Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 27-06-2011) 28-07-2011, n. 30201 Cognizione del giudice d’appello sospensione condizionale della pena

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Avverso la sentenza con cui in data 30.9-20.11.2009 la Corte d’appello di Firenze confermava la condanna inflitta dal locale GIP il 6.2.2008 a F.G. per la coltivazione domestica di piante di marijuana (fatto accertato il (OMISSIS)), assolvendolo invece da altra imputazione (detenzione illecita di circa 74 gr. di marijuana con principio attivo pari a 3,122 gr.) e quindi rideterminando la pena in un anno quattro mesi di reclusione e 1000 Euro di multa, ricorre nell’interesse dell’imputato il difensore, avv. Campanelli, con i seguenti motivi:

– violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e degli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost., in relazione al D.P.R. n. 171 del 1993, perchè l’imputato avrebbe utilizzato lo stupefacente dalla coltivazione ad uso esclusivamente personale, cosi non ledendo il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, secondo l’interpretazione data dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza 9973 del 1998;

tale destinazione della coltivazione sarebbe confermata proprio dall’assoluzione per il reato di detenzione illecita; l’insegnamento contenuto nella successiva sentenza delle Sezioni unite (n. 28605/2008), relativo alìirrilevanza della distinzione tra coltivazione domestica e in senso tecnico-agrario, sarebbe contrario al significato intrinseco del termine coltivazione (di un fondo), che non potrebbe che richiamare la nozione di imprenditore agricolo, e sarebbe pure contrastante con l’insegnamento della Corte costituzionale (il ricorrente sul punto richiama la sentenza 360 del 1994, ma probabilmente si riferisce alla 360 del 1995); in definitiva l’interpretazione contestata condurrebbe ad un "iperbolico reato contro sè stessi", in un contesto che, non violando il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, sarebbe idoneo a giustificare il nuovo ricorso alla Corte costituzionale per l’illegittimità dell’art. 73, cit. D.P.R. con riferimento agli articoli della Costituzione prima indicati;

– violazione di legge e vizi di motivazione in relazione alla mancata concessione dei benefici di legge, secondo il ricorrente non richiesti nell’atto di appello, ma comunque nelle conclusioni del primo grado, perchè la motivazione del nuovo trattamento sanzionatorio non conterrebbe alcuna ragione preclusiva, sicchè il "tacito diniego" avrebbe dovuto essere argomentato;

– violazione dell’art. 692 c.p.p., perchè la sentenza avrebbe confermato anche la condanna al pagamento delle spese di mantenimento in carcere durante la custodia cautelare, in realtà inesistente essendo il F. stato subito liberato ex art. 121 disp. att. c.p.p..

2. Il ricorso è infondato. Al suo rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

2.1 Il primo motivo è manifestamente infondato. Il ricorrente ripropone una tesi giuridica già disattesa specificamente, sia dalle Sezioni unite di questa Corte suprema con la recente deliberazione richiamata dallo stesso ricorso (sent. 28605/2008), che dalla Corte costituzionale (sent. 360/1995), entrambe le pronunzie avendo espressamente e diffusamente affrontato il punto dell’equilibrio tra i valori ed i principi giuridici pertinenti alla questione, anche dopo l’esito del referendum di cui al D.P.R. n. 171 del 1993, concludendo insieme per la radicale ed ontologica diversità tra le condotte di coltivazione e quella di utilizzazione ad uso personale di stupefacente già disponibile. In proposito, la sollecitazione del ricorrente ad una generale rivalutazione del tema è sostanzialmente generica, non introducendo elementi argomentativi di novità rispetto a quelli già diffusamente ed approfonditamente affrontati dall’autorevole giurisprudenza richiamata.

2.2 Il secondo motivo è infondato.

Va premesso che in "fatto del procedimento" conoscibile anche dalla Corte di cassazione – è pacifico che la richiesta di concessione dei benefici di legge non è mai stata proposta, dall’imputato e dalla sua difesa, nè nelle conclusioni di primo grado (differentemente da quanto genericamente dedotto in ricorso: a verbale dell’udienza 6.2.2008 risulta chiesta solo l’assoluzione), nè nei motivi d’appello, nè nelle conclusioni davanti al Giudice d’appello.

2.2.1 La questione di diritto che si pone, alla luce del motivo di ricorso, è se sussista un obbligo del giudice d’appello di motivare le ragioni della mancata concessione dei benefici di legge, o anche, ovviamente, di uno solo di essi, quando nessuna richiesta – e in nessuna forma – sia stata prospettata dall’imputato e dalla sua difesa, nè in primo nè in secondo grado del giudizio di merito, ma il concreto contenuto della deliberazione del secondo giudice avrebbe astrattamente consentito la diversa decisione sul punto.

2.2.2 Certamente, a fronte del permanente silenzio della parte potenzialmente interessata, non sussiste alcun vizio di omessa motivazione rispetto ad una domanda specifica.

2.2.3 Il ricorrente precisa che la censura andrebbe intesa essere rivolta al mancato esercizio dei poteri d’ufficio (in via eccezionale dall’art. 597 c.p.p., comma 5 assegnati al giudice d’appello, anche in ordine alla concessione dei benefici di legge), che dovrebbe essere sempre oggetto di specifica motivazione.

Si deve precisare che il tema è comunque più generale, riguardando l’esercizio in sè dei poteri d’ufficio in tutti i casi indicati dall’art. 597 c.p.p., comma 5 posto che non vi è alcuna norma, nè alcuna ragione sistematica, che giustificherebbero il riservare una speciale autonomia ai benefici di legge piuttosto che alle circostanze attenuanti o al giudizio di bilanciamento quando occorra.

Sul punto vi sono precedenti solo apparentemente contrastanti. Parte maggioritaria della giurisprudenza di legittimità esclude la necessità di una motivazione sul punto, quando il beneficio non sia stato espressamente sollecitato dalla parte almeno nelle conclusioni orali del giudizio di appello (Sez. 6, sent. 6880 del 27.1-19.2.2010;

Sez.6, sent. 4374 del 28.10.2008-2.2.2009; Sez.6, sent. 7960 del 26.1- 24.2.2004; Sez.5, sent. 41126 del 24.9-19.11.2001).

Altra parte della giurisprudenza ha insegnato invece sussistere un tale obbligo di motivazione, anche in assenza di deduzione alcuna, tuttavia decidendo fattispecie di processi nei quali la condanna era intervenuta per la prima volta in appello, su impugnazione della parte pubblica avverso la sentenza di proscioglimento del primo grado (Sez. 6, sent. 3917 del 8-28.1.2009; Sez. 5, sent. 40865 del 25.9- 7.11.2007; Sez. 3, sent. 7911 del 12-21.8.1993). Approfondisce espressamente il tema, nell’ambito di questo indirizzo, la motivazione di Sez. 6, sent. 12839 del 10.2-6.4.2005, argomentando che in questa peculiare situazione (condanna per la prima volta in appello) il giudice si trova davanti ad una richiesta del pubblico ministero di radicale riforma di una pronuncia ampiamente favorevole all’imputato, sicchè deve dare specifico conto del grado di estensione di tale accoglimento, e quindi, sotto tale profilo, spiegare perchè esso non sia contenuto, ove ne sussistano i presupposti legali, nei limiti di una condanna condizionalmente sospesa.

La sentenza Sez. 6, n. 22120 del 29.4-27.5.2009, in un caso di prima condanna in appello, ha affermato il distinto principio che il giudice d’appello, in tale evenienza, deve confrontarsi anche con le richieste subordinate avanzate dall’imputato in sede di conclusioni nel giudizio di primo grado.

Solo apparentemente le sentenze Sez. 5, n. 37461 del 20.9-14.10.2005 e Sez. 6, n. 32966 del 13.7-4.9.2001 sono da ascrivere ad un indirizzo che, stando alla loro massimazione, parrebbe imporre comunque al giudice d’appello l’obbligo di motivare, "sia pure sinteticamente", dando ragione dell’esercizio o meno del potere d’ufficio ex art. 597 c.p.p., comma 5. La prima sentenza, infatti (rigettando tuttavia il ricorso sul punto), richiama i principi affermati dalla seconda: ma questa non solo risolve in realtà proprio un caso di prima condanna in appello, oltretutto con richiesta in udienza della parte pubblica per l’applicazione del beneficio, ma si caratterizza per evidenziare il diverso tema dell’assenza di alcun automatismo tra la discrezionalità dell’esercizio dei poteri ex art. 597 c.p.p., comma 5 e la mancanza di obblighi di motivazione (così affermandone la sussistenza in presenza di sollecitazione specifica di una delle parti).

2.2.4 Sul quesito dell’esistenza o meno dell’obbligo di motivare le modalità dell’esercizio dei poteri d’ufficio riconosciuti al giudice d’appello dall’art. 597 c.p.p., comma 5 può quindi giungersi alla sintesi che esso sussiste nei casi in cui tale esercizio sia stato sollecitato da una delle parti, almeno in sede di conclusioni nel giudizio di appello, ovvero nei casi in cui intervenga condanna la prima volta in appello, in questa evenienza dovendo il giudice d’appello confrontarsi comunque anche con le conclusioni subordinate proposte dall’imputato nel giudizio primo grado.

Nel nostro caso, come già evidenziato, non risulta mai formulata formalmente alcuna richiesta relativa ai benefici, neppure sollecitata pur solo informalmente, prima del ricorso odierno.

Il ricorrente evidenzia che la pena in primo grado era ostativa ai benefici, mentre quella determinata in appello, dopo la parziale assoluzione, l’avrebbe consentita. Ma questa situazione è ontologicamente diversa da quella della condanna che intervenga per la prima volta in appello ed è anzi interamente "gestibile" dall’interessato con le proprie pertinenti richieste, nelle varie fasi processuali, di primo e secondo grado. In particolare, la richiesta di assoluzione per più reati rende del tutto prevedibile, e "gestibile", la evenienza di una assoluzione parziale con conseguente rideterminazione favorevole della pena, evenienza rispetto alla quale la parte è in grado di formulare tempestivamente, prima della sentenza d’appello, ogni possibile utile richiesta.

Proprio il richiamo all’interesse al provvedimento introduce un ulteriore concorrente argomento (che, per la verità, parrebbe anche idoneo a porre in dubbio la conclusione cui perviene la ricordata parte di giurisprudenza per il caso della prima condanna in appello, contesto nel quale l’imputato è pur attivamente presente ed in grado di formulare ogni propria articolata richiesta, principale e subordinata, rispetto all’impugnazione che lo colpisce, specialmente in ordine ad un punto della decisione – la concessione dei benefici nel caso di condanna – che certo non è "sorprendente" o di difficile individuazione o di secondario e addirittura trascurabile rilievo).

Infatti, occorre tenere presente che il giudizio di appello chiude la fase di merito, con ciò rendendo ormai irrilevanti tutte le argomentazioni e gli elementi vari afferenti il fatto, quindi l’opportunità di una scelta piuttosto dell’altra. Questo comporta che, a fronte della concessione di benefici che intervenga d’ufficio ma senza una previa sollecitazione di una delle parti (quella direttamente interessata o la parte pubblica, con una richiesta, quest’ultima, che mette l’imputato nelle condizioni di poter interloquire specificamente sul punto), ben potrebbe darsi la situazione di una concessione legittima – perchè avvenuta in circostanze giuridiche che la consentono – ma ritenuta inopportuna dalla parte destinataria, che potrebbe avervi avuto nessun interesse ovvero un interesse esattamente contrario, ad esempio preferendo un’espiazione di pena secondo una delle soluzioni alternative previste dall’ordinamento penitenziario, per le più diverse possibili ragioni. Orbene in un tal caso, la parte destinataria della concessione d’ufficio ma senza sollecitazione preventiva, si vedrebbe privata di ogni ulteriore possibilità di contestazione della decisione nel merito, per i noti ristrettissimi limiti del ricorso per cassazione. Ed è quindi, conclusivamente, evidente che assolutamente paradossale sarebbe da un lato imporre al giudice di motivare sul perchè non ha concesso un beneficio mai richiesto o sollecitato dall’interessato, che ogni opportunità in proposito abbia ripetutamente avuto, e dall’ altro prevedere la legittimazione al ricorso per cassazione per la dichiarata mancanza di interesse di chi si vedesse destinatario di un beneficio non richiesto o sollecitato.

Va pertanto escluso il vizio di motivazione dedotto.

2.3 Il terzo motivo è manifestamente infondato o generico: dallo stesso documento allegato al ricorso risulta che l’arresto sarebbe stato eseguito il giorno (OMISSIS), mentre il decreto di liberazione è del giorno 10 alle ore 11.45 ed è indirizzato alla polizia penitenziaria presso il carcere di (OMISSIS). Il che costituisce allo stato prova di almeno una notte di detenzione, essendo irrilevante, al fine del recupero delle spese di mantenimento, la successiva liberazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2011

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *