati sono accusati al capo B) del reato di occultamento di cadavere – aggravato in concorso ( art. 110 c.p., art. 112 c.p., nn. 1 e 2, art. 61 c.p., n. 2, art. 411 c.p., D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e art. 61 c.p., n. 6) per avere in concorso tra loro e con persone allo stato non identificate, distrutto, soppresso e comunque occultato il cadavere di B.G. al fine di occultare il reato di omicidio del capo A, e comunque di conseguire ed assicurarsi l’impunità dallo stesso. In (OMISSIS).

2.) la sentenza 20 febbraio 2009 del G.U.P. del Tribunale di Palermo.

Il G.U.P. ha dichiarato R.A., C.A., P. G. responsabili del reato di cui all’art. 411 cod. pen. esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 6.

La conclusione di colpevolezza, per il reato di occultamento di cadavere, di R.A., C.A., P.G. e Pe.Gi., è stata ottenuta valorizzando:

a) le dichiarazioni auto ed etera (nei confronti di Pe.

G.) accusatorie rese da P.G. con l’indicazione del luogo in cui il cadavere del B. era stato sepolto;

b) la presenza, nel luogo indicato dal P., di Pe.

G. alla guida di un escavatore;

c) la testimonianza di Ca.Gi., figlio del proprietario del fondo, sulla presenza del Pe. in quel luogo;

d) il rinvenimento del cadavere seppellito nel fondo indicato dal P. e nel quale era stato sorpreso il Pe..

Il G.U.P. ha ritenuto l’aggravante della premeditazione e quella della finalità di favorire l’associazione mafiosa, mentre ha esclusa l’aggravante dell’art. 61 c.p., n. 6 dato che all’epoca dei fatti nessuno degli imputati si trovava in stato di latitanza.

3.) i motivi di appello e la motivazione della sentenza della Corte di appello di Palermo.

A seguito di appello del P., la corte distrettuale, riconosciuta all’imputato la circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, ha per lui ridotta la pena inflitta ad anni uno e mesi dieci di reclusione, con conferma nel resto per il reato di cui all’art. 411 cod. pen..

I tre diversi motivi di gravame proposti in appello dalla difesa del P. hanno avuto la risposta diversificata che segue.

Col primo motivo di appello l’imputato ha dedotto che il fatto contestato al capo b) avrebbe dovuto essere qualificato sub art. 412 c.p. e non già sub art. 411 c.p. poichè egli aveva soltanto occultato il cadavere e non già soppresso o distrutto lo stesso, tanto che questo era stato, poi, rinvenuto proprio su indicazione dell’appellante.

Il motivo è stato ritenuto infondato in relazione alla definitività e non precarietà del seppellimento del cadavere in allora effettuato.

Col secondo motivo di appello il P. ha chiesto la circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6 per essersi adoperato, non soltanto per la ricostruzione del fatto e per l’individuazione dei suoi autori, ma, altresì, per restituire ai propri cari le spoglie mortali della vittima e, quindi, in sostanza, per avere posto in essere una condotta riparatoria rispetto a quella dell’occultamento del cadavere.

Il motivo è stato accolto con conseguente riduzione della sanzione finale.

Col terzo motivo di appello, il P. ha argomentato affinchè la già riconosciuta circostanza attenuante della collaborazione fosse applicata nella sua massima estensione possibile, determinando la pena in prossimità del minimo edittale. Inoltre, in sede di discussione, all’udienza del 5 novembre 2009, la difesa dell’appellante, a proposito del terzo motivo ha evidenziato che nella sentenza impugnata non risulta indicata la pena base prima della riduzione L. n. 203 del 1991, ex art. 8.

Il motivo non è stato accolto.

La corte distrettuale, in relazione a tali due ultime doglianze, ha convenuto che tale indicazione manca, essendosi il primo giudice limitato a specificare la misura della pena base già "determinata in forza della diminuente di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8" (v. pag. 73 della sentenza impugnata), ma ha ritenuto di poter sanare tale carenza individuando la pena base prima della riduzione per la circostanza attenuante della collaborazione nella misura di anni sei di reclusione.

Ciò è stato operato avuto riguardo all’estrema gravità del comportamento, desunta dal contesto mafioso in cui si è verificato il fatto e, quindi, dalla conseguente intensità del dolo, e della capacità a delinquere del colpevole, desunta dalla finalità della condotta riconducibile al cosiddetto fenomeno della "lupara bianca" (caratterizzato dall’intendimento di lasciare nel dubbio pensino i familiari sull’effettivo destino della vittima) e dalla condotta e dalla vita del reo antecedenti al reato, svolte nel segno dell’appartenenza consapevole ad una delle più pericolose realtà criminali qual è "cosa nostra" in Sicilia.

E’ stata quindi valutata congrua la diminuzione della pena base nella misura di un terzo per la collaborazione con la Giustizia e, quindi, sino alla misura di anni quattro di reclusione indicata dal primo giudice.

Una volta riconosciuta la sussistenza della circostanza attenuante prevista per l’ipotesi della dissociazione attuosa, infatti – prosegue la gravata sentenza – il giudice, al fine di determinare la pena da irrogare nell’ambito dei limiti previsti (riduzione da un terzo alla metà), deve, comunque, fare riferimento, non soltanto all’entità (sotto i profili della decisività e concretezza) dell’apporto collaborativo fornito dal reo, ma anche, nel contempo, ai criteri, stabiliti dall’art. 133 c.p., che, in via generale, devono sempre regolare l’esercizio del potere discrezionale riconosciuto al giudice medesimo dall’art. 132 c.p. allorchè si accinge ad applicare la pena.

Ed a tali criteri, secondo il giudice distrettuale, avrebbe fatto correttamente riferimento il primo giudice laddove, accanto alla rilevanza del contributo collaborativo del P., ha ricordato "la capacità a delinquere obiettivamente manifestata dall’imputato" (v. pag. 69 della sentenza impugnata).

Ora, alla stregua dei parametri di cui all’art. 133 c.p., la corte distrettuale ha ritenuto congrua l’applicazione concreta della circostanza attenuante nella misura di un terzo e non nella riduzione pari alla metà.

Osserva ancora la Corte di assise d’appello che, partendo dalla predetta misura di anni quattro di reclusione, la diminuzione per le circostanze attenuanti generiche è stata determinata dal primo giudice nella misura di un anno di reclusione, misura pressochè prossima a quella massima (pari ad anno uno e mesi quattro di reclusione).

Anche tale misura, determinata dal primo giudice, è stata considerata congrua dalla corte distrettuale, dovendosi tenere conto, non soltanto della collaborazione dell’imputato per la quale è stata riconosciuta anche la circostanza attenuante speciale di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8 ma anche di tutti i criteri di cui all’art. 133 c.p., con la conseguenza che, ai fini di limitare la diminuzione di pena sino alla sua massima estensione, non si sono trascurate le ricordate condizioni di vita anteatte del reo e, specificamente, il ruolo di rilievo ("reggente" della "famiglia" di Carini) dallo stesso ricoperto nell’ambito dell’associazione mafiosa "cosa nostra".

In conclusione la gravata sentenza ha valutato congrua, sia la misura della riduzione di pena per le circostanze attenuanti generiche, sia la pena, definita "complessivamente mite", irrogata al P., applicando peraltro l’ulteriore riduzione per la circostanza attenuante dell’art. 62 c.p., n. 6, riconosciuta appunto in appello, indicata in mesi tre di reclusione, avuto riguardo al fatto che la condotta del P. ha soltanto attenuato ma non eliso le conseguenze del reato contestatogli (per le condizioni in cui le spoglie mortali del B. sono state tenute per oltre due anni).

3.1) i motivi di ricorso del P./ e le ragioni della decisione della Corte di Cassazione.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo dell’erronea applicazione della norma di cui all’art. 411 cod. pen. versandosi nella specie nella diversa e minore ipotesi dell’art. 412 cod. pen. posto che il cadavere, non soppresso, nè distrutto, è stato restituito alla "pietas" dei familiari.

Il motivo è assolutamente privo di fondamento e scollegato dalla motivazione della corte distrettuale, in quanto ignora l’ampia e corretta argomentazione, proposta in modo lineare ed ineccepibile dalla corte distrettuale, la quale ha puntualmente tracciato gli elementi differenziali tra le due ipotesi di reato, individuando le connotazioni della condotta e dei profili soggettivi che determinano l’inquadramento dei fatti nella condotta sanzionata dall’art. 411 cod. pen., senza che contro tali argomentazioni sia stata indicata alcuna valida, ragionevole e diversa argomentazione.

Il motivo va quindi dichiarato inammissibile.

Con un secondo motivo il P. lamenta il mancato riconoscimento – nella massima estensione – dell’attenuante speciale della L. n. 203 del 1991, art. 8 nella specie realizzabile avuto riguardo alla entità, qualità, complessiva efficacia ed esiti della intrapresa collaborazione processuale.

Il motivo va accolto.

Come rilevato dal ricorrente, nella vicenda, è pacifico che la collaborazione processuale di P.G. sia stata processualmente utile ed oggetti va mente efficace per la ricostruzione dei profili di responsabilità dei concorrenti nel reato.

Peraltro, tale indiscutibile ed oggettiva qualità di apporto non ha trovato corrispondenza nella determinazione della pena. La citata norma attenuativa speciale prevede per la sua concedibilità che il reo si sia dissociato dall’organizzazione criminale di appartenenza e che abbia reso alla Autorità Giudiziaria dichiarazioni tali da permettere la ricostruzione del fatto di reato, nonchè la individuazione degli autori dello stesso: realtà quest’ultima che è stata apprezzata dai giudici di merito – come già detto – in termini di valore, importanza e assoluta genuinità delle dichiarazioni collaborative rese da P.G. nel presente, come in altri procedimenti.

Va in proposito rammentato, in adesione ad una recente e condivisibile decisione di questa stessa sezione, che la circostanza attenuante speciale "per la dissociazione", di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8 si fonda sul mero presupposto dell’utilità obiettiva della collaborazione prestata dal partecipe all’associazione di tipo mafioso e non può pertanto essere disconosciuta, o, se riconosciuta, la sua incidenza nel calcolo della pena non può essere ridimensionata, come invece avvenuto nella fattispecie, in ragione di valutazioni inerenti alla gravità del reato o alla capacità a delinquere dell’imputato o, ancora, alle ragioni che hanno determinato l’imputato alla collaborazione (Cass. pen. sez. 6, 10740/2011 Rv. 249373).

Il parametro di riferimento è quindi esclusivamente dato dal criterio della utilità obiettiva della collaborazione, prestata dal partecipe all’associazione di tipo mafioso, senza mediazioni o temperamenti, in funzione di valutazioni inerenti alla gravità del reato o alla capacità a delinquere dell’imputato.

La gravata sentenza va quindi annullata, limitatamente alla entità della diminuzione di pena, conseguente all’attenuante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8 con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di assise d’appello di Palermo che si atterrà al principio di diritto dianzi affermato.

Rigetta nel resto il ricorso.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla entità della diminuzione di pena conseguente all’attenuante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8 con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di assise d’appello di Palermo che si atterrà al principio di diritto dianzi affermato.

Rigetta nel resto il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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