Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 21-06-2011) 28-07-2011, n. 30049

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 25 giugno 2010, la Corte d’Appello di Lecce riformava parzialmente la sentenza con la quale, in data 4 giugno 2006, il Tribunale di Brindisi – Sezione Distaccata di Francavilla Fontana, condannava M.A.M. per i reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b) e art. 44, lett. a) e art. 349 c.p., avendo la stessa eseguito interventi di completamento di un immobile sottoposto a sequestro penale ed oggetto di ordine di sospensione emesso dal competente ufficio comunale e per aver eseguito lavori in parziale difformità dal permesso di costruire, consistiti nell’ampliamento del piano terra di un costruendo edificio fino ad ottenere una maggiore superficie di mq. 13,50 e nella chiusura di una veranda, prevista in progetto, ottenendo un locale di mq. 16,50.

Avverso tale decisione la predetta proponeva ricorso per cassazione.

Con un primo motivo di ricorso deduceva la violazione dell’art. 521 c.p.p. ed il vizio di motivazione, osservando che la Corte territoriale aveva condiviso e ribadito la infrazione del principio di correlazione tra sentenza ed accusa già commessa dal Giudice di prime cure mediante la riqualificazione del fatto originariamente contestato come intervento in parziale difformità dal titolo abilitativo in intervento in difformità totale dal titolo medesimo.

Con un secondo motivo di ricorso denunciava la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 31 e 32 in relazione agli artt. 44, 3 e 10 del medesimo D.P.R. ed il vizio di motivazione relativamente alla qualificazione dell’intervento come eseguito in difformità totale dal permesso di costruire, rilevando che detto intervento era da ritenersi di minima entità ed era possibile inquadrare le opere eseguite anche come elemento pertinenziale dell’immobile o volume tecnico necessario per la utilizzazione della struttura già esistente.

Con un terzo motivo di ricorso deduceva violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 e art. 349 c.p. e vizio di motivazione, in quanto il provvedimento impugnato non forniva adeguate indicazioni circa la condotta penalmente valutata ed individuata nella prosecuzione dei lavori, alla quale la Corte territoriale aveva ricondotto le due diverse ipotesi di reato previste dalle menzionate disposizioni, peraltro evidenziando come la violazione dell’art. 349 c.p. non presupponga la materiale effrazione dei sigilli e senza alcuna considerazione in ordine alla sussistenza o meno dell’elemento psicologico del reato.

Con un quarto motivo di ricorso deduceva la violazione dell’art. 29 in relazione al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 e degli artt. 42 e 43 c.p., nonchè il vizio di motivazione avendo la Corte d’Appello individuato la ricorrente quale responsabile degli illeciti senza considerare che la sola proprietà dell’area non consentiva di affermare automaticamente la responsabilità per gli interventi abusivi eventualmente seguiti sulla stessa in assenza di comportamenti positivi indicativi, quantomeno, di un concorso morale.

Con un quinto motivo di ricorso denunciava la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 e art. 54 c.p. ed il vizio di motivazione lamentando il mancato riconoscimento, da parte dei giudici del gravame, della scriminante di cui all’art. 54 c.p., stante l’evidente necessità di un alloggio che l’aveva indotta alla realizzazione dell’intervento edilizio sanzionato.

Con un sesto motivo di ricorso deduceva la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31 in relazione all’art. 165 c.p. ed il vizio di motivazione, in quanto i giudici dell’appello avrebbero omesso di motivare l’impugnato provvedimento nella parte in cui veniva disposta la demolizione dell’intervento eseguito, condizionando all’esecuzione della stessa la sospensione condizionale della pena dovendosi valutare, ai fini della imposizione dell’ordine demolitorio, anche la concreta offensività dell’illecito contestato.

Con un settimo motivo di ricorso deduceva la violazione degli artt. 349 e 133 c.p. ed il vizio di motivazione lamentando l’assenza di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della prevalenza delle attenuanti generiche riconosciute rispetto alle contestata aggravante.

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

Occorre rilevare, con riferimento al primo motivo di ricorso che correttamente i giudici del gravame non hanno ravvisato alcuna violazione del principio di correlazione tra imputazione contestata e sentenza.

Va ricordato a tale proposito che, anche recentemente, le Sezioni Unite penali di questa Corte (SS. UU. n. 36551, 13 ottobre 2010) richiamando una precedente pronuncia delle medesime Sezioni (SS. UU. n. 16, 22 ottobre 1996) hanno chiarito che per aversi mutamento del fatto "occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione".

Ciò posto, deve osservarsi che, nella fattispecie, il fatto storico è rimasto sempre immutato in quanto oggetto della contestazione era un intervento consistito in "…ampliamento del piano terra fino ad ottenere una maggiore superficie di mt. 13,50" e nella "tampagnatura della veranda prevista in progetto, tanto da ottenere un locale della superficie di mt. 16,50".

Tale fatto è stato diversamente qualificato dal giudice di prime cure e considerato riconducibile all’ipotesi della difformità totale piuttosto che a quella della parziale difformità originariamente indicata in rubrica.

La diversa qualificazione del fatto materiale rientra tra i poteri del giudice a mente dell’art. 521 c.p.p., comma 1. Tali poteri sono stati, nella fattispecie, correttamente esercitati senza alcuna lesione del diritto di difesa, poichè in ordine al fatto come sopra indicato il ricorrente ed il suo difensore hanno potuto liberamente interloquire, esercitando con pienezza i loro diritti.

La qualificazione giuridica del fatto, oggetto di censura nel secondo motivo dì ricorso, appare peraltro correttamente effettuata.

La definizione di totale difformità è contenuta nell’art. 31 del TU edilizia, il quale precisa che sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l’esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile.

La giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3 n. 3593, 27 gennaio 2009) ha già chiarito che l’espressione "organismo edilizio" indica sia una sola unità immobiliare, sia una pluralità di porzioni volumetriche e la difformità totale può riconnettersi tanto alla costruzione di un corpo autonomo, quanto all’effettuazione di modificazioni con opere, anche soltanto interne, tali da comportare un intervento che abbia rilevanza urbanistica in quanto incidente sull’assetto del territorio attraverso l’aumento del cd. "carico urbanistico".

Difformità totale può aversi, inoltre, anche nel caso di mutamento della destinazione d’uso di un immobile o di parte di esso, realizzato attraverso opere implicanti una totale modificazione rispetto al previsto.

Il riferimento alla "autonoma utilizzabilità" non impone che il corpo difforme sia fisicamente separato dall’organismo edilizio complessivamente autorizzato, ma ben può riguardare anche opere realizzate con una difformità quantitativa tale da acquistare una sostanziale autonomia rispetto al progetto approvato.

La difformità totale si verifica allorchè si costruisca "aliud pro alio" e ciò è riscontrabile allorchè i lavori eseguiti tendano a realizzare opere non rientranti tra quelle consentite, che abbiano una loro autonomia e novità, oltre che sul piano costruttivo, anche su quello della valutazione economico-sociale.

Per contro, si ha difformità parziale, nelle ipotesi tra le quali possono farsi rientrare gli aumenti di cubatura o di superficie di scarsa consistenza, nonchè le variazioni relative a parti accessorie che non abbiano specifica rilevanza.

Alla luce di tali considerazioni, pienamente condivise dal Collegio e dalle quali non ci si intende discostare, appare di tutta evidenza come la realizzazione di una maggiore superficie al piano terra del fabbricato, con suddivisione in due vani non previsti in progetto e la creazione di un terzo locale mediante la chiusura di una veranda possano collocarsi tra gli interventi in difformità totale, in quanto aventi senza dubbio rilevanza urbanistica e recando gli stessi quel requisito di sostanziale autonomia rispetto al dato progettuale originario richiesto dalle disposizioni richiamate.

E’ inoltre evidente che interventi siffatti sono chiaramente finalizzati ad assolvere a permanenti finalità abitative, con l’ulteriore conseguenza che deve escludersi la loro natura pertinenziale o di volume tecnico, non potendo essere considerati come vani accessori a servizio della costruzione principale, bensì quali ampliamento ed ambienti completamente nuovi.

Patimenti infondato risulta il terzo motivo di ricorso.

Sul punto deve rilevarsi che la contestazione riportata in rubrica è inequivocabile: la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b) viene ipotizzata con riferimento alla prosecuzione ed il completamento dell’intervento edilizio, mediante la completa rifinitura del manufatto, nonostante l’emissione dell’ordinanza di sospensione dei lavori emessa dal responsabile dell’ufficio tecnico comunale (vi è anche il riferimento agli estremi del provvedimento amministrativo: n. 499 del 29 novembre 2011). Trattandosi di interventi che venivano eseguiti su immobile sottoposto a sequestro penale, veniva contestata anche la violazione di sigilli.

Anche in questo caso la qualificazione giuridica della condotta posta in essere dalla ricorrente appare corretta.

Infatti, il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. B) sanziona penalmente anche la prosecuzione di lavori nonostante l’ordine di sospensione degli stessi emesso dalla competente autorità comunale.

Il provvedimento cautelare di sospensione si colloca nel complesso procedimento amministrativo sanzionatorio conseguente all’esercizio dell’attività di vigilanza che la normativa urbanistica impone al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale.

Il reato in esame è del tutto autonomo rispetto a quello previsto per l’esecuzione dei lavori in assenza di permesso dal medesimo art. 44, lett. B) con il quale, pertanto, può concorrere (v. Sez. 3 n. 18199, 17 maggio 2005; Sez. 3 n. 37320, 10 ottobre 2007).

Va peraltro rilevato che il provvedimento inibitorio emesso dall’amministrazione comunale deve essere portato a conoscenza dei destinati cui viene notificato e la conoscenza dell’atto e del suo contenuto evidenzia, qualora l’attività edilizia venga comunque proseguita, la piena sussistenza dell’elemento soggettivo del reato.

In tal senso si è correttamente orientata la Corte territoriale, evidenziando anche che sulla regolarità della notificazione dell’ordinanza sospensiva alla ricorrente non vi era stata, in giudizio, alcuna contestazione.

Parimenti corretta appare la ritenuta configurabilità, attraverso la condotta di prosecuzione dei lavori sull’immobile vincolato da un provvedimento di sequestro penale, del concorrente reato di violazione di sigilli secondo un pertinente richiamo a consolidati principi espressi dalla giurisprudenza di questa Corte.

Resta da osservare che a nulla rileva, per la configurabilità di tale delitto, la entità e tipologia dell’intervento eseguito nonostante il sequestro, atteso che il reato si perfeziona attraverso qualsiasi condotta idonea a violare il vincolo di immodificabilità apposto sulla cosa nell’interesse dell’amministrazione della giustizia.

Anche l’infondatezza del quarto motivo di ricorso appare di macroscopica evidenza.

Viene invero contestato alla Corte territoriale di aver pretermesso qualsiasi verifica in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato ed alla riconducibilità alla ricorrente dell’attività edilizia in contestazione, ponendo l’accento sulla circostanza che l’essere proprietaria dell’area interessata dai lavori non ne determina automaticamente la responsabilità.

Tale ultimo concetto è certamente corretto ma non pertinente alla vicenda in esame, relativamente alla quale la Corte d’Appello, con accertamento in fatto del tutto immune da cedimenti logici e, come tale, insindacabile in questa sede di legittimità, ha dato atto di una serie di circostanze univocamente indicative della attribuibilità delle condotte illecite contestate alla persona della ricorrente ed alla piena sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati ipotizzati.

Chiariscono infatti i giudici del gravame che la ricorrente risulta proprietaria dell’immobile e titolare del permesso di costruire e, in quanto tale, unica interessata all’esecuzione dei lavori, nonchè destinataria dell’ordinanza sospensiva che, regolarmente notificatale, ha scientemente disatteso.

Viene inoltre espressamente richiamato il contenuto dell’esame cui la ricorrente si era sottoposta nel corso del giudizio di primo grado ammettendo di aver realizzato l’immobile nel suo complesso.

A conclusioni analoghe deve giungersi per quanto attiene il quinto motivo di ricorso.

Relativamente alla scriminante dello stato di necessità, infatti, la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’escluderne l’applicabilità in tema di costruzione abusiva, sul presupposto che è di regola evitabile il pericolo di restare senza abitazione, sussistendo la possibilità concreta di soddisfare il bisogno attraverso i meccanismi di mercato e dello stato sociale ed in considerazione dell’ulteriore elemento, necessario per l’applicazione della scriminante, del bilanciamento tra il fatto commesso ed il pericolo che l’agente intende evitare (v. Sez. 3 n. 7015, 17 maggio 1990).

Si è successivamente osservato che il danno grave alla persona, cui fa riferimento l’art. 54 c.p., deve essere inteso come ogni danno grave ai diritti fondamentali dell’individuo, tra i quali non rientra soltanto la lesione della vita o dell’integrità fisica ma anche quella del diritto all’abitazione, devono però sussistere comunque tutti i requisiti richiesti dalla legge, la valutazione dei quali deve essere effettuata in giudizio con estremo rigore (Sez. 3 n. 11030, 1 ottobre 1997).

Più recentemente, per escludere l’applicabilità della scriminante in questione, si è posto l’accento sulla mancanza dell’ulteriore requisito della inevitabilità del pericolo, osservando che l’attività edificatoria non è vietata in modo assoluto, ma è consentita nei limiti imposti dalla legge a tutela di beni dì rilevanza collettiva, quali il territorio, l’ambiente ed il paesaggio, che sono salvaguardati anche dall’art. 9 Cost.. Di conseguenza, se il suolo è edificabile, le disagiate condizioni economiche non impediscono al cittadino di chiedere il permesso di costruire. Se il suolo non è edificabile, il diritto del cittadino a disporre di un’abitazione non può prevalere sull’interesse della collettività alla tutela del paesaggio e dell’ambiente (Sez. 3 n. 28499, 10 luglio 2007, V. anche Sez. 3 n. 41577 12 novembre 2007;

Sez. 3 n. 35919, 19 settembre 2008).

Tali condivisibili principi vanno dunque ribaditi, rilevando come la Corte territoriale, nell’applicarli, abbia evidenziato che il difetto dei presupposti per riconoscere alla ricorrente di aver agito in stato di necessità era comunque rivelato dalla possibilità per la stessa di richiedere il titolo abilhativo necessario alla realizzazione dell’ampliamento e dalla presenza di disponibilità economica necessaria a sopperire, con soluzioni alternative, ad eventuali impellenti esigenze abitative.

La decisione impugnata si presenta del tutto immune da censure anche per quanto attiene il punto in contestazione nel sesto motivo di ricorso.

Non vi era infatti alcun obbligo, per i giudici del merito, di una specifica motivazione in ordine alla concreta offensività dell’intervento abusivo per impartire l’ordine di demolizione all’esecuzione del quale hanno legittimamente subordinato il beneficio della sospensione condizionale della pena (v., da ultimo, Sez. 3 n. 38071, 16 ottobre 2007).

Invero, il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31 prevede, al comma 9, che il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 44, ordini la demolizione delle opere se ancora non sia stata altrimenti eseguita.

Tale provvedimento non ha natura discrezionale, tanto è vero che deve essere emanato anche in caso di decreto penale o di applicazione della pena si sensi dell’art. 444 c.p.p. (v. Sez. 3 n. 24265, 20 giugno 2007) anche in difetto di accordo tra le parti (v. Sez. 3 n. 24087, 13 giugno 2008).

Ne consegue che l’accertamento dell’illecito urbanistico ne imponeva comunque al giudice l’emanazione.

Ad un giudizio di infondatezza deve infine pervenirsi anche con riferimento al settimo motivo di ricorso.

I giudici dell’appello hanno correttamente riesaminato la dosimetria della pena ed il giudizio di comparazione tra aggravanti e attenuanti rilevando, con motivazione coerente ed immune da salti logici, che la pena irrogata era da ritenersi adeguata alla gravità dei fatti contestati ed era stata attestata dal giudice di prime cure in prossimità del minimo edittale, applicando poi un contenuto aumento per la continuazione.

Veniva altresì palesata la incongruità di un diverso trattamento sanzionatorio rispetto alla gravità della condotta posta in essere, valorizzando gli stessi parametri di valutazione, unitamente alla gravità dell’intervento, alla gravità delle violazioni ed all’intensità del dolo per escludere la possibilità di un giudizio di prevalenza delle attenuanti rispetto alle aggravanti contestate.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente la pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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